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SINDROME DEL NIDO VUOTO. Riscoprirsi come individui e coppia

 


L’uscita dei figli da casa, spesso nel ciclo di vita di una famiglia rappresenta un momento di paure e difficoltà, è una fase evolutiva in cui il nucleo originario diventa un trampolino di lancio per i figli e allo stesso tempo dà alla coppia la possibilità di reinvestire nel loro progetto di vita insieme.
E se è vero che in Italia oggi l’uscita da casa è sempre più spesso rimandata dai giovani adulti a causa di condizioni di lavoro precarie che non portano immediatamente a rivendicare l’indipendenza, allora è anche vero che quando finalmente arriverà questa indipendenza, potrà risultare un momento di crisi per gli stessi genitori: sembra che dopo averli spronati, non siano così
disposti a lasciarli andare.
Ogni famiglia si sviluppa e si evolve continuamente. Per le famiglie con bambini, questo inizia con la formazione di una coppia, in seguito con la nascita e la crescita del bambino, continua con l’uscita di quest’ultimo dalla casa di origine e in un’età più matura termina con il ritorno della coppia. Pertanto,la necessità d’indipendenza, che incoraggia i giovani adulti a lasciare gradualmente
la famiglia d’origine, rappresenta uno stadio fisiologico familiare.
La famiglia è, infatti, un trampolino naturale per il ragazzo verso il mondo esterno. Ma anche se questa è una fase perfettamente normale nel ciclo di vita di ogni unità familiare, alcuni genitori lottano più di altri per separarsi dai loro figli, e il “nido vuoto” non è un problema.
Quella che viene comunemente chiamata sindrome del nido vuoto può riguardare sia le mamma e che i papà, ma sembra che siano più predisposte le donne a trovarsi in questa spiacevole situazione presentando sentimenti di tristezza e solitudine, accompagnati da una sensazione di vuoto e perdita di significato. A volte possono verificarsi difficoltà di concentrazione, stanchezza, fatica e una sensazione di preoccupazione eccessiva e diffusa.
Per meglio prevenire e affrontare questo momento di transizione, è importante guardarlo da una diversa prospettiva, comprese le dimensioni individuali, le relazioni coniugali e la genitorialità. Le persone più vulnerabili rispetto alla sindrome del nido vuoto, sono persone che si sono identificate
principalmente nel loro ruolo di genitori nel corso degli anni e vivendo per la maggior parte secondo i bisogni della loro prole e non riconoscendo il proprio bisogno di uno spazio individuale.
Questo non significa certamente interruzione dei rapporti familiari, ma la loro riorganizzazione con un ruolo più paritario mantendo i genitori sempre come punto di riferimento con la possibilità di
sperimentarsi e responsabilizzaresi. L’allontanamento da casa produce un vuoto che, nei casi più gravi, può portare a una perdita di significato nella vita e assumere il significato di lutto reale.

Questa condizione è caratterizzata da reazioni disadattive che si estendono nel tempo e si traducono in alcune costellazioni sintomatiche che affliggono i genitori.
I sintomi più frequenti associati alla sindrome del nido vuoto sono tristezza, ansia, senso di colpa, rabbia,irritabilità,solitudine,che possono causare gravi psicopatologie in termini di depressione maggiore, disturbi d’ansia e,in rari casi, scompenso psicotico.
È importante chiarire che non tutte le coppie sviluppano sintomi negativi della sindrome del nido vuoto. Alcuni studi hanno anche rilevato la presenza di emozioni positive associate ad un aumento dei livelli di intimità, soddisfazione coniugale e libertà. Il fattore protettivo per lo sviluppo della sindrome del nido vuoto è la capacità di svolgere un ruolo diverso.Alcuni studi hanno evidenziato
che le donne che,infatti,costruiscono la propria identità principalmente nel ruolo della madre e dedicano tuttala loro esistenza alla cura del figlio tendono a sviluppare la sindrome perché a seguito del distacco sperimentano una crisi d’identità causata da una mancanza di capacità di adattarsi al nuovo ruolo.
Oltre a questo, è utile anche rinvigorire il rapporto con il proprio partner, che è un punto di riferimento immutabile, individuando nuovi momenti di intimità e condivisione. Inoltre, è necessario cambiareil rapporto con il figlio, riconoscendolo come adulto, costruendo legami più maturi, cos’ come concordare dei confini che renderanno la relazione stabile e funzionale.
Questo potrebbe essere il momento per riprendere possesso della propria dimensione, prendendosi più cura di se stesso e dare voce ai propri desideri. Rivolgere l’attenzione a sé stessi che in precedenza era dedicata maggiormente ai propri figli, magari sentendo vecchi amici o riscomprendo e scoprendo nuovi hobby e passioni.
I partner, che da tempo si sono riconosciuti quasi esclusivamente come genitori, notano che in questa fase è importante ristabilire la dimensione della coppia.
Dopo la prima destabilizzazione, sarà bello riuscire a reinvestire energie emotive e fisiche nella relazione stessa: creare nuovi interessi, dedicarsi ad attività spesso riservate ai figli, poter viaggiare, magari iscriversi a corsi di danza, sviluppare relazioni amichevoli, dedicarsi all’intimità. Pensare di nuovo insieme, in modo che possa riscoprire la coppia, fare progetti, pensarsi ancora insieme e
divertirsi come quando non c’era la responsabilità dei figli. E’ importante saper ridefinire il rapporto tra genitori e figli,”rinnovandolo”ad una nuova fase della vita, pur potendo riconoscere ed accettare l’autonomia dei propri figli e le loro scelte, magari non sempre pienamente condivise ma percepirsi con legati ma con la possibilità di entrare e uscire con la propria individualità.
Dott. Mirco Carbonetti
Psicologo – Psicoterapeuta

SECONDO LOCKDOWN E MECCANISMI DI NEGAZIONE: UNA RIFLESSIONE PSICOANALITICA

La pandemia da Covid-19, come fenomeno che ha colpito l’intera umanità, è stata un’esperienza che ha accomunato le persone a livello mondiale in termini di sensazioni, paure e vissuti. In pochi mesi ci siamo ritrovati, in qualunque parte del mondo, a porci le stesse domande, ad avere simili preoccupazioni e a condividere l’esperienza dell’attesa, dell’ignoto, del lutto e del cambiamento. La stessa terapia ha subìto diverse modifiche per adattarsi al nuovo contesto pandemico. Nello specifico, la psicoanalisi ha attraversato alcuni cambiamenti nella pratica clinica che hanno avuto un forte impatto sul setting, sull’alleanza terapeutica e sul modo di concepire la terapia. Analista e paziente, abituati alla stanza dei sogni con poltrone e lettino, si sono incontrati in una nuova veste con uno schermo a dividerli e a connetterli.

La psicoanalisi, nonostante sia nata più di cento anni fa, non è nuova alle trasformazioni e nel tempo si è modificata per adattarsi ai valori e ai bisogni attuali. Essa è diventata più flessibile, meno autoritaria, più pratica e più recettiva dei bisogni di un insieme di pazienti più ampio con origini culturali e sociali molteplici. Molti autori hanno trattato il tema delle cosiddette variazioni rispetto a una tecnica psicoanalitica classica. Fenichel (1941) scriveva “possiamo e dobbiamo sempre essere elastici nell’applicazione delle regole tecniche. Ogni cosa è ammissibile, se solo si sa perché”. Anche Anna Freud (1954) espresse l’opinione che i cambiamenti nell’applicazione delle regole e dei procedimenti tecnici sono a volte necessari quando possono essere teoricamente giustificati in relazione alla struttura di un determinato caso.

La pandemia ha avuto un forte impatto sulle terapie, sui terapeuti e sui pazienti. Il contesto così straordinario, ma allo stesso tempo comune a tutti, ha reso possibile che analista e paziente al di là dei loro ruoli e in quanto persone sperimentassero la piena condivisione di una realtà conosciuta ad entrambi perché vissuta proprio nell’hic et nunc. Il momento storico si rifletteva nelle esperienze dei pazienti così come in quelle del terapeuta. La riflessione sull’esperienza dell’essere terapeuti durante il primo e il secondo lockdown ha messo in luce delle differenze nelle due fasi e da qui è nata la curiosità di conoscere come i pazienti abbiano vissuto questi due momenti e se vi siano state delle discrepanze anche per loro.

Sicuramente ciò che è avvenuto in entrambi i momenti è stato un cambiamento radicale nel setting. La modalità da remoto, che prima non era così diffusa, è stata letteralmente sdoganata rendendo possibile confrontarsi con un nuovo modo di fare terapia sia come terapeuti, sia come pazienti. L’analista è stato chiamato quindi a modificare il suo metodo per il benessere del paziente. Questo ha portato con sé nuove riflessioni sul senso di una telefonata o di una videochiamata a seconda del tipo di trattamento che era in atto con il paziente, l’introduzione di un terzo nella relazione che era appunto lo strumento telematico (ma anche il contesto storico entro il quale ci si stava muovendo) attraverso il quale sono stati rivelati dei dettagli privati del terapeuta o del paziente che sono stati inevitabilmente condivisi (ad esempio spazi della casa, animali domestici). Anche il non presentarsi in seduta da parte del paziente si è modificato, non telefonando o non videochiamando e ciò ha sicuramente portato a un pensiero differente nel terapeuta rispetto alle assenze nel setting classico. Al ritorno in studio vi è stata inoltre l’introduzione di un aspetto medicalizzato, come l’igienizzazione delle mani e la compilazione di moduli.

Nel primo lockdown il vissuto del terapeuta è stato quello di avere la necessità di trovare una strategia, quella del fare come si può, che invece nella seconda chiusura si è tradotto nella possibilità di scegliere (ad esempio se continuare da remoto, come in alcuni casi richiesti dal paziente, oppure tornare in presenza). I contenuti delle sedute durante il primo lockdown erano focalizzati sulla pandemia, sulla paura del contagio, sul rispetto della norma. La sensazione, come terapeuta, era di essere un contenitore, ma allo stesso tempo di trovarsi letteralmente sulla stessa barca del paziente. Il secondo lockdown ha fatto emergere altri contenuti, temi e vissuti. Si è osservata una maggiore negazione della pandemia e un aumento nel non rispetto delle regole, anche in modo quasi inconsapevole. In questa fase è stato evidente come ci si sia trovati davanti alla fragilità dell’umanità, tema difficile per una società non abituata a questo ma orientata verso onnipotenza e narcisismo. Lingiardi e Giovanardi (2020) descrivono così quello che è stato il vissuto durante la seconda ondata: “Stiamo nel pieno di una nuova ondata, e il rischio di rivivere un trauma psichico è molto alto: per molti il ritorno al lockdown può accompagnarsi a paure profonde e innescare comportamenti fobici (reclusioni eccessive e preventive) e controfobici (assembramenti negazionisti, vita sociale indiscriminata). Il senso della ripetizione di un’esperienza che genera spavento e incertezza può essere molto invalidante. Colpisce nel profondo il proprio senso di continuità e la propria motivazione, ingredienti fondamentali per avere un senso di sé integrato e ben funzionante. Per una volta, invitiamo a risalire sul lettino”. Il vissuto del terapeuta è stato quasi l’opposto di quello dei pazienti: più consapevole della situazione e dei meccanismi di difesa, meno difeso e di conseguenza più sofferente e con più difficoltà nello stare vicino al paziente, nella stessa sua condizione ma con vissuti diversi.

Oltre al ruolo terapeutico in fase pandemica, la psicoanalisi è stata ingaggiata fuori dalla stanza d’analisi per spiegare alcuni fenomeni sociali. Rispetto al tema del negazionismo, della negazione e quindi del diniego a ottobre 2020 la rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un articolo su ciò che è stato definito negli Stati Uniti d’America “un caso di non adesione ai consigli medici” unico nella storia (Ratner e Gandhi, 2020). È chiaro come la gestione della pandemia negli USA sia stata diversa da quella in Italia, tuttavia anche in Italia e nel resto del mondo si è assistito a un rafforzamento dei meccanismi di diniego, che sono emersi in modo massiccio nella seconda ondata pandemica. Gli psichiatri Austin Ratner e Nisarg Gandhi, autori dell’articolo, hanno chiesto un coinvolgimento della psicoanalisi nella gestione della situazione di negazione e della non adesione ai consigli medici legati al Covid-19. I meccanismi di negazione psicologica della malattia si legherebbero successivamente alla mancata aderenza alle raccomandazioni mediche.

Ma come può la psicoanalisi (e gli psicoanalisti) aiutare a comprendere e gestire la negazione di massa? Nello stesso modo con cui gli epidemiologi trattano i pericoli per la salute pubblica, ovvero aumentandone la consapevolezza. La psicoanalisi è chiamata a lavorare con le persone sul funzionamento dei loro meccanismi di difesa, nello specifico sottolineando come la negazione allontani dalla coscienza ciò che è intollerabile: il pericolo e l’ansia. Carl Gustav Jung (1946) invitava la psicoanalisi a “superare la profonda scissione esistente nell’uomo e nel mondo”.

In un momento delicato come quello della pandemia, il coinvolgimento della psicoanalisi è stato “un importante riconoscimento del potenziale trasformativo che la psicoanalisi può esprimere non solo come terapia individuale, ma come forza di cambiamento sociale” (Ratner e Gandhi, 2020).

Dott.ssa Tatiana Giunta

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA:

Fenichel, O. (1941). Problemi di tecnica psicoanalitica. Torino, Bollati Boringhieri, 1974.

Freud, A. The widening scope of indications for psychoanalysis discussion. Journal of the American Psychoanalytic Association, 1954.

Jung, C.G. (1946). Psicologia del transfert. Milano, Mondadori, 1985.

Lingiardi, V., Giovanardi, G. Psicoanalisi Anti negazionista. Il sole 24 ore, 02/11/2020.

Ratner, A., Gandhi, N. Psychoanalysis in combatting mass non-adherence to medical advice. The Lancet, 19/10/2020.

I MESSAGGI NASCOSTI DIETRO LE FIABE: “IL MERAVIGLIOSO MAGO DI OZ”

Chi dice che le fiabe siano solo per bambini? Ormai siamo abituati ad amare cartoni animati o fiabe anche da adulti. Sicuramente c’è il nostro Bambino interiore che spesso ce le richiede, ma ci sono quelle fiabe che tutti noi portiamo nel cuore più di altre. 

Voglio condividere, con voi, la mia: Il meraviglioso mago di Oz

È una storia dalla quale mi sono sentita rapita e affascinata fin da piccola. Ricordo molto bene quel libro che tenevo tra le mani, sia la sensazione tattile della copertina ruvida, sia le emozioni che avevo mentre mi addentravo sempre di più nel fantastico viaggio di Dorothy.

Ancora oggi ricordo alcune immagini di quell’edizione e sebbene non sia più in mio possesso e non sia più riuscita a trovarla, per il mio 34esimo compleanno mi sono fatta un regalo: ho riacquistato questo favoloso racconto.

Non è stata una scelta casuale: ho cercato attentamente un’edizione di cui le immagini mi coinvolgessero, perchè potessi attraverso i disegni immaginarmi e addentrarmi ancora di più nella storia.

Cosa di questa fiaba mi attirasse da bambina è difficile dirlo. Forse il lungo viaggio in un mondo incantato di una bimba coraggiosa, forse il senso di protezione che le riservano i suoi nuovi amici, o forse (come tutte le fiabe) il lieto fine. E sì, perchè la piccola Dorothy dopo un lungo e meraviglioso viaggio riesce a tornare a casa.

“Non importa quanto triste e grigia sia la nostra casa, noi gente di carne e ossa preferiamo vivere lì, piuttosto che in un altro Paese, per quanto bello possa essere. Non esiste al mondo posto migliore della propria casa”, scriveva l’autore L. F. Baum …. E quanta verità in queste sue parole!

Ma rileggere questo libro ora che sono adulta, e ora che ho una capacità d’analisi e di interpretazione più affinata, mi ha permesso di cogliere delle sfumature che ovviamente avevo tralasciato. E farlo nel ruolo di psicoterapeuta è come se tutto fosse più accentuato.

Non riesco a vedere il meraviglioso viaggio che intraprende la piccola Dorothy se non come la metafora di un viaggio di consapevolezza.

Di fatto chi ha intrapreso un percorso di psicoterapia può sentire sensazioni molto simili e per chi non ha mai avuto questa esperienza proverò a spiegarlo meglio. La psicoterapia è un percorso fatto di alti e bassi: ci saranno momenti in cui ci si sentirà bene e altri in cui ci si sentirà peggio. Ma continuando a camminare, ci si renderà conto sempre di più del proprio potenziale, delle proprie risorse. Ci si metterà in gioco più di quanto si creda, e per quanto sia faticoso il viaggio, “la strada di casa” prima o poi la si trova.

Condivido con voi una frase che mi ha detto recentemente una mia paziente e la quale ringrazio per la commozione che mi ha trasmesso nel sentire queste parole proprio da lei: “Ho iniziato un percorso di terapia pensando di dover cambiare delle cose di me stessa e invece ho imparato ad abbracciarle e ad accettarmi per come sono”.

Ma ritorniamo a Dorothy e al suo viaggio.

Un viaggio che ha inizio nel momento in cui un tornado solleva la casa della bambina e la trasporta in volo, facendola atterrare nel Paese dei Ghiottoni. Per quanto magari non sia un’esperienza così comune trovarci da tutt’altra parte a causa di un tornado, credo che la sensazione di “venir travolti da un ciclone” sia comune più di quanto si creda. 

Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo provato tale sensazione di smarrimento, di disorientamento e di paura. I nostri punti di riferimento svaniscono, le basi solide che credevamo di aver costruito si rivelano non così salde, e dopo un volo e una caduta, ci troviamo proprio con lo stesso stato d’animo di Dorothy: spaventati, smarriti e inermi.

Ma nella sfortuna, la disgrazia della bambina comporta la salvezza di un popolo fino ad allora ridotto in schiavitù: eh sì, perchè la casa di Dorothy schiaccia la Malvagia strega dell’Est.

Come ringraziamento di quello che involontariamente si era determinato, alla bambina vengono donate le scarpette d’argento della strega defunta, che accetta volentieri poichè le attende un lungo viaggio: Dorothy dovrà camminare a lungo per potersi recare dal grande Mago di Oz, il mago più potente di tutto il paese per chiedergli di poter tornare a casa sua, nel Kansas.

E così quando ci troviamo senza quei punti di riferimento, disorientati e impauriti non ci rimane altro che tirarci su e darci un nuovo obiettivo, una nuova direzione. E lungo il viaggio chissà quante cose ci possono accadere.

Dorothy, infatti, non sarà mai sola: lungo il cammino alla bambina e al suo cagnolino Totò si aggiungeranno tre compagni di viaggio. Lo spaventapasseri, il taglialegna di latta e il leone codardo si uniscono a lei, nella speranza di poter fare anche loro delle richieste al Mago di Oz.

Le storie di questi tre compagni di viaggio, per quanto siano molto differenti tra di loro, non possono passare inosservate e le loro richieste appaiono molto sensate se riusciamo a metterci nei loro panni.

Lo spaventapasseri desidera un cervello poichè, per quanto le sue sembianze lo rendano molto simile ad un uomo, la mancanza del cervello non lo fa sentire tale. 

Il taglialegna di latta, prima di ridursi in quello stato era un uomo in carne e ossa. In seguito ad una maledizione lanciata per ostacolare la storia d’amore tra lui e una ragazza, si trova a condurre una vita in tali condizioni, ma soprattutto senza cuore. Questa sarà la sua richiesta al grande Mago di Oz.

Infine, il leone codardo condurrà il viaggio con l’intento di ricevere dal Mago il coraggio. La mancanza di questa virtù, infatti, non gli ha permesso di diventare il Re della foresta e ne ha comportato una vita in isolamento, emarginato da tutti gli altri animali.

Nel lungo viaggio di questa strana compagnia (e si trattò davvero di un lungo viaggio!) tutti questi tre personaggi avranno modo di mostrare le loro doti. 

Lo spaventapasseri, con il suo essere perspicace e razionale, riuscirà più volte a salvare i compagni dai pericoli che si trovano sulla strada; così come il buon animo dell’uomo di latta e il coraggio del leone contribuiranno a condurre sani e salvi Dorothy nel paese del Mago di Oz, nella città di Smeraldo (chiamata così perchè lì era tutto verde, o almeno così gli abitanti credevano che fosse).

Il Mago di Oz li riceve individualmente, ma si mostra disponibile ad esaudire le loro richieste solo dopo che avranno ucciso la Strega Cattiva dell’Ovest. Ed ecco che inizia un altro lungo viaggio che li porta al cospetto della malvagia strega, che li riduce in schiavitù. 

Davanti all’ennesima ingiustizia che Dorothy si trova a subire dalla parte della Strega, molto arrabbiata le versa un secchio d’acqua addosso, liquefacendola e mostrando a tutti il punto debole di questa creatura cattiva, così tanto temuta.

Raggiunto anche questo obiettivo, decidono di ritornare dal mago di Oz, convinti che questa volta le loro richieste potranno avere ascolto, ma si trovano ad affrontare una grande delusione: il mago di Oz non è altro che un comune uomo, giunto in quella terra con una mongolfiera e per tanto considerato un Mago dal popolo che lo ha accolto.

Sebbene i tre personaggi avessero dato prova delle loro abilità, mostrando intelligenza, cuore e coraggio, avevano bisogno di qualcuno che donasse a loro tali virtù (o in altre parole avevano bisogno di qualcuno che credesse in queste capacità per loro), e il mago di Oz cercò di esaudire tali desideri. Allo spaventapasseri infilò un imbottitura di crusca e spilli nella testa come cervello:

“Il cervello è l’unica cosa che valga la pena possedere a questo mondo, che si sia cornacchie o uomini” (Mago di Oz, L.F. Baum);

all’uomo di latta gli inserì nel petto un cuore di seta pieno di sabbia:

“Uno sciocco non saprebbe che farsene del cuore, anche se ne avesse uno” (Mago di Oz, L.F. Baum);

e al Leone gli diede un cucchiaino di miele convincendolo che fosse un elisir di coraggio.

“Non esiste creatura vivente che non abbia paura quando si trova davanti al pericolo. Il vero coraggio consiste nell’affrontare il pericolo quando si ha paura” (Mago di Oz, L.F. Baum).

Ma purtroppo per Dorothy non aveva una soluzione reale per riportarla a casa e l’unica possibilità che le rimaneva era quella di rivolgersi alla Strega Buona del Sud.

Quando un altro lungo viaggio la conduce da lei, scopre che di fatto aveva da sempre avuto gli strumenti per ritornare a casa: quelle scarpette d’argento acquisite dalla Strega Malvagia dell’Est, infatti, potevano portarla ovunque lei avesse voluto. E così fu… in un baleno si ritrovo a casa, nel Kansas a riabbracciare la zia Emma e lo zio Henry.

Ma cosa ci insegna questa storia? 

Probabilmente a ognuno di noi lascia un messaggio diverso, un significato personale. Ma è inevitabile vedere come questo viaggio abbia cambiato emotivamente tutti i personaggi.

Dorothy con il suo viaggio aiuta i suoi amici a credere in se stessi, a conoscersi e a guardare le loro qualità. 

Non avviene una trasformazione magica in qualcosa di diverso da ciò che erano già, ma prendono coscienza di se stessi e delle proprie potenzialità, imparando a sfruttarle meglio.

Proprio quello che avviene attraverso una Psicoterapia!

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa-Psicoterapeuta