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Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

IL TRAUMA E LE SUE CONSEGUENZE

Dal trauma si può guarire? Il trauma non può essere cancellato, ma si possono curare le tracce che il trauma lascia nella mente, nel corpo e nell’anima.

I segni che lascia il trauma si manifestano in modi differenti:

– con una sensazione di peso sul petto che denominiamo ansia o depressione; 

  • con la paura di perdere il controllo che ci fa sentire maggiormente vulnerabili; 
  • con il sentirsi sempre in allerta, come se un pericolo possa essere dietro l’angolo ad ogni nostro passo; 
  • con il forte disgusto che si prova nei propri confronti, sentendosi spesso colpevoli più che vittime; 
  • con flashback e incubi costanti; 
  • con la fatica di essere concentrati in quello che facciamo;
  • con la difficoltà di amare e di sentirsi amati.

Ma cosa è il trauma? In psicologia il trauma viene definito come una risposta emotiva ad un evento, o ad una serie di eventi, estremamente stressanti o disturbanti. Il trauma può avere effetti profondi e duraturi sulla salute menale di un individuo, influenzando il suo comportamento, le sue emozioni e le sue capacità di relazione. In alcuni casi, il trauma può portare a disturbi più gravi come il Disturbo da Stress Pos-Traumatico (PTSD).

Il trattamento del trauma spesso coinvolge interventi terapeutici come la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprcessing) e altre forme di supporto psicologico.

Con un percorso di cura ci si pone l’obiettivo di ritornare ad essere padroni di se stessi e di riprendere la connessione tra corpo e mente. Chi lavora con le persone traumatizzate sa che per riprendere il controllo di se stessi è necessario ripercorrere il trauma, ma non è possibile farlo se prima non abbiamo condotto la persona a provare direttamente quella sensazione di sicurezza, condizione indispensabile per non sentirsi nuovamente traumatizzati.

La ricerca neuroscientifica ha messo in evidenza come l’unico modo per modificare come ci si sente, consiste nel diventare consapevoli delle nostre sensazioni interiori, non avendone paura e sentendosi in balia di esse, ma cercando di accogliere ciò che accade dentro di noi.

L’obiettivo non vuole essere stabilire con certezza cosa sia esattamente accaduto, ma guidare “le persone a tollerare le sensazioni, le emozioni e le reazioni che provano, senza esserne sopraffatti” (B. Van Der Kolk).

È importante far sì che la persona non si senta colpevole dell’accaduto; il trauma non è colpa loro e tanto meno è stato causato da qualche loro difetto e nessuno può meritarsi quello che è accaduto a loro.

Elaborare un trauma è un processo complesso e individuale che può variare notevolmente da persona a persona. Tuttavia ci sono alcuni approcci e strategie comuni utilizzati in psicologia per aiutare le persone ad elaborare e superare il trauma. 

 1. Riconoscimento e accettazione attraverso il supporto professionale:

  • Consapevolezza: il primo passo è riconoscere che si è vissuto un evento traumatico. In questa fase è importante accettare i sentimenti e le emozioni associate al trauma.
  • Autoaccettazione: accogliere le reazioni al trauma come normali e non sbagliate sebbene si percepisca l’ora fatica nel superare l’evento. “Ciò che è successo non può essere cancellato” (B. Van Der Kolk). È necessario occuparsi delle tracce del trauma che rimangono nel corpo, nella mente e nell’anima.

Chi ha subito dei traumi sa bene di cosa sto parlando, perchè questi vissuti interni sono quelli che accendono maggiormente l’ansia, la depressione e la paura: si temono le proprie sensazioni fisiche; esse diventano il vero pericolo da evitare.

Anche se il trauma riguarda il passato, il cervello emotivo continua a generare sensazioni che rendono la persona impaurita e impotente nel presente, e così il corpo si congela e la mente si spegne.

Il cambiamento ha inizio con l’aprirsi alla propria esperienza interna, focalizzandosi sulle sensazioni e portando l’attenzione a come esse siano, di fatto, transitorie, poichè reagiscono a modifiche posturali minime, o a variazioni nella respirazione o a mutamenti del pensiero.

Dopo aver imparato a notare queste sensazioni fisiche è necessario imparare a chiamarle con il giusto nome es. “Quando sono ansioso, ho una sensazione di oppressione al petto”.

In questo modo possiamo guidare il paziente a stare su quella sensazione e notare cosa cambia se si fa un respiro profondo o se ci si abbandona ad un pianto.

È importante sentirsi capaci di poter esplorare e tollerare le proprie reazioni fisiche per poter “approdare” nel passato in modo sicuro.

Altro passo fondamentale in questo viaggio, sarà quello di osservare l’interrelazione tra i pensieri e le sensazioni fisiche. È inevitabile che pensieri diversi, creano sensazioni diversi, es “mio padre mi ama” o “la mia ragazza mi ha lasciata” hanno effetti diversi nel nostro corpo.

Perchè tutto questo possa avvenire in modo efficace è importante poter creare una buona relazione terapeutica in cui sentirsi al sicuro e concedersi di esplorare anche parti traumatizzate.

“Sicurezza e terrore sono incompatibili. Quando siamo terrorizzati, niente ci calma come la voce rassicurante o l’abbraccio deciso di qualcuno di cui ci fidiamo” (B. Van Der Kolk).

2. Supporto sociale:

Nel trattare il trauma, i contesti relazionali sono fondamentali: che siano famiglie, persone amate, gruppi di auto-aiuto, comunità religiose, psicoterapia, lo scopo è di dare sicurezza emotiva e fisica. È fondamentale riuscire a creare una ri-connessione con gli altri esseri umani, soprattutto quando si è stati vittima di traumi relazionali, quando chi doveva o diceva di amarci in realtà ci ha inflitto sofferenza e dolore.

Avere un sistema di supporto solido, che includa amici, familiari o gruppi di supporto è cruciale per la guarigione.

3. Tecniche di coping:

  • Mindfulness e meditazione: queste pratiche possono aiutare a radicare la persona nel presente, riducendo l’ansia e migliorando la consapevolezza del corpo e delle emozioni.
  • L’esercizio fisico: l’attività fisica regolare può aiutare a ridurre lo stress e migliorare l’umore;
  • Routine di auto-cura: prendersi cura di sè attraverso una buona alimentazione, sonno adeguato e altre pratiche di benessere.

4. Rielaborazione del significato:

  • Riflettere sull’esperienza: comprendere l’impatto del trauma sulla propria vita e cercare di dare un nuovo significato all’esperienza può aiutare a integrare il trauma in una narrazione personale più ampia.
  • Resilienza e crescita post-traumatica: Alcune persone trovano che lavorare attraverso il trauma porti a una maggiore resilienza e a una nuova comprensione di sé.                          

5. Interventi farmacologici:

  • Medicazione: In alcuni casi, i farmaci possono essere prescritti per gestire i sintomi di ansia, depressione o PTSD

Il percorso di elaborazione del trauma è spesso lungo e può richiedere un impegno costante. Ogni individuo è unico, quindi le strategie che funzionano per una persona potrebbero non essere efficaci per un’altra. È importante lavorare con professionisti qualificati per trovare il percorso di guarigione più adatto.

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

LA MEDITAZIONE METTA NEL PROTOCOLLO MBSR

La mia religione è la gentilezza

Dalai Lama

Nel protocollo di meditazione Mindfulness chiamato MBSR (mindfunell based stress reduction) ideato da Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni ’70 si pratica la meditazione Metta, ovvero dell’amorevole gentilezza.

La parola in lingua pali Metta ha due significati principali: uno corrisponde a benevolo. Essa è paragonata appunto a una pioggia lieve che cade sulla terra che non seleziona o sceglie, ma scende semplicemente senza discriminare.

L‘altro significato della parola Metta é amico. Il culmine della meditazione Metta é diventare veri amici di noi stessi e di tutte le forme di vita.
La pratica della meditazione Metta (che significa amorevole gentilezza ) è alla base della pratica della presenza mentale, poiché richiede lo stesso atteggiamento di rifiuto del giudizio e dell’attaccamento, un atteggiamento di accettazione nei riguardi del momento presente, un orientamento che invita a far posto alla calma, alla chiarezza della mente del cuore, alla compassione.
Secondo Jon kabat-Zinn la pratica della gentilezza amorevole è una disciplina ardua, non meno che prestare attenzione al proprio respiro, o osservare il corso del proprio pensiero.

Nel corso della nostra vita desideriamo essere amati, amare, e amare noi stessi. Purtroppo a causa della sofferenza tendiamo invece a percepirci come separati dagli altri e a isolarci per proteggerci. Buddha definì il cammino spirituale che conduce alla liberazione dalla sofferenza e all’uscita dall’isolamento come “la liberazione del cuore, che è amore”.
Praticando le meditazioni (brahma-vihara,) dell’amore, della compassione, della gioia compartecipe e dell’equanimità facciamo sì che l’amore, la compassione, la gioia compartecipe e l’equanimità costruiscano la nostra casa interiore.
Quando entriamo in contatto con la capacità di amare la luce si accende. La pratica di queste meditazioni è un modo per accendere la luce e per poi averne cura, è un processo di profonda trasformazione spirituale.

Possiamo accumulare esperienze e beni, possiamo cercare qualcosa che riteniamo di non avere e che ci renderà felici, ma la nostra felicità non nasce dall’accumulare e dal possedere dobbiamo cambiare idea su dove cercarla.
Secondo Buddha la felicità ordinaria viene dall’esperienza del piacere, la fugace soddisfazione di ottenere ciò che vogliamo, ma tale felicità è simile all’acquietamento temporaneo della fame. Questa felicità ordinaria è transitoria e porta con sé una tendenza nascosta alla solitudine e alla paura. Quando cerchiamo la felicità nel possedere e nell’accumulare ci procuriamo soltanto sofferenza.
Dobbiamo abbandonare il tentativo di controllare i cicli del piacere e del dolore, che sono incontrollabili, e imparare invece come connetterci, aprirci e amare indipendentemente da ciò che accade.

Ricordare alle cose la propria bellezza è l’essenza della Metta.
La meditazione di Metta è  la prima delle 4 brahma-vihara, le altre sorgono dalla Metta, che le sostiene e le amplia.
Quando nella vita proviamo paura e dolore queste creano distacco tra alcune parti di noi stessi. Quando queste esperienze di paure e dolore sono intense al punto da definirsi traumatiche creano una frammentazione di noi stessi, ci separiamo dentro di noi e ci sentiamo separati dalla nostra vita e dagli altri. Una mente spaventata può comunque essere penetrata dall’amorevole gentilezza, questo senso di amore che non è legato al desiderio e che non pretende che le cose siano diverse da quelle che sono, vince l’illusione dell’isolamento, di non essere parte di un tutto e vince la frammentazione interiore.
Metta diventa la capacità di accogliere tutte le parti di noi e del mondo.
Il risveglio dell’amore e la sensazione di unione non sono condizionate dal fatto che le cose vadano in un certo modo, poiché la Metta, non è dipendente né condizionata.
La pratica di Metta, che può sradicare la paura, la rabbia e la colpa, comincia con l’amicizia verso se stessi. Il suo fondamento consiste nell’imparare ad essere amici di se stessi.
La fiducia nella nostra innata capacità di dare amore rende possibile la coltivazione della Metta.

La meditazione di Metta si compone di frasi di gentilezza amorevole; che ci aiutano a cominciare ad essere amici di noi stessi.

Tradizionalmente all’inizio si usano quattro frasi:
” possa Io essere libero dal pericolo”
“possa Io essere felice”
“possa Io essere in salute”
“possa Io disporre dei beni indispensabili”.

Quando si pratica questa meditazione a volte emerge con forza un sentimento di indegnità e si possono vedere chiaramente le circostanze che limitano l’amore verso noi stessi. Quando questo accade si respira gentilmente e si accetta che questi sentimenti siano sorti, si richiama alla mente la bellezza del desiderio di essere felici e si ritorna alle frasi di Metta.

Partire da noi stessi è la base per offrire amore agli altri.

In seguita la Metta procede in modo strutturato e preciso: dopo averla offerta a noi stessi, ci spostiamo verso qualcuno che è stato buono con noi, verso le persone che amiamo, verso gli amici, verso chi ci ha fornito aiuto, verso un conoscente, un estraneo, verso gli esseri viventi tutti e poi ci si sposta verso coloro ai quali è più difficile indirizzare la Metta, ovvero verso chi ci ha fatti soffrire, ci ha traditi, delusi. In questo modo mettiamo in discussione i nostri limiti ed estendiamo la nostra capacità di benevolenza,

Qualunque sentimento momentaneo è meno potente degli auguri che facciamo, che sono dei semi de a tempo debito fruttificheranno.

Concludo riportando la parole di Sharon Salzberg, autrice de L’arte rivoluzionaria della gioia, edito da Ubaldini Editore:

la Metta è un tesoro che rallegra e porta all’intimità con noi stessi e con gli altri, è la forza dell’amore che condurrà oltre la frammentazione, la solitudine e la paura”.

 

Dott.ssa Luigina Pugno

Psicologa – Psicoterapeuta

​​TU CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI… 2.0: Inside out 2 e l’avvento delle emozioni secondarie in Adolescenza.

Nel nuovo sequel della pixar Inside out 2, ritroviamo la giovane protagonista Ryle, ormai 13enne alle prese con nuove emozioni che proprio caratterizzano l’avvento dell’adolescenza: Ansia, Imbarazzo, Invidia, Noia/Ennuie Nostalgia.

Nel primo film, Inside out, avevamo lasciato la protagonista 12enne che, a seguito del traumatico evento del trasferimento in una nuova città, aveva dovuto fare i conti con tutte le emozioni primarie: Gioia, Paura, Disgusto, Rabbia e soprattutto Tristezza.

Si è visto, dunque, in Inside Out, che solo accettando la tristezza per la separazione da ciò che non aveva più e che era nel passato, che la giovane Ryle, ha potuto accogliere la gioia per tutto quanto di nuovo stava capitando nella sua vita, nel presente; è solo accettando il cambiamento, il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza; accettando l’importanza di ogni emozione, che ha potuto riequilibrarle, ed essere di nuovo serena, d’altronde, come abbiamo ben visto: “Non c’è Gioia senza Tristezza”!

Nel sequel della Pixar, ritroviamo Ryle, alle prese con l’ormai imminente adolescenza e con il caos e la confusione che quest’ultima comporta, momento, che per l’età in cui avviene, si congiunge con un altro momento di transizione decisamente importante che è la fine del sicuro contesto delle scuole medie e l’inizio dell’incerto e sconosciuto periodo delle scuole superiori.

Vediamo, dunque, la protagonista alle prese con l’insidioso periodo definito Pubertà, che racchiude un momento di cambiamento, crescita e ridefinizione del senso di Sé che spesso può risultare davvero “cringe”.

La parola cardine di Inside out 2, sembra allora proprio essere Crescita, ed è proprio con la crescita e la confusione del periodo puberale che fanno l’avvento nella consolle amigdaliana altre emozioni quali appunto l’Ansia, l’Imbarazzo, l’Invidia e l’Ennui/Noia, e qualche comparsa qui e là di Nostalgia, definite anche emozioni secondarie.

Come sappiamo dagli studi di Ekman (2008) le emozioni si dividono in primarie e secondarie: sono emozioni primarie quelle che si esprimono con la stessa espressione facciale in qualsiasi popolazione e definite, pertanto, innate e universali: paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa (come appunto visto anche in Inside out).

Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

 A quanto pare, però, per quanto riguarda queste ultime, la nostra varietà emotiva sarebbe molto più ampia di quello che aveva riscontrato Ekman (2008) con i suoi studi sulle espressioni facciali; infatti, un recente studio della University of California, diretto da Alan S. Cowen e Dacher  Keltner (2017) e pubblicato su Pnas, aggiorna e amplia le emozioni fondamentali nell’essere umano, aggiungendo alle classiche  6 tipologie di emozioni, altre 21, per un totale di 27 tipologie distinte di emozioni: ammirazione, adorazione, apprezzamento estetico, divertimento, ansia, soggezione, imbarazzo, noia, calma, confusione, desiderio, disgusto, dolore empatico, estasi, invidia, eccitazione, paura, orrore, interessamento, gioia, nostalgia, amore, tristezza, soddisfazione, desiderio sessuale, simpatia, trionfo.

Si può comprendere, dunque, perché con una varietà così ampia di emozioni, nel periodo adolescenziale, ci si possa sentire in qualche modo confusi e turbati, e vada a modificarsi quello che finora era stato il Senso di Sé, mettendo in discussione molti valori che fino a quel momento erano stati di riferimento: la famiglia, gli amici, i progetti, i desideri; vengono stravolti e ridimensionati, concentrandosi solo su quella spasmodica ricerca del senso di Sé smarrito, che spesso può far risultare l’adolescente egoista e concentrato solo su sé stesso.

Ma, in realtà è un periodo, come ben espresso in Inside out 2, in cui, in questo sentiero smarrito della pubertà, l’Ansia prende il sopravvento sulle altre emozioni al punto da chiuderle in una teca, e relegarle negli sperduti meandri dell’inconscio.

Così, come Ryle nel weekend in cui dovrà mostrare tutto il suo valore sul campo per farsi accettare dalla nuova squadra di Hockey del liceo, l’adolescente, tra una storia su Instagram, un Tiktok e un BeReal, cerca di farsi accettare e mostrarsi più forte di quanto non sia; cerca dunque di nascondere la sua fragilità provando a reprimere le emozioni.

Ma, come diceva Freud (1886-1899) : “le emozioni inespresse non moriranno mai, restano sepolte vive e usciranno più tardi in un modo peggiore”!

Ed è qui che, infatti, come ben colto dalla Pixar, subentra lui, il famoso “Attacco di Panico”, dove tutte le emozioni cercano di prendere il sopravvento nella costruzione del senso di Sé, facendo sentire chi lo vive come in un vortice senza via di fuga.

Ma la via d’uscita c’è, e di fatto è solo nel momento in cui ogni emozione si placa per dare spazio all’altra che riescono ad equilibrarsi e l’attacco di panico va esaurendosi.

Ovviamente c’è dell’altro dietro all’attacco di panico, legato ai vissuti individuali, così come quello che Ryle vive in weekend, nella realtà dura anni, ma ben semplifica quanto accade in adolescenza e soprattutto negli adolescenti dell’attuale generazione Z che sembrano ben identificarsi in Ryle.

Un aspetto forse un po’ trascurato, In Inside Out 2 è il tipico rapporto conflittuale con i genitori che è molto importante, insieme al rapporto con i pari e la società nell’edificare quel famoso Senso di Sé e la futura personalità dell’adolescente che poi diviene un giovane adulto.

È importante, infatti, soprattutto in questa fase della vita, che l’adolescente possa avere la possibilità di essere accompagnato, con una distanza sufficientemente buona, da adulti che lo guidino e lo aiutino a leggere e capire cosa sta provando.

Questo perché come abbiamo visto, le emozioni vanno espresse, ma soprattutto vanno riconosciute, perché è solo attraverso il loro riconoscimento che siamo in grado di affrontarle e di gestirle: non è possibile gestire ciò che non si conosce.

È solo quindi attraverso un percorso di conoscenza di sé che è possibile vivere in armonia ed equilibrare le nostre emozioni.

Inside Out 2, come il primo film, offre una rappresentazione semplice ma efficace del complesso mondo emotivo degli adolescenti. Aiuta a comprendere l’importanza di riconoscere e accettare tutte le emozioni per vivere in armonia.

Questo è un messaggio fondamentale per psicoterapeuti, genitori e insegnanti, poiché il supporto emotivo e la guida sono essenziali per aiutare gli adolescenti a navigare in questo periodo di transizione.

 

Dott.ssa Monica Iuliano

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

 Ekman, P. (2008). Emotions Revealed: Recognizing Faces and Feelings to Improve Communication and Emotional Life. Henry Holt and Company.

 Cowen, A. S., & Keltner, D. (2017). Self-report captures 27 distinct categories of emotion bridged by continuous gradients. Proceedings of the National Academy of Sciences, 114(38), E7900-E7909.

 Freud, S. Citazione da: The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud.

L’IMPATTO DEI SOCIAL MEDIA SULLA SALUTE MENTALE

I social media hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare, informarci e
relazionarci. Sebbene offrano numerosi vantaggi, come la connessione globale e l’accesso immediato alle informazioni, i loro effetti sulla salute mentale sono oggetto di crescente dibattito e preoccupazione.

Numerosi studi hanno esaminato sia gli effetti positivi sia quelli negativi dei social media sul benessere mentale. È fondamentale sottolineare che i social media, di per sé, non sono né intrinsecamente buoni né cattivi: il loro impatto dipende dall’uso che ne viene fatto.

Analizziamo in dettaglio come questi strumenti influenzano il nostro benessere psicologico.
Le piattaforme sociali hanno introdotto un’era di condivisione globale, inizialmente vista come una rivoluzione positiva capace di diffondere un’elevata quantità di informazioni rapidamente. Tuttavia, con il tempo, le aspettative di un cyber-villaggio globale prospero e sicuro si sono scontrate con una realtà più complessa, probabilmente di pari passo con una progressiva regressione involutiva della società. Il lato oscuro della Rete è emerso, portando a effetti collaterali significativi che hanno portato ad una profonda metamorfosi negativa dei social media. Secondo il Report Digital del 2022 di We Are Social, gli utenti dei social media hanno raggiunto 462 miliardi, rappresentando circa il 58,4% della popolazione mondiale, un aumento
considerevole rispetto ai 148 miliardi di utenti rilevati nel 2012. Questo incremento costante richiede una riflessione approfondita sul loro effettivo impatto nella vita delle persone e sulla loro salute psicologica.

I giovani, specialmente gli adolescenti e i giovani adulti, sono tra i principali utilizzatori dei social media. Diversi studi indicano che l’uso intensivo di queste piattaforme può avere sia effetti positivi che negativi sulla salute mentale. Infatti, queste nuove tecnologie creano connessione sociale: permettono di mantenere i contatti con amici e familiari, specialmente durante periodi di isolamento o distanza fisica. Danno loro la possibilità anche di creare una rete di persone, di mantenerla viva e solida nel tempo, attraverso lo scambio assiduo di immagini, video, giochi, audio e messaggi, alimentando il senso di appartenenza a qualcosa.
A livello psicologico l’avvento e l’aumento dei contatti online ha dato vita a quello che viene definito Digital Emotion Regulation , ovvero l’atto di regolare le proprie emozioni grazie alla tecnologia, attraverso gli ambienti digitali.        Le piattaforme come Instagram, Youtube, Facebook o Twitch offrono spazi liberi dove i giovani possono condividere le loro esperienze, ricevere supporto emotivo, aumentare il loro livello di autostima personale e professionale. E’ indubbio che il filtro del “non dal vivo” permette anche alle persone con più difficoltà sociali di intraprendere azioni più comunicative con altri utenti, innalzando così il livello di benessere psicologico. Infine, non possiamo non
renderci conto che l’uso corretto dei social permette di restare aggiornati, informarsi velocemente sulle notizie del mondo, stimolare la creatività, imparare cose nuove in modo gratuito e pratico, lavorare in modo più fluido, anche con altri Paesi.
Pur senza dimenticare del tutto i progressi e i benefici esistenti con l’avvento di
Internet e dei social media, stanno proliferando con sempre maggiore frequenza studi finalizzati a elaborare tecniche in grado di analizzare le variazioni che l’uso dei social media provoca sull’umore e sulle emozioni delle persone. L’effetto “tossico” delle piattaforme sociali si manifesta attraverso la stimolazione della dopamina, che come “una sostanza chimica” funge da neurotrasmettitore per creare una dipendenza continua (addirittura paragonabile a quella provocata da alcol e sigarette). Ne
consegue che, oltre all’incremento esponenziale dei comuni sintomi di ansia,
depressione e senso di inadeguatezza, talvolta si manifestano anche più violenti atteggiamenti di aggressività o offensività nei contenuti condivisi online, che portano spesso al cyber-bullismo, frutto di una percezione distopica di immagini modificate dai numerosi filtri in grado di alterare la realtà rispetto alla fittizia apparenza della rete. C’è un desiderio di attenzione continua, una sorta di “gratificazione sociale” misurata
mediante la visualizzazione del numero di “likes” e di commenti ricevuti; questa dimensione mantiene sempre in condizioni di elevata ipereccitazione e porta le persone ad aggiornare continuamente i propri profili.
Altro aspetto da sottolineare, sulla base di quanto affermato dall’MIT e rispetto all’utilizzo generalizzato e pervasivo dei social media, esiste un rilevante problema strutturale alimentato dal cosiddetto “contagio emotivo ” che tali piattaforme generano sull’umore degli utenti, mutevole “a seconda della versione del prodotto cui sono esposti”. Lo scopo dei gestori è quello di massimizzare il tempo trascorso online e catalizzare un costante coinvolgimento interattivo, spesso a costo di creare dipendenza
psicologica. Il dilagante fenomeno emulativo di atti di autolesionismo che ha persino portato a casi di suicidio, ne è un esempio.
Sono questi, dunque, i tratti preoccupanti del lato oscuro della rete che sembrano delineare una vera e propria sindrome patologica da paura di essere disconnessi e di perdersi online (cd. “Fear of Missing Out” – acronimo FOMO) strettamente connessa all’inedito paradigma “Digito ergo sum”, come nuova dipendenza configurabile nell’ambito dei disturbi comportamentali e cognitivi provocati dall’uso eccessivo di Internet (cd. “Internet Addiction Disorder”) declinabile anche come “Smartphone Addiction”. L’obiettivo degli studi e delle ricerche sul campo è quello di limitare, o almeno provare ad arginare gli effetti negativi dell’uso errato dei social, al fine di
valorizzarne le potenzialità e le opportunità. Per fare questo è necessario che vi sia un controllo, fa parte dei più grandi nei confronti dei più piccoli, che nascono già bombardati da mille informazioni e schermi. Stabilire limiti di tempo per l’uso dei social media può aiutare a ridurre la componente di dipendenza, nonché migliorare la qualità del sonno e della salute psicofisica; senza escludere a propri le connessioni online è importante sensibilizzare e investire anche su relazioni “dal vivo”, al fine di mitigare l’effetto di isolamento sociale. La mission di tutti noi dovrebbe essere quella di promuovere un uso consapevole e critico dei social media, delle connessioni e della Rete in generale, perché può contribuire a migliorare il benessere complessivo degli
individui, e di traverso della società che è sempre più digital ed pericolosa.

 

Dott.ssa Caterina Marini

Psicologa – Psicoterapeuta

OSSESSIONE TRUE CRIME: PERCHE’ SIAMO COSI’ ATTRATTI DAI CRIMINI?

Il genere true crime, che narra crimini realmente accaduti in forma narrativa e letteraria, ha origini lontane. Nasce in Gran Bretagna tra il 1550 e il 1700 con resoconti di omicidi stampati su fascicoletti e ballate che raccontavano storie di criminali famosi destinate a intrattenere la borghesia.

Nell’Ottocento, con l’aumento dell’alfabetizzazione, anche le persone comuni iniziarono a leggere storie vere di crimini sui giornali. Autori come Charles Dickens e Thomas De Quincey si interessarono al genere, storie sensazionalistiche venivano vendute a puntate e uscirono i primi romanzi polizieschi. Nel 1966 Truman Capote scrisse “A sangue freddo” raccontando il massacro di una famiglia in Kansas e il processo agli assassini. Il libro rivoluzionò il true crime, facendolo entrare di fatto nella letteratura, e insistendo molto sul punto di vista dei presunti criminali. Autori come James Ellroy e Emmanuel Carrère seguirono le sue orme, narrando casi di cronaca nera con uno stile letterario.

In Italia, il true crime è presente in riviste come Cronaca Vera e programmi televisivi come Storie Maledette di Franca Leosini. Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo e Roberto Saviano hanno raccontato storie criminali in libri e programmi TV, contribuendo a diffondere il genere anche nel nostro paese, fino ad arrivare al podcast Elisa True Crime, il più ascoltato in Italia nel 2023.

 

Ma cos’è esattamente il true crime e perché ne siamo così affascinati?

Prima di tutto, il true crime si riferisce a storie reali di crimini, investigazioni e processi giudiziari. Queste storie sono spesso ricche di suspense e mistero, due elementi che ci attraggono profondamente. Chi di noi non ama un buon mistero da risolvere? Le storie di crimini veri ci portano in un mondo oscuro e complesso, dove possiamo esplorare le profondità della mente umana e le dinamiche che portano a comportamenti estremi.

Un altro motivo per cui siamo così attratti dal true crime è la nostra curiosità innata per la psicologia umana: vogliamo capire cosa spinge una persona a commettere un crimine. Che cosa succede nella mente di un criminale? Quali sono le circostanze che portano una persona apparentemente normale a fare qualcosa di terribile?

Questa curiosità non è solo una semplice fascinazione morbosa; è un desiderio profondo di comprendere le complessità del comportamento umano. La psicologia criminale ci permette di esplorare concetti come la moralità, il bene e il male, e come fattori come l’infanzia, le esperienze traumatiche e i disturbi mentali possano influenzare le azioni di una persona. Attraverso le storie di true crime, possiamo anche riflettere su noi stessi e sui nostri comportamenti, ponendoci domande difficili: “Cosa avrei fatto io in quella situazione?” o “Potrebbe succedere anche a me?”

Un’altra dimensione del nostro interesse per il true crime è il senso di controllo che queste storie possono offrire. Viviamo in un mondo che spesso può sembrare caotico e imprevedibile. Le storie di crimini reali ci permettono di vedere il funzionamento del sistema giudiziario, come vengono risolti i crimini e come i colpevoli vengono puniti. Questo processo può darci un senso di ordine e giustizia.

Infine, sapere come e perché si verificano certi crimini può aiutarci a sentirci più preparati e meno vulnerabili. È come se, attraverso la comprensione dei meccanismi del crimine, potessimo proteggere meglio noi stessi e i nostri cari. Questo senso di controllo, anche se parziale, può essere rassicurante.

 

Negli ultimi anni, però, l’avvento dei media digitali ha amplificato enormemente la nostra esposizione al true crime. Oggi, con pochi clic, possiamo accedere a una vasta gamma di contenuti: dai documentari sui principali servizi di streaming, ai podcast che raccontano in dettaglio casi famosi e meno conosciuti, fino ai libri digitali che possiamo leggere ovunque ci troviamo. Questa accessibilità ha reso il true crime una parte integrante della nostra cultura popolare.

Nel mentre, la qualità delle produzioni moderne è cresciuta tantissimo: i documentari e i podcast di oggi sono spesso ben scritti, accuratamente ricercati e presentati in modo coinvolgente. Gli autori e i produttori sanno come tenere alta la nostra attenzione, raccontando storie in modo che risultino non solo informative, ma anche emozionanti.

 

Implicazioni Psicologiche

 

Proprio considerando il grande successo che il true crime sta raccogliendo, dobbiamo essere consapevoli delle possibili implicazioni psicologiche di un’eccessiva esposizione ad esso.

Alcuni studi suggeriscono che guardare o ascoltare troppe storie di crimini violenti può aumentare i livelli di ansia e paura. Potremmo iniziare a vedere il mondo come un luogo più pericoloso di quanto non sia realmente. Questo fenomeno è noto come la “sindrome del mondo cattivo”, espressione coniata dal ricercatore di comunicazione George Gerbner.

Il concetto è parte della sua “teoria della coltivazione”, che esplora gli effetti a lungo termine dell’esposizione ai media, in particolare alla televisione. La sindrome del mondo cattivo si riferisce alla percezione distorta della realtà che può svilupparsi in persone che sono esposte a un alto volume di contenuti violenti nei media.

Secondo Gerbner, le persone che guardano molta televisione tendono a vedere il mondo come più pericoloso e violento di quanto non sia realmente. La costante esposizione a contenuti violenti, sia attraverso notizie, serie TV o film, può portarci a sovrastimare la prevalenza della criminalità e della violenza nella vita reale. Questo fenomeno influisce sul nostro comportamento e sulle nostre decisioni quotidiane, rendendoci più diffidenti, timorosi e inclini a percepire situazioni innocue come potenzialmente pericolose.

Ma fin dove possono arrivare i sintomi di una sovraesposizione al true crime?

Alcuni dei sintomi includono:

Ansia aumentata: la costante esposizione a storie di violenza e crimine può farci sentire più ansiosi riguardo alla nostra sicurezza personale e a quella dei nostri cari.
Disturbi del sonno: pensare continuamente a storie di crimini violenti può interferire con la nostra capacità di rilassarci e dormire bene.
Desensibilizzazione: con il tempo, potremmo diventare meno sensibili alla violenza e alla sofferenza delle vittime, vedendo la violenza come qualcosa di normale o inevitabile.
Ossessione: potremmo sviluppare un interesse ossessivo per i dettagli di casi criminali, dedicando un tempo eccessivo alla ricerca di informazioni, arrivando a trascurare altre attività importanti della nostra vita.
Paura generalizzata: un’esposizione prolungata può portarci a vedere pericoli ovunque, limitando la nostra capacità di godere delle attività quotidiane e riducendo la nostra qualità di vita.

Allora, come possiamo bilanciare il nostro interesse per il truecrime con la nostra salute mentale? La chiave è il consumo consapevole. Dobbiamo essere attenti ai segnali del nostro corpo e della nostra mente. Se ci sentiamo sopraffatti o ansiosi, potrebbe essere il momento di fare una pausa. È utile alternare i contenuti di true crime con altri generi che possono rilassarci o ispirarci, come commedie, documentari sulla natura o programmi di auto-aiuto.

In conclusione, il nostro interesse per il true crime può dirci molto su noi stessi: sulla nostra curiosità, sul nostro desiderio di capire il mondo e sulla nostra ricerca di storie che ci affascinano e ci coinvolgono. Ma, come per tutte le cose, è essenziale consumare questi contenuti in modo responsabile, prestando attenzione alla nostra salute mentale e benessere emotivo.

 

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

 

 

NOMOFOBIA: LA PAURA DI ESSERE “DISCONNESSI”

Nel corso degli ultimi 20 anni i telefoni cellulari sono diventati una presenza sempre più importante nella vita di ciascuno di noi. Se negli anni 2000 i cellulari ci permettevano unicamente di telefonare e scambiare qualche sms, ad oggi sono dei veri e propri computer in cui ognuno di noi racchiude la propria vita. Sullo smartphone abbiamo l’agenda, la carta di credito, la mail e, non ultimi i social, tanto che sembra diventato impossibile farne a meno. Per tutti i motivi sopraelencati, sarà capitato a chiunque di sentire una vena di paura all’idea di non trovare il cellulare, con conseguente apertura di scenari sulla perdita, o magari il furto, di dati, contatti, account, ecc.

Quando però questa paura diventa qualcosa di più profondo, prende il nome di nomofobia (No Mobile Phobia). Recentemente questo termine è stato aggiunto anche al dizionario della lingua italiana Zingarelli, ad indicare che tale fenomeno è in grande espansione.

Ma come si riconosce la nomofobia? Questo termine indica una vera e propria dipendenza da smartphone e si caratterizza con sintomi simili a quelli dell’attacco di panico ogni qualvolta il soggetto non ha a disposizione il cellulare, oppure non ha credito o la possibilità di accedere ad internet. Le manifestazioni sintomatiche possono comprendere:

tachicardia

affanno

mancanza di respiro

sudorazione

tremori

nausea

dolore toracico.

Le persone affette da nomofobia vivono in uno stato di costante allerta e, per evitare di non avere il telefono a disposizione, mettono in atto una serie di comportamenti compensativi, come controllare continuamente lo stato della batteria, il credito e la disponibilità di dati, portare con sé caricabatterie o powerbank o girare con un telefono “di scorta”; se ci pensiamo questo atteggiamento ricorda ad esempio quello di un fumatore incallito, che farà sempre attenzione a non restare senza sigarette onde evitare di sperimentare una forte ansia.

In chi soffre di nomofobia si possono inoltre riscontrare le seguenti caratteristiche comportamentali:

Utilizzo dello smartphone in luoghi o momenti poco appropriati;
Passare una quantità eccessiva di tempo al telefono (social, video, giochi, ecc.);
Monitoraggio costante del telefono per controllare l’arrivo di eventuali notifiche;
Andare a dormire col telefono o il tablet;
Tenere lo smartphone acceso 24/24 h;
Tenere sempre sotto controllo il credito e lo stato della batteria.

In definitiva, la nomofobia si caratterizza per il terrore di essere disconnessi.

Per quanto tale fenomeno possa sembrare recentissimo, già nel 2008 uno studio commissionato dal governo britannico tra i cittadini in possesso di un telefono cellulare rilevava dati allarmanti: circa il 58% degli uomini e il 47% delle donne manifestavano una forte ansia all’idea di essere “disconnessi” dai propri dispositivi.

Nonostante tale dipendenza sia ormai dilagante, attualmente non esistono molti trattamenti specifici e i pochi a disposizione comprendono la psicoterapia ad orientamento cognitivo comportamentale e, in casi gravi, il ricorso a terapie farmacologiche.

L’obiettivo dei trattamenti è specificamente il riavvicinare il soggetto alla vita reale e ai contatti faccia a faccia, distogliendo per quanto possibile l’attenzione dalla realtà virtuale in cui il soggetto è costantemente immerso.

Le persone affette da nomofobia dovrebbero dedicare tempo, ogni giorno, ad attività che non richiedano l’uso di supporti tecnologici, come leggere un libro o fare attività fisica. E’ importante che ci siano dei momenti della giornata in cui non è concesso l’uso del cellulare, come l’orario dei pasti o prima di andare a dormire.

Può essere utile disattivare le notifiche delle applicazioni meno importanti, così da limitare lo stato di allerta e l’ansia da mancata risposta.

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta

IL LUTTO NON E’ UN EVENTO PRIVATO. I compiti della famiglia nell’elaborazione del lutto

Quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui”

Alessandro Baricco

Malgrado sia la famiglia il luogo naturale dove si vive una perdita e si elabora il lutto, da sempre l’esperienza della perdita è stata affrontata dalla psicoanalisi in termini individuali, per la risonanza emotiva che assume nella vita più intima del soggetto colpito dal dolore per la perdita di un affetto. Tuttavia non possiamo fermarci alla dimensione individuale, ma è necessario indagare anche gli effetti che il lutto produce nella dimensione più ampia della famiglia.

Il lutto costituisce, come affermano Andolfi e D’Elia (2007), “un affare di famiglia” ed è quindi nel contesto familiare che vanno ricercate le risorse per la sua elaborazione o per la sua mancata elaborazione. Risulta quindi necessario coinvolgere il mondo interno della persona, le sue relazioni familiari e sociali, i suoi valori, la sua cultura (Onnis, 1988).

Per la famiglia di oggi è molto più difficile affrontare il lutto rispetto al passato. In passato, la perdita di un affetto attivava un processo di condivisione del dolore a cui tutti i membri della famiglia stretta e dell’intera comunità partecipavano attivamente. Generalmente la persona moriva in casa, tutta la famiglia era coinvolta in uno specifico cerimoniale che iniziava con la cerimonia funebre e si concludeva generalmente dopo un anno, con il rito dell’anniversario di morte, momento in cui la famiglia stretta si legittimava a non indossare più abiti neri in segno di lutto.

Negli ultimi anni invece, si è assistito ad un incremento dei contesti assistenziali istituzionali, così la morte, da un momento di saluto condiviso del proprio caro, è diventato qualcosa da evitare e da vivere in solitudine, rimanendo a tutti gli effetti  un tabù da cui bisogna proteggersi. Il risultato è che spesso manca l’appoggio reciproco e il rischio è che tutti si sentano soli, trovandosi improvvisamente di fronte ad una morte che avevano previsto, ma che non hanno potuto preparare. Le famiglie di oggi così poco numerose  e così diverse dal passato, hanno più difficoltà a contenere in un gruppo solidale un evento particolarmente doloroso e traumatico come la perdita di uno dei suoi membri. Riuscire ad accettare ed elaborare la morte di un familiare dipende, ancora una volta da diversi fattori quali l’età del defunto, la natura della morte, la posizione occupata in vita nella famiglia e le implicazioni emotive, ma anche dalle caratteristiche del sistema familiare e dal suo grado di “apertura e flessibilità”.

La famiglia funziona come un sistema unitario, la perdita di uno dei suoi membri è un evento stressante per tutto il sistema familiare, soprattutto per i cambiamenti e i riadattamenti che essa impone. Al pari delle relazioni individuali, anche la famiglia vive la stessa sequenza di reazioni: shock, negazione e rifiuto, disperazione, rielaborazione, fase di accettazione e fase di lutto. In ciascuna di queste fasi p verificarsi una sorta di blocco o di irrigidimento che non consentirà al sistema di procedere oltre nelle tappe successive del lutto né di giungere alla sua completa elaborazione, spesso per una reciproca protezione dal dolore. Ad esempio potrà generarsi un tacito accordo secondo il quale non si può far riferimento all’evento luttuoso in nessuna situazione, oppure porterà i singoli a svolgere compiti e funzioni sempre uguali a loro stesse, con lo scopo di consolare e proteggere il familiare che secondo tutti, è stato quello più danneggiato dalla perdita. In entrambi i casi viene bloccata l’elaborazione del lutto e la possibilità di una ripresa della vita familiare. Secondo Minuchin (1982), la famiglia che ha sperimentato una morte o un abbandono può avere delle difficoltà nella riattribuzione dei compiti del membro che manca. Spesso si fisserà in un atteggiamento tipo: se la mamma fosse ancora viva, saprebbe cosa fare. Ciò significa che subentrare alla madre nelle sue funzioni sarebbe un atto di infedeltà alla sua memoria. Minuchin individua le morti prenatali o perinatali, gli aborti (volontari o involontari), le morti di bambini a pochi giorni, come le perdite più rilevanti che modificano la struttura emotiva della coppia e della famiglia. Per esempio l’aborto anche se è un evento programmato “scelto” e non accidentale è un lutto particolarmente difficile da elaborare proprio perché viene vissuto intimamente come qualcosa di cui vergognarsi e raramente viene condiviso. Sempre secondo Minuchin i “tempi” di elaborazione del lutto rientrano tra i 9-12 mesi, entro questo “tempo” la famiglia e l’individuo si evolverà verso una nuova situazione (sviluppo del processo di elaborazione) oppure si cristalizzeràsulla struttura organizzativa presente (blocco del processo di elaborazione). Alcune persone affrontano il lutto nascondendolo a loro stesse, spesso in terapia accade che la persona arrivi a parlare del lutto quasi accidentalmente, in questi casi parliamo di “negazione dell’evento doloroso”. Tra i diversi meccanismi di difesa che consentono alla persona di non entrare in contatto con una realtà troppo dolorosa e con i sentimenti ad essa legati, c’è appunto la “negazione” quella modalità per cui i contenuti dolorosi possono accedere alla coscienza alla sola condizione di essere negati. Ne risulterà un’accettazione esclusivamente razionale, negando tutto l’impatto emotivo che l’evento porta con sé.

Un altro elemento che può facilitare o bloccare l’elaborazione del lutto è l‘ambiguità dei confini familiari. I confini familiari sono intesi come l’insieme di norme che regolano i rapporti tra i vari sottosistemi (Minuchin, 1977). Come la membrana attorno alla cellula, i confini devono essere “solidi” al fine di assicurare l’integrità dell’individuo e “permeabili” per assicurare la comunicazione tra i membri della famiglia. In questo modo si definiscono i ruoli familiari, si marcano le differenze evolutive fra i membri della famiglia, venendo incontro ai bisogni emotivi di ciascun membro. Si individuano due tipologie di famiglie: famiglie invischiate (confini deboli) caratterizzate da un elevato livello di coesione, eccessiva vicinanza e indebolimento dei ruoli familiari; famiglie disimpegnate (confini rigidi) caratterizzate da uno scarso livello di coesione, marcata differenziazione e scarsa connessione tra i sottosistemi.

La tipologia di confini, dopo un primo momento in cui l’ambiguità dei confini sembra essere fisiologica, influenzerà la modalità con cui la famiglia reagirà al lutto.

Byng-Hall (1998), sostiene che chi subisce una perdita deve necessariamente assolvere a due compiti: piangere la persona scomparsa e dover rinunciare alle speranze e alle aspettative per ciò che sarebbe successo nel futuro con la persona che è venuta a mancare. In sostanza, la famiglia si ritrova a piangere il “copione” familiare che la famiglia aveva scritto per il futuro e dover riscrivere un “nuovo copione” che preveda l’assenza della persona defunta. Byng-Hall (1988) definisce i copioni familiari come le aspettative condivise dalla famiglia su come i ruoli familiari debbano essere rispettati all’interno di contesti diversi e su cosa deve essere detto o fatto all’interno delle relazioni familiari. Di fronte ad una perdita, la famiglia deve elaborare il lutto per quel copione familiare che prevedeva la presenza di tutti i suoi componenti. L’esempio più significativo è quello di genitori che perdono un figlio, insieme al lutto per il figlio dovranno elaborare il lutto per le speranze e le aspettative che avevano per il futuro del loro figlio, trovando la forza per piangere il vecchio copione e allo stesso tempo la forza per riscriverne uno nuovo.

Murray Bowen, nel saggio dal titolo “La reazione della famiglia alla morte” definisce la morte come un’onda d’urto emotiva che si diffonde intergenerazionalmente, generando disturbi psicopatologici nei suoi membri che spesso ne ignorano l’eziologia. L’onda d’urto emotiva non è direttamente correlata alle reazioni di dolore ma è piuttosto espressione del livello di fusione emotiva e di indifferenziazione presente tra i componenti della famiglia. La si può paragonare ad una sorta di contagio emozionale dove la sofferenza si diffonde dall’uno all’altro membro della famiglia sulla base della dipendenza emozionale esistente, di mancata differenziazione e di ipercoinvolgimento.

Due caratteristiche del sistema familiare possono facilitare oppure ostacolare l’elaborazione del lutto: un “sistema relazionale aperto” e un “sistema relazionale chiuso”. Nel sistema relazionale aperto, i sentimenti possono essere espressi liberamente senza timore di contagiare gli altri. La differenziazione tra i membri permette uno scambio comunicativo ampio e significativo e di conseguenza, una più semplice elaborazione del lutto per la persona che sente di poter condividere con i membri della sua famiglia i contenuti emozionali. Un sistema relazionale chiuso, invece, è rappresentato da quella famiglia in cui un individuo non è libero di comunicare pensieri, sentimenti e fantasie a causa della dipendenza emotiva dall’altro, non tutte le emozioni hanno l’autorizzazione ad essere espresse, ed è per questo meccanismo che spesso il lutto si trasforma in un argomento tabù di cui non si può assolutamente parlare.

La capacità comunicativa rispetto alla profondità del dolore, è una risorsa della famiglia, quando questa capacità viene meno, si manifesteranno modalità protettive e collusive, l’elaborazione del lutto sarà complicata e rallentata. Norman Paul (1965), evidenzia come eventuali lutti non risolti nel passato familiare possano avere un impatto significativo sugli scambi trigenerazionali, questo punto di vista pone l’accento su come il lutto non risolto possa tramandarsi di generazione in generazione. Per Canevaro (2005), lo scenario naturale del lutto non è solo la famiglia nucleare , bensì l’intero sistema trigenerazionale, che costituisce la rate allargata e che, insieme agli amici, si trasforma nel supporto più importante del sistema familiare nucleare e del singolo soggetto.

A seguito della perdita di uno dei suoi membri, sia il singolo che la famiglia, si trovano a dover svolgere una serie di compiti. I compiti che spettano all’individuo sono di natura intrapsichica, quelli invece, che spettano alla famiglia hanno una matrice relazionale che si fonda sullo scambio comunicativo e sulla capacità di riorganizzazione della struttura familiare.

Goldberg (1973), Gilbert (1996) e Pereira (1999), hanno individuato i compiti che la famiglia dovrà affrontare per una buona elaborazione del lutto:

riconoscere la perdita e che ciascuno dei membri della famiglia vive il proprio dolore
permettere a ciascun membro di esprimere sentimenti di tristezza, vuoto e dolore
rinunciare alla presenza della persona scomparsa
favorire la condivisione della sofferenza e del dolore tra i vari membri della famiglia
riallineare i ruoli, per permettere alla famiglia di riorganizzarsi  al proprio interno
riallineare i ruoli e i confini extrafamiliari, la famiglia si occuperà di riorganizzare la sua relazione con il mondo esterno
riaffermare il sentimento di appartenenza al nuovo sistema familiare

In conclusione affinché il lutto possa essere elaborato è necessario che la persona colpita possa dare libero sfogo alle proprie emozioni (paura, struggimento, collera, tristezza, senso di colpa), ovvero che attraversi tutte le fasi di elaborazione del lutto. Quando questa possibilità viene negata (dal soggetto stesso o dal sistema familiare), il lutto si blocca ed i vissuti emozionali che non hanno trovato il giusto ed adeguato sfogo, determineranno una pressione costante e duratura sul singolo fino ad arrivare ad un tipo di funzionamento patologico.

Dott.ssa Angela Pia Giampalmo

Psicologa-Psicoterapeuta

Bibliografia

Andolfi, M.- D’Elia, A. (2007), Le perdite e le risorse della famiglia, Raffaello Cortina, Milano.

Bowen, M. (1979), Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma.

Byng-Hall, J. (1998), Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico. Raffaello Cortina, Milano.

Canevaro, A. (2005), Approccio trigenerazionale al lutto familiare. In saggi, Child development and disabilities, Vol. XXXI, Associazione la nostra famiglia, Bosisio Parini.

Goldberg, S.b. (1973), Family Tasks and reactionsin the crisis of death, Family Service Association.

Haley, J. (1976), Terapie non comuni, Astrolabio, Roma.

Minuchin, S. (1977), Famiglie e terapia della famiglia, Astrolabio, Roma

Minuchin,S., Fishman, H.C. (1982), Guida alle tecniche della terapia della famiglia, Astrolabio, Roma.

Onnis, L. (1988), Famiglia e malattia psicosomatica, NIS, Roma.

Pereira, R. (2006), Un approccio sistemico al lutto, in Psicobiettivo, Fascicolo 1, Franco Angeli, Milano.

BIOFILIA E TERAPIA FORESTALE

Il termine biofilia (letteralmente amore per la vita) è stato introdotto da Fromm nel 1964 inteso come tendenza psichica, intrinseca alla biologia umana, a rivolgersi istintivamente verso la natura e le altre forme di vita. Secondo questa teoria, l’uomo di fronte a paesaggi naturali subisce una forma di “fascinazione”, intesa come attenzione involontaria che, contrariamente all’attenzione diretta e sostenuta, non richiede sforzo. Questo permette alla nostra mente di riposare e rigenerarsi, riconoscendo nella natura incontaminata un ambiente familiare, in qualche modo già conosciuto e riconoscibile.

I suoni e le immagini che provengono dalla natura, ci rimandano ad una sorta di memoria ancestrale, sono stimoli che non abbiamo bisogno di elaborare ed interpretare cognitivamente con sforzo, perché i nostri sistemi sensoriali sono, a partire dall’inizio della vita dell’uomo sulla terra, strutturati ed ottimizzati per elaborare quello specifico tipo di sensazioni. Non si viene mai sorpresi, l’attenzione non è mai catturata in modo attivo, non è mai allerta e questo facilita il recupero energetico ed il benessere psicofisico.

La terapia forestale, prende origine a partire proprio dai costrutti della biofilia, ovvero dell’evidenza che il contatto con la natura, a diversi livelli (dal più indiretto a quello più immersivo) genera benessere. Lo sanno bene i giapponesi che per primi hanno adottato il Shinrin-yoku (letteralmente bagno con il bosco) come parte delle strategie di prevenzione delle malattie croniche e tutela della salute pubblica. Nel 2020 l’ONU ha riconosciuto la frequentazione degli ambienti forestali come pratica di medicina preventiva, in particolare nel contrastare gli effetti successivi alla pandemia e, in Italia, il Ministero per le politiche agricole ha indicato la terapia forestale come un servizio socio culturale nel nuovo piano per le politiche forestali

Nonostante alcune ricerche abbiano dimostrato che già l’esposizione virtuale ad ambienti forestali sia sufficiente a ridurre i livelli di ansia percepita, la terapia forestale normalmente propone attività più strutturate e immersive come camminate consapevoli, meditazione, yoga, mindfulness e semplici attività manuali, svolte in piccoli gruppi guidati da guide specializzate affiancate da operatori sanitari della salute mentale.

Gli effetti benefici sono “dose dipendente”, ovvero più tempo si trascorre in un contesto naturale incontaminato, maggiori e più duraturi sono i benefici per la salute fisica e psichica. In media si consiglia di trascorrere nell’arco di una settimana almeno 2 ore immersi in ambiente naturale per avere benefici in termini di benessere percepito.

Quello che viene proposto è di compiere una esperienza immersiva, ovvero che coinvolga tutti i 5 sensi:

LA VISTA: è stato dimostrato che anche la sola stimolazione visiva con immagini forestali proiettate su uno schermo portava benefici psicologici e fisiologici. La visione di un contesto naturale, meglio ancora se selvaggio e incontaminato, con presenza di corsi d’acqua e con diverse tipologie di alberi e arbusti, produce una significativa riduzione dei livelli di ansia percepita.

IL TATTO: con qualsiasi parte del corpo di un elemento naturale produce un effetto calmante e un aumento dell’attività parasimpatica. Il contatto, in particolare con il legno di alcune specie arboree, soprattutto conifere, induce rilassamento rilevabile a livello fisiologico. Interessante notare che questo avviene sia in ambienti naturali all’aperto che in ambienti indoor in cui siano presenti manufatti in legno.

IL GUSTO: connette ancor più profondamente all’ambiente naturale, si pensi non solo alla gratificazione nel gustare piccoli frutti selvatici, ma anche ai possibili benefici di alcune piante selvatiche.

L’UDITO: gioca, ancor più della vista, un ruolo importante nell’indurre rilassamento; il suono di un ruscello, del vento tra gli alberi da soli possono determinare una sensazione di benessere

L’OLFATTO: è il senso che viene più coinvolto negli effetti benefici derivanti dalla terapia forestale. Quando ci troviamo, in particolare in un bosco, respiriamo quello che le piante emettono, cioè, composti organici volatili biogenici (detti BVOC), ovvero biomolecole con importanti effetti benèfici; da soli, anche a basse concentrazioni, sono ad esempio in grado di ridurre la percezione di ansia.

Biomolecole diffuse da piante diverse possono avere effetti diversi: antiinfiammatori, antiossidanti, calmanti, ansiolitici, antidepressivi, benèfici rispetto ai disturbi del sonno (conifere) antimicrobici, antiinfiammatori, anti-emorragici (latifoglie), neuroprotettivi(faggio).

I BVOC sono facilmente solubili nel sangue per cui vengono assimilati molto facilmente e sono in grado di superare facilmente la barriera ematoencefalica e quindi di produrre un effetto diretto sul cervello. Effetti simili si possono avere anche in ambienti chiusi in presenza di manufatti in legno, suoi derivati o oli essenziali.

Come illustrato la terapia forestale ha effetti benefici, in grado di prevenire tutta una serie di disturbi, inserendosi quindi come utile strumento di prevenzione primaria. È in grado, infatti, di prevenire alcuni disturbi a livello circolatorio, diminuendo la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e i livelli di cortisolo, e migliorando l’efficienza del sistema immunitario, con una maggiore produzione di linfociti Natural Killer

Nuove evidenze si stanno raccogliendo anche rispetto alle possibilità terapeutiche della terapia forestale che si dimostra di ausilio nel trattamento di alcuni disturbi. Si è evidenziata ad esempio una riduzione della sintomatologia depressiva in particolare quando la terapia forestale si associa a pratiche meditative. Altre evidenze riguardano l’impatto della terapia forestale nel disturbo da dolore cronico, nel disturbo d’ansia e nel trattamento delle demenze in particolare nelle funzioni di attenzione e memoria. Negli ultimi anni sono diversi i filoni di ricerca che riguardano le applicazioni terapeutiche della terapia forestale; un elemento di criticità va rintracciato però nella difficoltà di indentificare protocolli standardizzati, ripetibili e controllati che permettano di strutturare protocolli terapeutici ufficiali.

In conclusione, ancora una volta si ha evidenza di come l’equilibrio mente corpo non possa prescindere dall’equilibrio con la natura e col ritrovare antichi rituali e paesaggi che ci rimettano in contatto con una dimensione naturale ancestrale dove la bellezza e l’armonia contribuiscono al nostro benessere.

Dott.ssa Chiara Delia

Bibliografia

Park et al. (2022). What Activities in Forests Are Beneficial for Human Health? A Systematic Review. International Journal of Environmental Research and Public Health, 19(5)
FAO and UNEP The State of the Worlds Forests 2020. Forests, biodiversity and people; Food and Agriculture Organization of the United Nations: Rome, 2020
White, M.P., et al, (2019). Spending at least 120minutes a week in nature is associated with good health and wellbeing. Sci Rep 9, 7730
Antonelli M et al (2020),. Forest Volatile Organic Compounds and Their Effects on Human Health: A State-of-the-Art Review. Int J Environ Res Public Health. Sep 7;17(18):6506.
Hansen MM, et al. (2017) Shinrin-Yoku (Forest Bathing) and Nature Therapy: A State-of-the-Art Review. Int J Environ Res Public Health. 2017 Jul 28;14(8):851.
Rosa C.D. et al. (2021) Forest therapy can prevent and treat depression: Evidence from meta-analyses Urban Forestry and Urban Greening
Zabini, F.; et al (2020) Comparative Study of the Restorative Effects of Forest and Urban Videos during COVID-19 Lockdown: Intrinsic and Benchmark Values. Int. J. Environ. Res. Public Health 2020, 17, 8011,

BALBUZIE E AGGRESSIVITA’: una lettura psicoanalitica

Quante volte ci siamo imbattuti in una di quelle giornate estenuanti dove risulta faticoso anche articolare le parole? Come ci sentiamo in quella situazione? Cosa percepisce il nostro interlocutore? Immaginiamo che questo avvenga quotidianamente e che non sia influenzato dalla stanchezza. Immaginiamo che possa accompagnare le giornate di una persona fin dall’infanzia con ripercussioni in ambito sociale, sull’interazione e sull’autostima.

Stiamo parlando di balbuzie, ma di cosa si tratta?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera la balbuzie un disordine del ritmo della parola, un disturbo di fluenza del linguaggio.

Si tratta di un disturbo universale, cioè si riscontra in tutta la popolazione e nei diversi ambiti sociali. Diversi personaggi celebri erano balbuzienti e nonostante la loro difficoltà sono stati capaci di fare della comunicazione il loro mestiere, basti pensare tra i tanti ad Aristotele, Virgilio, Wittgenstein, re Giorgio VI (meravigliosamente ritratto nell’affrontare la sua difficoltà nella pellicola Il discorso del re), Churchill e Marilyn Monroe.

In genere la balbuzie insorge più facilmente durante la prima infanzia, all’inizio della scuola primaria e con la pubertà, mentre l’insorgenza in età adulta è legata a traumi o patologie neurologiche. La maggiore frequenza è nella fascia di età 3-6 anni ed è considerata fisiologica, poi la frequenza diminuisce e si attesta sotto l’1% oltre la maggiore età. La maggiore incidenza è presente nel sesso maschile con un rapporto 3-6:1 rispetto alle femmine. Vengono riconosciute tre forme di balbuzie: la tonica, che prevede blocchi improvvisi durante l’emissione; la clonica, che vede la ripetizione di una lettera, una sillaba o una parola all’inizio della produzione; una forma mista delle due precedenti. Un’ulteriore distinzione è tra balbuzie primaria e secondaria, dove la prima si riscontra nei primi anni di vita e il bambino non ne è consapevole, mentre nella seconda vi è coscienza del disturbo e si manifesta in età scolare.

Che ruolo ha la psiche in tutto ciò?

Nell’eziologia della balbuzie vengono riconosciuti fattori organici ma anche funzionali, ovvero la psicologia del soggetto e il funzionamento dell’ambiente. Viene riconosciuta l’implicazione degli aspetti psicologici e relazionali. L’insorgere del disturbo è spesso correlato a episodi traumatici e l’espressione e l’uso dell’aggressività è uno degli aspetti principali della balbuzie.

Ma oltre agli aspetti psicologici individuali, qual è il ruolo dell’ambiente?

Gli studi sulle dinamiche affettive hanno evidenziato che nella nostra cultura occidentale l’ambiente familiare relazionale del balbuziente pare caratterizzato da alcuni elementi specifici:

– iperinvestimento della parola, dove l’aspetto formale è più importante del contenuto affettivo;

– educazione rigida e formale;

– tensioni e contrasti soprattutto con la figura paterna;

– forte richiesta dei genitori che il figlio soddisfi le loro aspettative narcisistiche di successo, ma quando queste vengono disattese si instaura un clima di tensione e un atteggiamento passivo e dipendente del balbuziente o all’opposto manifestazioni di instabilità emotiva.

L’interesse per la balbuzie e gli studi su di essa risalgono a molto tempo fa e diversi psicoanalisti hanno contribuito al tema con i loro apporti teorici.

Uno dei primi psicoanalisti a occuparsi di balbuzie fu proprio Freud (1892-95), che nell’analisi di Frau Emmy von N. evidenziò il disturbo a seguito di una serie di incidenti traumatici. In seguito, lo stesso Freud (1901), in Psicopatologia della vita quotidiana la considera indice di un conflitto interiore.

Successivamente con la psicoanalista Melanie Klein si apre una riflessione rispetto alla balbuzie come una fissazione a uno stadio di sviluppo specifico e diversi autori apportano i loro contributi.

La Klein (1923) espone il caso di una bambina balbuziente e mette in luce come nel linguaggio ci possa essere la sublimazione delle fissazioni orali, cannibalesche e sadico-anali. Fenichel (1945) considera la balbuzie principalmente un sintomo di fissazione allo stadio sadico-anale, mentre per Wassef (1955) sarebbe associata a problematiche edipiche che non si risolvono a causa di conflitti irrisolti negli stadi precedenti. Da questi tre diversi contributi emerge l’aspetto di aggressività.

Altri autori inseriscono nella riflessione sulla balbuzie il ruolo dell’ambiente e della famiglia, che abbiamo precedentemente detto avere un ruolo importante nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo.

Johnson (1959) sostiene che vi sia una visione negativa del linguaggio da parte del balbuziente tale da inibire la parola, evidenziando l’importanza della famiglia nell’insorgenza del disturbo. Glauber(1943, 1950, 1951) riporta le origini della balbuzie al rapporto madre-bambino e alla fissazione a livello orale-narcisistico, che si traduce in aspetti di dipendenza e passività tipici del balbuziente. In un articolo pubblicato postumo l’autore considera il linguaggio come una funzione dell’Io che opera preconsciamente, ovvero il parlare diventa un automatismo. In tal senso la balbuzie sarebbe una disautomatizzazione, il processo non è più inconscio ma controllato dall’Io (Glauber, 1968). Egli avanza l’ipotesi che la disautomatizzazione, ovvero l’investimento conscio delle funzioni preconsce, possa derivare da un trauma. Questo avviene nella separazione dall’identificazione con la madre e l’aggressività che si genera in seguito colpisce il linguaggio nell’automatismo e nella fluenza.

Una visione che prende in considerazione la regressione o la fissazione a più stadi di sviluppo è quella proposta da Anzieu (1964, 1969, 1980, 1982). Secondo lo psicoanalista francese il sintomo della balbuzie si manifesta contemporaneamente su tre registri – paranoico, ossessivo e isterico – corrispondenti rispettivamente ai tre stadi orale, anale e fallico. Il linguaggio costituisce la conquista del simbolico e rappresenta l’accettazione delle differenze generazionali e del divieto dell’incesto, ovvero il superamento dell’Edipo. Secondo tale visione la balbuzie è il sintomo che esprime il conflitto tra il desiderio inconscio e la sua non ammissione. Come per Glauber, anche per Anzieu la balbuzie si manifesta quando le tematiche edipiche di madre e figlio colludono e il balbuziente non riesce a superare la posizione edipica non potendo accedere alla sessualità genitale e al godimento. Per Anzieu, in accordo con Glauber, il sintomo è ineliminabile per la sua natura arcaica e difensiva.

Sulla scia di una visione più allargata la balbuzie viene interpretata come un sintomo, che può presentarsi in diverse forme nevrotiche che esprimono diverse problematiche, in cui gli organi del linguaggio diventano il luogo più adatto per esprimere il conflitto (Sigurtà, 1955, 1970).

Bion (1967, 1970) sottolinea l’aspetto relazionale del balbettare dove lemozione sottostante alla formulazione verbale con cui viene espressa l’esperienza non può essere contenuta dal contenitore linguaggio e ciò che viene espresso è spogliato del suo significato.

Un’altra visione è quella che avvicina la balbuzie a sintomi psicofisici, come l’asma bronchiale (Gaddini, 1980). Secondo Gaddini De Benedetti (1980) vi è un riferimento al distacco e alla separatezza dall’oggetto primario, che hanno un’influenza sulla mente infantile, la quale connette il parlare e il respirare per riattivare una delle prime esperienze della mente, ovvero succhiare e deglutire mentre si respira. Anche Giannitelli (1976) evidenzia nella balbuzie l’attivazione delle pulsioni aggressive e distruttive sulla base di angosce traumatiche di separazione con la localizzazione somatica sulle vie aree, che rimandano all’iperinvestimento dell’aria della fissazione anale – “a livello del pensiero primitivo l’apparato respiratorio sembra diventare la sede dell’incorporazione degli oggetti alla stessa guisa di quello intestinale: alla stessa guisa si prendono e si ricevono sostanze dal mondo esterno, o si restituiscono, si ridanno ad esso”. La balbuzie e le malattie respiratorie sono per l’autore comunicazione di richiamo al rapporto per via somatica con modalità di espressione non verbali.

Le varie letture proposte mettono in luce diverse sfaccettature e convergono in una visione psicoanalitica che considera la balbuzie un sintomo la cui origine si lega a fasi precoci dello sviluppo affettivo, dove l’aggressività è fondamentale e funzionale nei processi di separazione e differenziazione di sé dall’altro. Viene riconosciuta una stretta connessione tra espressione psichica e substrato organico e la balbuzie è considerata una conversione del conflitto psicologico sull’organo – il sistema respiratorio o l’apparato articolatorio-fonatorio. L’aggressività costituisce un nodo fondamentale, è necessaria per stabilire il confine tra sé e l’altro e la parola può attraversare lo spazio che si genera diventando un segno di separazione ma anche di relazione, ma tutto ciò diventa molto faticoso quando alla base vi è un’angoscia di separazione tale da minare la relazione.

Ma come intervenire?

Quando parliamo di trattamento della balbuzie dobbiamo avere a mente che esistono diverse metodologie e tecniche.

Una di queste è il trattamento logopedico, che si avvale di tecniche di rilassamento, di controllo della respirazione e dell’emissione di parole e si occupa di sviluppare abilità verbali e non verbali e di favorire l’interazione comunicativa. Nella prima infanzia generalmente viene sconsigliato il trattamento logopedico, in quanto affinchè esso abbia effetto il bambino deve avere coscienza della balbuzie e ritenerla disturbante. In tale fase si lavora dando consigli ai genitori per evitare che il sintomo si fissi.

Oltre alla figura professionale dello specialista in logopedia, un contributo importante nel trattamento della balbuzie può essere dato dallo psicoterapeuta. Nello specifico, avendo sottolineato l’importanza della visione del disturbo in un’ottica relazionale secondo la quale la balbuzie è un disturbo della relazione interpersonale, si ritiene elettivo il trattamento psicoterapeutico dove terapeuta e paziente si incontrano all’interno di una relazione sufficientemente buona che potrà tradursi in un’esperienza emozionale correttiva (Alexander, 1946).

Dott.ssa Tatiana Giunta

 

BIBLIOGRAFIA

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IL DOLORE COME ESPERIENZA UNICA E SOGGETTIVA. Fibromialgia e malattie psicosomatiche

Il provare una qualsiasi forma di “dolore” molto spesso è parte integrante della sofferenza psicologica, ne può effettivamente essere causa o conseguenza, oppure anche entrambe assieme.

Le persone a volte esperiscono dolori ai quali non riescono a dare delle spiegazioni e la sofferenza può risiedere anche e soprattutto nel fatto che, dopo diversi e accurati esami specialistici, neanche la medicina riesca a trovare un riscontro organico, qualcosa di “malfunzionante” all’interno dell’organismo, del corpo in generale. Di questo, ne fanno esperienza le persone che soffrono di una malattia cronica psicosomatica, appunto.

Per comprendere ciò, bisogna prima distinguere tra due tipi di dolore: quello “acuto” e quello “cronico”.

Il dolore “acuto” è occasionale, in risposta a uno stimolo inatteso e intenso, relativo allo stato attuale e reversibile, poiché ha un inizio e una fine.

Il dolore “cronico”, invece, è persistente e costante, quotidiano ed è una risposta disadattava del nostro corpo.

La International Association for the Study of Pain (IASP), nel 2020, ha definito il dolore cronico come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata o simile a quella associata a un danno tissutale reale o potenziale”.

La American Psychological Association, già nel 2013, sosteneva,infatti, che il punto cruciale non è il sintomo somatico in sé ma il modo in cui la persona lo presenta e lo interpreta.

Con questi interventi e queste “nuove” e aggiornate definizioni si può parlare di una effettiva rivoluzione nel considerare questo tipo di dolore derivante non solo da un malessere fisico o organico, biologico ma anche da fattori psicologici e sociali dell’individuo. Prende in considerazione la soggettività e l’unicità della persona, esattamente la sua personale esperienza.

Ne deriva, quindi, che il vissuto di  dolore dovrebbe essere sempre compreso e rispettato, dato che, inoltre, le persone apprendono il concetto di dolore attraverso le loro esperienze di vita.

Sebbene il dolore di solito abbia un ruolo adattativo, può avere effetti negativi sulla funzionalità e il benessere sociale epsicologico.

Con ciò, bisogna anche tenere in considerazione che la descrizione verbale non è l’unico modo per esprimere il dolore e che l’incapacità di comunicare non nega la possibilità che un essere umano stia provando malessere: ovvero, se non esplicito verbalmente che ho dolore, non vuol dire che sia scontato che io non ne abbia. Un po’ come “se non sto chiedendo aiuto non vuol dire per forza che non ne abbia bisogno”.

Più in generale, l’OMS, invece, definisce la malattia cronica come un “problema di salute che richiede un trattamento continuo durante un periodo di tempo che può andare da anni a decadi”.

Nonostante l’elenco sia molto lungo e si suddivida anche per categorie, prendiamo come esempi solo alcune delle malattie psicosomatiche croniche, quelle che potrebbero essere le più “conosciute”:

Gastrite
Colite spastica (sindrome del colon irritabile)
Psoriasi
Artrite reumatoide
Fibromialgia

Negli ultimi anni, l’attenzione medica e psicologica si è soffermata in particolar modo sulla fibromialgia. La fibromialgia è una sindrome dolorosa cronica caratterizzata dall’insorgere di numerosi sintomi differenti tra loro ed associata ad ulteriori disturbi come stanchezza cronica, disturbi cognitivi, problemi psichici, alterazioni del sonno e sintomi somatici.

Colpisce in Italia oltre 2 milioni di persone, corrispondenti circa al 3% dell’intera popolazione. Si tratta di una sindrome che potremmo definire «di genere» perché più dell’80% di coloro che ne sono affetti sono donne tra i 30 e i 60 anni.

Le cause della fibromialgia sono ancora da identificare. Si suppone che per comprenderle appieno bisogna centralizzare la soggettività della persona, prendendo in considerazione dunque la sua intera storia di vita: fattori psicologici, sociali, ambientali e non solo una possibile vulnerabilità biologica.

Il sintomo cardine della malattia, presente in ogni persona che ne è affetta, resta comunque il dolore cronico. Più precisamente, si parla di “dolore nociplastico”: in questa forma, non vi è un danno al sistema nervoso né al sistema tissutale ma è presente un’alterazione della nocicezione. La nocicezione è quel processo sensoriale che rileva i segnali e le sensazioni di dolore, tutto ciò tramite l’attivazione di recettori periferici (terminazioni nervose), chiamati appunto “nocicettori”. Come se fossero i “sensori del dolore” del nostro corpo: nella fibromialgia, questi sensori funzionano “male” e attivano la percezione di dolore anche laddove non è presente nessuno stimolo reale.

Tramite studi e ricerche sul tema, si è notato come esistano delle costanti negli aspetti psicologici, comuni in tutte le persone che soffrono di fibromialgia:

Uno stile di attaccamento insicuro o disorganizzato
Uno o più eventi di vita traumatici
Alessitimia (la difficoltà nel riconoscere, esprimere e distinguere le proprie emozioni e sensazioni corporee)
Bassa autostima

Per trattare la fibromialgia in maniera sufficientemente efficace e permettere alla persona di condurre una vita il più “normale” possibile, l’intervento elettivo è sicuramente quello multidisciplinare: una terapia farmacologica utile ad alleviare i sintomi della malattia e, parallelamente, la psicoterapia, utileinvece soprattutto a:

Aiutare il paziente nel differenziare sensazioni, esperienze ed emozioni;
Mantenere o rendere consapevoli dei propri vissuti e delle proprie emozioni;
Individuare nuove abitudini;
Attivare processi di consolidamento delle abitudini funzionali;
Lavorare sull’accettazione della nuova condizione;
Sostenere durante queste nuove fasi di vita.

Il paziente vive nel corpo la sua sofferenza. Il suo è un dolore soggettivo al quale si va ad aggiungere e confondere quello fisiologico della malattia; una malattia che struttura la rappresentazione di sé con la malattia stessa; una malattia che continuamente “auto-attacca” il proprio corpo.

Il dolore ha sempre un’importante accezione soggettiva e personalizzata: non tutti proviamo dolore allo stesso modo, per le stesse cose. Per questo, è sempre necessario sospendere il nostro giudizio a riguardo, comprendere il più possibile e rispettare il malessere che esso provoca nella persona che abbiamo di fronte, sia che siamo professionisti della salute oppure no. Anche questo è terapeutico.

Dott. Riccardo Falconieri

Bibliografia

“Il corpo malato. L’intervento psicologico”, a cura di Bruno G.Bara, Raffaello Cortina Editore

“Il ruolo dello psicologo nel piano nazionale cronicità”, ConsiglioNazionale Ordine Psicologi, fonte reperibile online

“Psicologia e Salute”, Antonella Delle Fave e Marta Bassi, Utet Università