Tag: <span>emozioni</span>

CHE COS’È LA COMPASSIONE?

Quando sentiamo parlare di compassione, possiamo essere indotti a considerarla come qualcosa di negativo, di vicino alla pietà o alla pena. In realtà, in queste ultime è come se ci fosse un dislivello tra chi soffre e chi vede soffrire, non c’è condivisione. Se analizziamo l’etimologia della parola compassione scopriamo come essa derivi dal greco e significhi, letteralmente “soffrire con”.

Nella compassione, quindi, c’è condivisione di sofferenza o, meglio, si prova compassione quando si empatizza con l’altro consapevoli del fatto che il dolore che lo sta affliggendo potrebbe un giorno o l’altro affliggere anche noiSi parla in questo caso di common humanity, umanità condivisa: come esseri umani siamo tutti imperfetti, fallibili, vulnerabili al dolore e desiderosi di sperimentare un po’ di pace.

Nel buddismo la compassione rappresenta una delle qualità della mente pura.

Gilbert, ideatore della Terapia Focalizzata sulla Compassione (Compassion Focused Therapy, CFT), la definisce come una particolare sensibilità alla sofferenza propria e degli altri, unita a un forte desiderio e all’impegno nell’alleviarla e prevenirla.

È importante porre l’accento sull’ultima parte, ovvero sul desiderio di alleviare e prevenire la sofferenza, per scongiurare il rischio di confondere la compassione con la giustificazione della propria o altrui condizione considerata come immutabile. Praticare la compassione ci permette di riconoscere e accogliere la sofferenza, integrandola nella storia e nel vissuto di chi la prova. Dopo averla riconosciuta, non ci si deve semplicemente arrendere ad essa, anzi, essere compassionevoli ha molto a che vedere con fermezza e autorevolezza, fornendo una spinta gentile verso un cambiamento che permetta di allineare azioni e valori e di accrescere il proprio senso di sicurezza e fiducia. La compassione è sì calore e gentilezza, ma anche assertività e coraggio!

Possiamo riconoscere tre flussi di compassione:

verso gli altri;
dagli altri verso di noi;
verso noi stessi (autocompassione).

Il primo tipo di compassione citato è forse il più semplice da provare. Gli altri due tipi, infatti, presuppongono lo “spegnimento” della tendenza all’autocritica. Riuscire a provare autocompassione o aprirsi alla compassione altrui presuppone la capacità di sospendere il giudizio verso se stessi e spesso tale abilità non ci viene naturale ma va allenata, specie se non se ne è fatta esperienza in età precoce.

La compassione di sé si impara dagli altri e dalla relazione con gli altri.

Come allenarla dunque, se non si ha avuto la possibilità di apprenderla dall’interazione con le prime figure significative? Un passo fondamentale è rappresentato dalla consapevolezza delle nostre emozioni difficili e di ciò che le scatena (i cosiddetti trigger). Sarà poi importante lasciare a tali emozioni lo spazio che meritano, senza giudicarle ma piuttosto riconoscendone la storia (da dove arrivano? perché in circostanze specifiche ci attiviamo sempre nello stesso modo?). Quindi bisognerà trovare le giuste strategie per calmare quelle emozioni, percependo come provarle non significhi necessariamente essere in pericolo e che, anche se fosse, abbiamo degli strumenti per prendercene cura. Infine, conoscere ciò che è davvero importante per noi potrà orientare le nostre azioni, attivandoci nell’ottenimento di quello che conta davvero nella nostra vita.

Dott.ssa Arianna Calabrese

Psicologa-Psicoterapeuta

 

Bibliografia

Gilbert, P. (2016). La terapia focalizzata sulla compassione: Caratteristiche distintive. (N. Petrocchi, Trad.). Milano: Franco Angeli.

Gilbert, P., & Procter, S. (2006). Compassionate Mind Training for People with High Shame and Self-Criticism: Overview and Pilot Study of a Group Therapy Approach. Clinical Psychology & Psychotherapy, 13(6), 353–379.

L’OMBRA INVISIBILE: LA VERGOGNA

Quando pensiamo alle emozioni, la nostra mente volge in automatico alla felicità, tristezza, paura, rabbia o disgusto. Questo accade perché esse rappresentano le cosiddette emozioni primarie (o di base). Si tratta di emozioni innate che in quanto tali, non hanno bisogno di accedere alla consapevolezza per essere provate. Forniscono importanti ed utili informazioni di ciò che accade dentro di noi e di ciò che accade agli altri e ci permettono di dirigere il nostro comportamento e le nostre azioni all’interno delle relazioni. Esistono tuttavia, una serie di altre emozioni definite come emozioni secondarie. Si tratta di apprendimenti di tipo sociale o di comportamenti e pensieri che derivano dalle emozioni primarie. Tra queste, esiste un particolare tipo di emozione che molto spesso viene trascurata e sottovalutata: la vergogna.

La vergogna è un’emozione sociale complessa che emerge principalmente in una dimensione interpersonale. È associata al timore che gli altri, solitamente ritenuti superiori (più intelligenti, più belli, più forti, più bravi…semplicemente “più”), possano giudicarci o avere un’idea negativa di noi. È inoltre, un’emozione che si attiva non solo quando si ha il timore che l’altro possa giudicarci ma anche quando, il giudizio negativo di essere imperfetti, difettosi, quindi, inferiori parte direttamente da noi stessi.

Da un punto di vista evoluzionistico, la vergogna rappresenta una strategia difensiva di sottomissione. Se pensiamo al regno animale, e per un attimo immaginiamo una scena di lotta, è possibile che ad un certo punto, la preda possa decidere di gettarsi a terra con le zampe in aria, scoprendo la parte addominale. Nell’ottica di un sistema agonistico, quale la lotta, questo tipo di atteggiamento fa sì che la preda possa inviare al suo predatore, un messaggio di non-sfida, mostrandosi vulnerabile (la parte addominale visibile ed esposta rappresenta infatti, la zona in cui sono contenuti gli organi vitali e quindi, quella più importante da proteggere), per porre fine all’attacco subito (Price e Sloman 1987; Gilbert 1992) e quindi, sopravvivere. In questo modo, avrà riconosciuto la superiorità del suo aggressore per potersi salvare, ponendosi, in automatico, in una condizione di inferiorità. Tuttavia, se per la maggior parte degli animali la minaccia è rappresentata dall’aggressione fisica, per gli uomini il timore è legato anche alla perdita di accettazione e approvazione sociale, che può innescare vissuti di vergogna fino a diventare veri e propri stati depressivi che possono indurre a forme estreme di evitamento come, il ritiro sociale, isolamento o il suicidio. Sappiamo tutti quanto sia importante il senso di appartenenza ad un gruppo sociale, proprio in ragione del fatto che, l’essere umano è esso stesso un animale sociale. Ha un bisogno innato di essere in relazione all’Altro. Tuttavia, così come è intrinseco il desiderio di affiliazione e appartenenza, al tempo stesso è difficile e complicato tessere e intrattenere relazioni stabili, durature e funzionali soprattutto se inficiate dalla percezione costante dell’altro come “essere superiore” e quindi, minaccioso al proprio senso di sé. A lungo andare, questa sensazione può incidere in modo significativo, sul benessere dell’individuo andando di conseguenza, a danneggiare il proprio senso di sé e la propria autostima in termini di impotenza e inferiorità (Doran e Lewis 2011).

Chi prova vergogna, sente sopraggiungere, in modo improvviso, sensazioni e pensieri talmente spiacevoli da diventare fonte di ulteriore disagio. A livello fisiologico si caratterizza per la presenza di rossore sul volto, tachicardia, sudorazione eccessiva, sguardo abbassato e una sensazione di caldo/freddo intensi. Queste sensazioni somatiche sono spesso, accompagnate dalla percezione di “rimpicciolire” e voler diventare “trasparenti”, “invisibili”, per sottrarsi al rischio di essere visti dentro per quello che si crede essere realmente: degli individui non degni, malevoli, difettosi. Sempre da un punto di vista fisiologico, recenti studi (Mills et al., 2008) affermano che bambini che hanno sperimentato frequenti e ripetuti vissuti di vergogna mostrano livelli di cortisolo più alti della media. L’ipotesi è che si tratti di un’emozione associata ad alti livelli di stress che vanno ad incidere di conseguenza, in modo disfunzionale, sulle strategie di coping messe in atto per fronteggiare la situazione minacciosa. Così come accade di fronte a situazioni altamente stressanti, in cuisi è sopraffatti da un’intensa emozione di paura, anche quando si prova un’intensa vergogna, il rischio è che le funzioni cognitive, come attenzione, concentrazione, linguaggio, capacità di organizzazione e pianificazione vadano in blackout. Si potrà apparire così, goffi, sconnessi, poco abili nel compiere azioni o trovare le parole per articolare un discorso. La conseguenza sarà che, un qualsiasi tipo di performance intrapresa, dalla più semplice come colloquiare con un amico alla più complessa come parlare di fisica quantistica di fronte ad una platea di luminari, ne sarà inficiata. Questo andrà così, a confermare e alimentare le proprie credenze negative di base. A livello cognitivo, infatti, le convinzioni negative più frequenti sono quelle del tipo, “sono imperfetto, sbagliato, brutto, incompetente, inadeguato, rifiutato, debole”. Infine, le risposte comportamentali che spesso si manifestano sono quelle tipiche della paura come attacco, fuga o paralisi. Non a caso, quello di cui si ha più paura ed è vissuto come minaccioso, è il possibile giudizio negativo dell’altro. Ci sono inoltre, alcuni comportamenti di compensazione che vengono messi in atto, al solo scopo di proteggersi, come essere compiacenti, biasimare e criticare l’altro per cercare di ribaltare la posizione di inferiorità in cui ci si sente o credere che solo se si è perfetti non si avrà più nulla di cui vergognarsi (Potter-Efron 1998; Rossi et al. 2011).

Nel corso degli ultimi decenni, sono stati identificati differenti sottotipi di vergogna. Nel 1997, Gilbert ha effettuato una prima distinzione tra vergogna interna ed esterna. La prima è legata alle esperienze di autovalutazione e a un senso di sé percepito come inadeguato e inferiore. Nella seconda, invece, la persona è focalizzata sul timore di essere criticata e vista come imperfetta, sbagliata (Goss e Allan 2009) e, quindi, di poter essere rifiutata (Kim et al. 2011). Secondo Greenberg e collaboratori (2000) invece, la vergogna può essere definita “primaria” quando associata al timore di ledere la propria immagine o autostima e “secondaria”, quando emerge in relazione all’esperire il proprio stato emotivo (ci si può vergognare di avere paura, di essere tristi, arrabbiati o felici). La vergogna poi, può essere intesa in termini adattivi e disadattivi. Come tutte le emozioni, ha un carattere adattivo e funzionale, se legata ad una situazione specifica e non è cronica. Diventa, invece, disadattiva quando è connessa ad un’idea profonda di sé come inaccettabile, indegna e manchevole derivata non solo da valutazioni esplicite e accessibili alla consapevolezza, ma anche da processi impliciti, automatici e inconsapevoli (Castelfranchi, 2005). Infine, vi è un tipo di vergogna definita meta-vergogna. L’oggetto che crea imbarazzo è la vergogna stessa. Si prova quindi, vergogna della propria stessa vergogna. In questi casi, si teme di essere giudicati negativamente per il fatto stesso di vergognarsi (Orazi e Mancini 2011). Con la meta-vergogna, la vergogna diventa ancora più intensa, e spesso innesca circoli viziosi in cui, vergogna e meta-vergogna si autoalimentano a vicenda e diventano difficili da disinnescare.

Ma come si sviluppa tutto questo?

Secondo Lee e collaboratori (2001), lo stile di attaccamento, l’aver vissuto eventi di vita traumatici come ripetute esperienze di umiliazione, critica o derisione e fenomeni di bullismo, possono essere considerati fattori di rischio all’origine dello sviluppo di una particolare sensibilità all’emozione della vergogna. Questo tipo di esperienze possono infatti, contribuire allo sviluppo di schemi, rappresentazioni e credenze di sé negative.

Recenti ricerche hanno dimostrato che bambini con esperienze di abbandono, trascuratezza, maltrattamenti e abusi quindi, con storie di sviluppo traumatiche (PTSDc), presentano un rischio maggiore di sviluppare schemi di sé caratterizzati da elevati vissuti di vergogna (Alessandri e Lewis 1996; Kelley et al. 2000; Mills 2003; Stuewig e McCloskey 2005). Infatti, sembrerebbe che il tipo di cure genitoriali sia un fattore predittivo nello sviluppo di emozioni come la vergogna cronica. Aver fatto esperienza continua di un genitore ipercritico, rifiutante, maltrattante, negligente o iperprotettivo può innescare vissuti di inadeguatezza,incapacità, debolezza, inferiorità, facilitando così, l’emergere dellavergogna. A tal proposito, Schore (1994, 1996, 1997) suggerisce che una mancata “connessione emotiva” del genitore nei confronti del bambino, possa essere all’origine di tali vissuti. L’assenza di riparazione di questo fallimento comunicativo fa sì che il bambino sperimenti profondi vissuti di umiliazione e non amabilitàcontribuendo ad amplificare e radicare in sé, il senso di inferiorità.

Matos e Gouveia (2010) inoltre, hanno mostrato che precoci ricordi di esperienze di vergogna possono avere lo stesso impatto degli eventi traumatici, essendo caratterizzati da intrusività, presenza di flashback, risposte di evitamento e stati di dissociazione. Inoltre, gli stessi autori sostengono che gli episodi di vergogna possono diventare parte centrale e integrante dell’identità stessa del soggetto. Questo indurrà a compiere continue e stancanti inferenze negative su se stessi e su se stessi nella mente dell’altro. Una persona che nel corso dello sviluppo ha maturato credenze di sé come inadeguato, difettoso, non degno o inferiore, tenderà a costruire schemi fondati sulla vergogna, che si consolideranno nel tempo e spingeranno ad interpretare le informazioni provenienti dall’ambiente circostante, in base a queste stesse convinzioni. Il risultato è un circolo vizioso che si autoalimenta e che va nella direzione di una maggiore predisposizione ad una vulnerabilità alla vergogna sempre crescente. La sensibilità al giudizio sociale diventa così, fonte di stress e allerta in quanto, minaccia “letale” alla propria identità. Secondo Gilbert (2004) infatti, le credenze negative hanno un ruolo cruciale nel mantenimento dell’immagine di sé come vergognosa. Esisterebbero tre differenti modalità attraverso cui la persona tende a giudicarsi e ad alimentare la propria immagine di sé negativa: inadeguate self, ovvero una forma di autocritica in cui prevale il senso di inadeguatezza che impedisce di vedere ipotesi alternative e ostacola il processo di auto-rassicurazione; hated self, dove l’autocritica è caratterizzata da un desiderio di ferirsi e un sentimento di disgusto verso se stessi; ed infine, la self reassurance, una modalità di auto-rassicurazione che permette all’individuo di mantenere un atteggiamento benevolo nei riguardi del sé.

Concludendo possiamo dire che la vergogna soprattutto quando cronica e invalidante, è un’emozione che porta con sé un mondo sommerso da acque scure e profonde che spesso, inghiottiscono totalmente e diventano un ostacolo alla possibilità di tornare a galla. L’unica possibilità per sopravvivere, quando non ci sono altre vie d’uscita, diventa rendersi invisibili o soccombere.

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

Ainsworth M & Bowlby J (1991). An ethological approach to personality development. American Psychologist 46, 333-341.

Alessandri S M & Lewis M (1996). Differences in pride and shame in maltreated and non-maltreated preschoolers. Child Development 67, 1857-1869.

Basile B, La vergogna in psicopatologia Cognitivismo Clinico (2014) 11, 1, 27-61.

Castelfranchi C (2005). Che figura. Il Mulino, Bologna.

Doran J & Lewis C A (2011). Components of shame and eating disturbance among clinical and non clinical populations. European Eating Disorder Review 20, 265-70.

Gilbert P (1992). Depression: The Evolution of Powerlessness. Lawrence Erlbaum Associates, New York.

Gilbert P (1997). The evolution of social actractiveness and its role in shame, humiliation, guilt and therapy. British Journal of Medical Psychology 70, 113-147.

Gilbert P, Clarke M, Hempel S, Miles J N V, Irons C (2004). Criticising and reassuring oneself: An exploration of forms, styles and reasons in female students. The British Journal of Clinical Psychology 43, 31-50.

Goss K & Allan S (2009). Shame, pride and eating disorders. Clinical Psychology Psychotherapy 16, 303-16.

Greenberg Leslie S, Paivio Sandra C (2000). Lavorare con le Emozioni in Psicoterapia Integrata. Sovera Edizioni, Roma.

Kelley S A, Brownell C A, Campbell S B (2000). Mastery motivation and self-evalutive affect in toddlers: Longitudinal relations with maternal behaviour. Child Development 71, 1061-1071.

Kim S, Thibodeau R, Jorgensen RS (2011). Shame, guilt, and depressive symptoms: a meta analytic review. Psychological Bullettin 137, 68-96.

Lee, Scragg P, Turner S (2001). The role of shame and guilt in traumatic events: A clinical model of shame based and guilt-bases PTSD. British Journal of Medical Psychology 74, 451-467.

Matos M & Gouveia J P (2010). Shame as a Traumatic Memory. Clinical psychology and Psychotherapy, 17, 299-312

Mills R S L (2003). Possible antecedents and developmental implications of shame in young girls. Infant and Child Development, 12, 329-349.

Mills R L, Imm G P, Walling B R, Weiler H A (2008). Cortisol reactivity and regulation associated with shame responding in early childhood.Developmental Psychology 44, 1369-1380.

Potter-Efron R & Potter-Efron P (1998). Vincere la vergogna. Come superare timidezza, imbarazzo, rossori e senso di colpa. Franco Angeli.

Price J S & Sloman L (1987). Depression as yielding behaviour: an animal model based on Schjelderup Ebb’s pecking order. Ethology and Sociobiology 8 (suppl.) 85-98.

Rossi A, DanielsKi V, Pertile R, Bisceglie A R, Bontempi S, Lessio L, Rosini S, Russo E C, Minelli A (2011). Costituenti cognitive di invidia, vergogna e senso di colpa associate alla gravità della psicopatologia. Cognitivismo clinico 8, 95-115.

Schore A N (1994). Effect of a sicure attachment relationship on right brain development, affect regulation, and infant healt. Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences University of California at Los Angeles School of Medicin.

Schore A N (1996). The experience-dependent maturation of a regulatory system in the orbital prefrontal cortex and the origin of developmental psychopathology. Development and Psychopathology 8, 59-87.

Schore A N (1997). A century after Freudis Project: Is a rapprochement between psychoanalysis and neurobiology at hand? Journal of the American Psychoanalytic Association 45, 841-867.

Stuewig J & McCloskey L A (2005). The relation of child maltreatment to shame and guilt among adolescents: Psychological routes to depression and delinquency. Child Maltreatment 10, 324-336.

ANCHE LA TRISTEZZA È INDISPENSABILE

Il sole, le vacanze, il dolce far niente… in estate ci si sente come obbligati ad essere felici. E anche il resto dell’anno, soprattutto condizionati dai mass media, dagli influencers, si vive una certa imposizione alla felicità.

E se, invece, essere infelici di tanto in tanto desse un senso alla vita? Se contribuisse a legarci agli altri, a renderci “più umani”? L’arte di vivere consiste anche nel fare spazio alla sventura e al dolore, divenuti tabù e indesiderabili nelle nostre società. Perché, subordinatamente al diktat dell’efficienza, i disturbi della felicità e le loro processioni di lacrime non fanno parte della dinamica dei vincitori.

E se, paradossalmente, le prove della vita, creando significato e connessione, potessero essere anche fonte di felicità?

FELICITA’ MATERIALE VS FELICITA’ AUTENTICA

Vacanze, feste, progetti da sogno… la società ha la tendenza a volerci far credere che tutti siano perfettamente felici. E invece, gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri non hanno mai avuto così tanto lavoro. Il fatto è che noi siamo preoccupati da una definizione di felicità che è piuttosto materiale, che a che fare con il successo e la perfezione, mentre la felicità autentica è più profonda, più duraturacreare una vita ricca, piena e significativa… con l’altro.

ESSERE CON L’ALTRO

Viviamo in una società individualista, intrisa dall’ossessione della ricerca della felicità. Ma la felicità è legata agli altri, all’essere insieme. E che la tristezza ha la sua importanza. Senza riferirci ai grandi traumi che possiamo attraversare, tutti i giorni della nostra vita viviamo piccole cose imperfette che ci rendono tristi. Allora se ne parla agli altri, ai familiari, agli amici. Ed è che si crea la felicità, questo legame profondo con gli altri, vero e autentico. Ci si sente ascoltati dall’altro, compresi. L’altro sente di aiutarci. E così, entrambi, ci sentiamo più felici.

IL SENSO DELLA VITA

Si corre, a volte, tutta la vita incontro all’idea che la felicità si costruisca facendo cose, raggiungendo obiettivi (lavoro, matrimonio, figli, la pensione...). Ora, il punto non è di cercare la felicità a tutti i costi, ma di trovare un senso alla vita. Prendersi cura degli altri, dividere la felicità con l’altro, solo questo genera una felicità vera, durevole e autentica. E sono proprio le cose sgradevoli o tristi che ci incitano a legarci agli altri.

LA TRISTEZZA È NORMALE

L’essere umano non ha voglia di vivere le emozioni sgradevoli, le vede subito come dei problemi, le evita, eppure sono emozioni normali, naturali e hanno una funzione biologica ed evolutiva. La tristezza ci lega agli altri. Senza questa relazione profonda e vera con l’altro, non si può essere felici. Si ha tutto materialmente ma si ha una sensazione di vuoto, di niente. Prendersi cura dell’altro dona senso, la relazione è alla base della nostra vita terrena.

PIU’ FORTI INSIEME

Si ha la tendenza a pensare che essere tristi o mostrarsi infelici di fronte agli altri renda vulnerabili. La nostra cultura, spesso, ci porta a considerare la tristezza come un qualcosa che è meglio nascondere, non mostrare. Questo perché si ha in mente un ideale di “uomo che si fa da sé” che è totalmente illusorio. Tutto quello che l’uomo ha costruito nella storia dell’umanità, l’ha fatto insieme a qualcuno. Sfortunatamente, nel corso di questi ultimi due anni, non abbiamo potuto essere insieme e con la morte che bussava alle nostre finestre con il Covid… ci si è allontanati dagli altri. Ma anche la morte partecipa a dare un senso alla nostra vita, perché ci permette di legarci agli altri, di fare dei rituali insieme, di condividere, di raccontarsi cose, di connettersi. Quindi di creare felicità. Si ha bisogno dell’altro quando si è felici, certo, ma soprattutto quando si è tristi.

Dott.ssa Giulia Giacone

Psicologa-psicoterapeuta

Per approfondire:

De Wachter, D., Cyrulnik, B., Michel, N. (2021). L’Art d’êtremalheureux. La Martinière editore.
Harris, R. (2010). La trappola della felicità. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere. Erikson editore, Trento.

CHRISTMAS BLUES – La tristezza da Natale

Christmas Blues…ne avete mai sentito parlare? Pare essere un concetto che indica l’insieme di improvvise sensazioni di tristezza, ansia, nervosismo, angoscia, insonnia e rancore durante i giorni di festività Natalizia.

Qualcuno di voi si starà chiedendo come possa essere vero ciò, come sia possibile essere minimamente giù di morale durante i felici giorni di festa, forse i più belli dell’anno…altri invece potrebbero non stupirsi troppo e trovare un po’ di vicinanza nei contenuti di questo articolo.

Facciamo un piccolo passo indietro, cosa è per noi il Natale? Cosa rappresenta nella nostra società? In che modo quest’ultima ci invita a viverlo?

Nella nostra cultura, il giorno di Natale è tipicamente una festa familiare che inevitabilmente richiama i legami affettivi e familiari ovvero giornate e momenti di incontro con le persone care (partner, figli, genitori, amici…).

Il Natale si pone come grande amplificatore di emozioni (positive e negative) che irrompe nel nostro equilibrio caratterizzato dai ritmi frenetici della vita (sfera professionale, scolastica, sentimentale etc…). La società ci informa di come sia “doveroso” essere felici del Natale, ci ricorda incessantemente la gioia di fare regali e quella di riceverli.

Possiamo immaginare che alcuni di noi vivano tutto ciò con serenità e gioia, non vedendo l’ora che il Natale arrivi, probabilmente avendo dei rapporti distesi e felici con i propri cari.

D’altra parte è presente anche chi, avendo degli aspetti irrisolti, conflittuali e/o del tutto assenti nelle relazioni interpersonali familiari, può far fatica a sintonizzarsi emotivamente con questo periodo dell’anno. Ciò potrebbe provocare in queste persone sensazioni di antipatia, apatia e ansia verso l’evento Natalizio, come se fosse una vera e propria punizione angosciante assieme, a volte, ad una deflessione del tono dell’umore.

In queste persone, a volte, è il sentimento di appartenenza ad inciampare e a far vacillare le proprie credenze, di conseguenza l’evento Natalizio diviene un evento stressante, che fa sentire inadeguati e “strani” poiché la tristezza provata non è in linea con la felicità che la società ci chiede.

Il Natale sembra essere un giorno che non perdona volentieri: può donare gioia o far rattristare la persona in un malessere nascosto ma presente.

Esso può rivelarsi un’occasione per spiacevoli sensazioni di solitudine e/o di vuoto difficili da colmare, un momento in cui dover fare dei bilanci con lo scopo di “tirare le somme” dell’anno appena trascorso (come accade anche durante il giorno del nostro compleanno) come fosse una prova di valutazione della vita in generale e l’esito delle nostre competenze relazionali nei rapporti familiari (di merito, di punizione, di fortuna etc.).

È chiaro come questo malessere possa essere dato, non solo da disagi del presente ma anche da situazioni irrisolte del passato.

La tristezza da Natale ha una durata assolutamente soggettiva, può andare da qualche giorno in piena festività oppure coprire per intero il Calendario dell’avvento fino al successivo anno, quando vengono ripresi gli abituali ritmi di vita che acquietano il nostro mondo psichico interno.

Le persone maggiormente vulnerabili alla Christmas Blues sembrano essere quelle che tendenzialmente non hanno molti contatti sociali e affettivi, quelle coinvolte da problemi oggettivi di lontananza dalle persone care; chi ha vissuto episodi negativi importanti (come un lutto, una separazione, un tradimento, un problema coniugale) e chi è già predisposto ad aspetti clinici depressivi a prescindere dalle festività.

Un percorso di psicoterapia con un professionista della salute mentale può rivelarsi certamente un’occasione per affrontare i significati profondi della propria tristezza Natalizia e comprendere le modalità e le motivazioni con le quali si è manifestata.

Teniamo presente che, essere tristi e malinconici a Natale non indica che siamo sbagliati o inadeguati ma ci ricorda che siamo esseri umani complessi con una propria individualità e storia di vita.

Questo articolo vuole essere un invito a normalizzare le emozioni negative poiché anche queste sono funzionali e dicono tanto su come stiamo, ascoltarle allena la nostra consapevolezza.

Si sconsiglia fortemente così il preporsi di “dover essere” felici a tutti i costi poiché ciò stresserebbe ulteriormente. Quando si vive un momento difficile, è fondamentale quindi prendersi lo spazio e il tempo per esprimere il proprio dolore e, se possibile, condividerlo con qualcuno per lenire il malessere e sviluppare maggiori quote di resilienza.

Quello della Christmas Blues, ricordiamo, non è uno stato patologico e dovrebbe farci preoccupare nella misura in cui invalida pesantemente le giornate.

La psicoterapia è fortemente consigliata qualora questa sia accompagnata più specificatamente da una sintomatologia attinente ad un disturbo d’ansia, un disturbo dell’umore, disturbo da attacchi di panico o altro.

Psico-pillole da tenere in tasca:

Rimanere nell’ hic et nunc ovvero il “qui ed ora”: imparare a vivere appieno e consapevolmente tutto ciò che ci accade nel presente, senza perdersi nei pensieri del passato o del futuro. Coltivare i pensieri positivi allentando rimuginio e i pensieri negativi.

Prendere le distanze da ciò che ci stressa/ci fa stare male, dalle aspettative e convenzioni sociali: limitare quelle attività che facciamo per “obbligo natalizio” (doni, visite, pranzi etc.) imparando a “dire di no” agli incontri con persone che sappiamo ci provocheranno malumore e cercare di aumentare gli incontri gradevoli. Allenare la nostra scelta consapevole rispetto a tutto ciò e limitare anche la consultazione pervasiva di social media per vivere la propria vita reale e non perdersi in quella di altre persone.

Concentrarsi su ciò che ci fa stare bene: dedicarsi a quelle attività piacevoli che aumentano lo stato di benessere mentale e fisico come la lettura di un libro che ci piace, dedicarsi a hobbies, attività fisica, percorrere una passeggiata distensiva (specie nelle ore di luce), ascoltare la propria musica preferita etc.

Coccolarsi: concedersi qualcosa di goloso, farsi un regalo, attività inerenti la cura del proprio corpo o la programmazione di un viaggio futuro donano sensazioni piacevoli.

Recuperare: approfittare del tempo libero da vacanze per dedicarsi ai progetti lasciati in sospeso, mandando avanti pezzi della propria vita.

Riposo: i giorni di festa possono rappresentare l’occasione per riposarsi e dormire di più.

Coltivare le relazioni: mantenere vivi i contatti con le persone alle quali teniamo, anche a distanza, ci fa sentire meno soli e aiuta l’umore.

 

Dott.ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica Psicoterapeuta