ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

I GENITORI COME MOTORE D’INTEGRAZIONE: 12 STRATEGIE DI DANIEL SIEGEL PER FAVORIRE LO SVILUPPO MENTALE DEL BAMBINO

L’infanzia è un periodo cruciale per lo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino, durante il quale si gettano le basi per il suo futuro benessere. I genitori non sono solo un punto di riferimento, ma anche i primi educatori e modelli comportamentali. Le interazioni quotidiane, le esperienze condivise contribuiscono in modo significativo alla formazione dell’autostima, dell’autoregolazione e delle competenze sociali dei bambini.

Un supporto genitoriale attento e consapevole favorisce un ambiente sicuro e stimolante, dove il bambino può esplorare, apprendere e sviluppare le proprie capacità cognitive. Le emozioni, infatti, influenzano profondamente l’apprendimento, un bambino che si sente amato e supportato è più propenso a esplorare nuove idee e affrontare le sfide con resilienza.

Per favorire uno sviluppo ottimale del nostro cervello è aiutare tutte le parti a lavorare bene insieme.  Proprio grazie a quest’integrazione le varie parti funzionano in sinergia tra loro. Per i bambini sarà importante aiutarli ad integrare tutte le parti, affinchè utilizzino le proprie risorse cerebrali in modo coordinato e nel miglior modo possibile.

Daniel J. Siegel, ha identificato 12 strategie chiave per favorire lo sviluppo mentale dei bambini. Queste strategie si basano sulla promozione di una sana connessione tra mente, cervello e relazioni interpersonali, che sono fondamentali per la crescita e lo sviluppo dei bambini.

La prima strategia proposta da Siegel è quella di creare un ambiente sicuro e accogliente per il bambino. Un ambiente in cui il bambino si senta amato, protetto e sostenuto favorirà lo sviluppo della sua sicurezza emotiva e del suo senso di autostima.
La seconda strategia riguarda l’importanza di fornire al bambino esperienze diverse e stimolanti. Siegel sottolinea l’importanza di esporre i bambini a una varietà di stimoli, tra cui la natura, l’arte, la musica e altre forme di espressione creativa, per favorire lo sviluppo della loro intelligenza emotiva e sociale.
La terza strategia consigliata da Siegel è quella di incoraggiare il gioco e l’esplorazione come strumenti per favorire lo sviluppo cognitivo e creativo dei bambini. Il gioco è un modo naturale per i bambini di esplorare il mondo e di sviluppare le proprie capacità cognitive, emotive e sociali.
La quarta strategia proposta da Siegel riguarda l’importanza di incoraggiare la comunicazione e la condivisione delle emozioni. Aiutare i bambini a esprimere le proprie emozioni in modo sano e costruttivo favorirà lo sviluppo della loro intelligenza emotiva e delle loro capacità relazionali.
La quinta strategia suggerita da Siegel è quella di favorire la consapevolezza emotiva e corporea nei bambini. Insegnare loro a riconoscere e gestire le proprie emozioni e sensazioni fisiche aiuterà a favorire lo sviluppo della loro autostima e della loro capacità di regolazione emotiva.
La sesta strategia proposta da Siegel riguarda l’importanza di favorire l’empatia e la compassione nei bambini. Insegnare loro a essere sensibili alle emozioni degli altri e a mostrare gentilezza e solidarietà favorirà lo sviluppo delle loro capacità empatiche e relazionali.
La settima strategia suggerita da Siegel è quella di favorire la curiosità e la creatività nei bambini. Incentivare la loro curiosità e incoraggiarli a esplorare nuove idee e nuove esperienze favorirà lo sviluppo della loro creatività e della loro capacità di pensiero critico.
La ottava strategia proposta da Siegel riguarda l’importanza di favorire una sana autostima nei bambini. Aiutare i bambini a sviluppare una visione positiva di sé stessi e delle proprie capacità favorirà il loro benessere emotivo e relazionale.
La nona strategia suggerita da Siegel è quella di promuovere la resilienza nei bambini. Insegnare loro a affrontare le sfide e le difficoltà con determinazione e fiducia favorirà lo sviluppo della loro capacità di adattamento e di gestione dello stress.
La decima strategia proposta da Siegel riguarda l’importanza di incoraggiare la collaborazione e la condivisione nei bambini. Insegnare loro a lavorare insieme e a rispettare le opinioni degli altri favorirà lo sviluppo delle loro capacità relazionali e sociali.
La undicesima strategia suggerita da Siegel è quella di favorire la riflessione e la consapevolezza nei bambini. Insegnare loro a riflettere sulle proprie azioni e sulle conseguenze delle proprie scelte favorirà lo sviluppo della loro intelligenza emotiva e sociale.
La dodicesima e ultima strategia proposta da Siegel riguarda l’importanza di favorire la relazione e la connessione con gli altri. Aiutare i bambini a costruire relazioni positive e significative con gli altri favorirà il loro benessere emotivo e relazionale.

Daniel Siegel offre un approccio innovativo ed integrato alla crescita e allo sviluppo dei bambini. Attraverso una combinazione di neuroscienze, psicologia e pratiche educative, propone delle strategie pratiche che mirano a rafforzare le connessioni emotive e cognitive tra genitori e figli. Ogni strategia è costruita per promuovere non solo l’intelligenza, ma anche la consapevolezza emotiva e la resilienza.

L’autore sottolinea l’importanza di un attaccamento sicuro e di un ambiente familiare positivo, che favoriscono la formazione di reti neurali sane. Le sue strategie incoraggiano l’ascolto attivo, la comunicazione aperta e la valorizzazione delle esperienze emotive. E’ fondamentale il ruolo dei genitori come modelli e guide nel processo di crescita. In un’epoca in cui i bambini affrontano sfide sempre più complesse, queste strategie forniscono un faro di speranza e pratiche concrete per sostenere il loro sviluppo.

Bibliografia

Daniel J. Siegel, 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino, Cortina 2021

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo – Psicoterapeuta

I CARTONI ANIMATI NELL’INFANZIA: POTENZIALE POSITIVO E NEGATIVO PER I NOSTRI BAMBINI

I cartoni animati sono sempre stati, dalla nascita della televisione, un elemento fondamentale dell’infanzia e, negli ultimi decenni, hanno preso un grande spazio anche nella vita degli adulti, anche non genitori. Non solo fonte di intrattenimento, ma anche veicolo di apprendimento e crescita, i cartoni animati influenzano in modo significativo lo sviluppo psicologico, emozionale e sociale, soprattutto nei bambini. Tuttavia, come per ogni forma di media, anche i cartoni animati presentano sia pregi che rischi.
Uno degli aspetti più benefici dei cartoni animati è il loro ruolo nell’educazione emotiva. I cartoni animati rappresentano spesso una preziosa fonte di ispirazione per lo sviluppo della capacità empatica: personaggi animati sono espressivi e facilmente comprensibili per i bambini, il che consente loro di identificarsi e di riconoscere le proprie emozioni.

Dai cartoni animati per i più piccini (Topolino, Peppa Pig) ai film più complessi come, ad esempio, Inside Out della Pixar vengono esplorati concetti complessi come la gestione delle emozioni, insegnando ai più giovani che tutte le emozioni – dalla gioia alla tristezza – hanno un valore e un ruolo nel nostro benessere psicologico. Questi contenuti aiutano i bambini a sviluppare l’empatia, poiché li incoraggiano a comprendere le emozioni degli altri attraverso le esperienze dei personaggi. Inoltre, già i personaggi dedicati al pubblico più piccino facilitano lo sviluppo di questa capacità attraverso protagonisti che non si esprimono verbalmente ma soltanto attraverso i gesti e le espressioni facciali, veicolando così precocemente l’utilizzo del vissuto emotivo.
I cartoni animati possono anche essere uno strumento fondamentale nell’insegnamento di valori sociali e morali. Molte serie animati come Dora l’esploratrice e Paw Patrol offrono lezioni importanti su temi come la collaborazione, il rispetto, la generosità e l’importanza della diversità. Questi insegnamenti aiutano i bambini a sviluppare competenze sociali fondamentali che li accompagneranno durante tutta la vita, come la capacità di lavorare in
gruppo, di rispettare le regole e di risolvere conflitti in modo pacifico. Viene sempre valorizzata in modo piuttosto congruo l’importanza dell’amicizia e delle relazioni affettive promuovendo la capacità di imparare a mettersi nei panni dell’altra persona, sviluppando le basi dell’empatia.
Oltre agli aspetti emotivi e sociali, i cartoni animati hanno un grande potenziale nel favorire lo sviluppo cognitivo dei bambini. Programmi animati che promuovono l’apprendimento attivo, come Camion Leo, Cocomelon, Peppa Pig, stimolano la curiosità e l’acquisizione di nuove informazioni. I bambini, infatti, imparano a riconoscere lettere, numeri, forme e concetti linguistici, esercitando la memoria e l’attenzione. Questo tipo di stimolo aiuta i
bambini a migliorare le loro capacità cognitive in modo naturale e divertente.
Non per ultimo inoltre i cartoni animati, grazie alla loro natura fantastica e alla possibilità di esplorare mondi immaginari, stimolano la creatività dei bambini. L’esposizione a personaggi straordinari e a scenari fuori dal comune può incoraggiare i bambini a usare la propria immaginazione, sia nel gioco che nella risoluzione di problemi. Programmi come SpongeBob o Adventure Time sono esempi di come l’immaginazione possa essere coltivata in modo divertente e stimolante.
Ovviamente oltre ai molti aspetti positivi che i cartoni animati possono fornirci non siamo esenti dai rischi, che rappresentano “l’altra faccia della medaglia”.
Innanzitutto, vale la pena di mettere in luce come l’esposizione, in generale, a schermi (tv, tablet, smartphone, etc.) andrebbe ridotta al minimo soprattutto durante i primi anni di vita, per promuovere una crescita sana e limitare i rischi connessi all’iperdigitalizzazione.
Uno dei rischi psicologici legati ai cartoni animati è infatti la possibile dipendenza da dispositivi digitali. L’accesso facile e continuo (di giorno e di notte) a contenuti animati tramite televisione, tablet e smartphone può portare i bambini a passare troppe ore davanti allo schermo. La sovraesposizione ai media può compromettere lo sviluppo fisico e mentale,
riducendo il tempo dedicato a interazioni sociali reali, al gioco all’aperto e alla lettura. Inoltre, un eccesso di stimolazione visiva e sonora può interferire con la capacità dei bambini di concentrarsi e di riflettere criticamente. I bambini sono sin dalla primissima infanzia attratti dalle immagini video, comportamento anche dovuto alla facilità di accesso e dall’utilizzo continuo dei dispositivi da parte degli adulti intorno a loro, pertanto, il rischio di sviluppare dipendenza risulta consistente.
Nonostante i benefici educativi, è fondamentale riconoscere anche che i cartoni animati, soprattutto quelli creati in passato (ad esempio molti famosi titoli della Disney), sono stati spesso criticati per perpetuare stereotipi di genere, razza e classe sociale. Ad esempio, talvolta vengono presentati ruoli di genere rigidi, dove le ragazze sono tipicamente rappresentate come delicate e passive, mentre i ragazzi sono forti e avventurosi: questi stereotipi possono influenzare negativamente lo sviluppo dell’identità e dei ruoli sociali nei
bambini, limitando la loro comprensione delle potenzialità individuali. La crescente attenzione alla diversità e all’inclusività sta però cercando di correggere questo problema con personaggi più variegati e realistici, come nel caso di Frozen o Oceania.
Alcuni cartoni animati, in particolare quelli orientati verso l’azione, possono contenere scene di violenza, seppur rappresentata in modo esagerato e comico. Sebbene i bambini possano distinguere la finzione dalla realtà, un’esposizione eccessiva a scene violente può influire negativamente sul comportamento sociale. Studi hanno mostrato che un eccessivo consumo di contenuti violenti, anche in forma animata, può aumentare l’aggressività nei bambini e influire sulla loro capacità di risolvere i conflitti in modo non violento. Persino
cartoni come Tom & Jerry o alcune produzioni più moderne, sebbene esprimano violenza in modo esagerato e comico, sono state accusate di comunque rinforzare modelli di comportamento aggressivo.
Alcuni cartoni animati, specialmente quelli che presentano ambientazioni molto surreali o personaggi dalle caratteristiche esagerate, potrebbero influenzare la percezione che i bambini hanno della realtà. Se i bambini trascorressero troppo tempo in mondi fantastici, potrebbero sviluppare la possibilità di aspettative irrealistiche o confondere ciò che vedono
nel mondo animato con la realtà. Questo può avere ripercussioni sul loro adattamento sociale e sulla loro comprensione di come funzionano le relazioni e la vita quotidiana.
In conclusione, i cartoni animati, come ogni altro strumento media, presentano sia pregi che rischi quando si tratta di psicologia e sviluppo infantile. Sebbene abbiano il potenziale di educare, stimolare la creatività e favorire lo sviluppo emotivo e sociale, è importante che vengano scelti con consapevolezza e moderazione. È importante che i genitori monitorino
quello che i figli guardano e che magari riescano a ritagliarsi del tempo per stare accanto a loro durante la visione, in modo da poter essere un sostegno per veicolare significati ambigui o poco comprensibili quando necessario, per essere una guida verso una fruizione consapevole e ben equilibrata. L’esposizione a contenuti vivaci e positivi, che promuovano la diversità, il rispetto e la risoluzione pacifica dei conflitti, può essere un valido supporto per
una crescita sana del bambino, ma senza dimenticarci che i piccoli hanno bisogno di mediatori di significato poiché in base all’età non sono sempre in grado di cogliere significati impliciti o atteggiamenti ironici che potrebbero trasformarsi nella mente del bambino in significati ambivalenti o spaventanti.

 

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologa – Psicoterapeuta

SMARTPHONE E SOCIAL: I TERZI INCOMODI NELLA RELAZIONE CON I GENITORI

I vostri figli non sono figli vostri…

sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.

Kahlil Gibran

Il libro Il vaso di pandoro. Ascesa e caduta dei Ferragnez, scritto dalla giornalista Selvaggia Lucarelli e uscito nel mese di maggio del 2024 dalla casa editrice PaperFIRST, ci ha offerto l’occasione per riflettere e parlare delle conseguenze sullo sviluppo emotivo che ha l’uso che i genitori fanno degli smartphone e dei social, mentre si relazionano con i figli.

Il libro è un’inchiesta svolta dall’autrice sulle cause che hanno portato Chiara Ferragni e suo marito Fedez a diventare, prima lei da sola e poi come coppia, un fe­nomeno sui social da più di 28 milioni di follower e successivamente sulle cause che li hanno portati ad avere problemi legali, multe da 1 milione di euro per pub­blicità ingannevole e a perdere “l’amore” del loro pubblico. Per chi, come la scrivente, li conosceva solo di nome è stata una lettura interessante, soprattutto per le spiegazioni sul funzionamento dei social rispetto all’acquisizione o perdita di popolarità.

Come ci rende noto l’autrice del libro, gran parte della popolarità della coppia è derivata dalla pubblicazione di stories che hanno visto come protagonisti, inconsapevoli, i loro figli. Molto interessante si è rivelato il capitolo Quando i bambini fanno like.

Il fenomeno dei baby influencer è stato lanciato sul social Tik Tok, ma i Ferragnez hanno sempre preferito Instagram.

Nonostante Fedez abbia affermato che loro non monetizzano attraverso i figli, perché non li coinvolgono in campagne pubblicitarie, cito Lucarelli, “è evidente che non solo ne facciano parte, ma che siano il nucleo principale del brand. Anzi, l’elemento di maggior successo. I contenuti con i figli Vittoria e Leone ottengono più like degli altri post legati al loro lavoro e molte persone confessano senza alcuna re­mora di seguire la coppia più per la tenerezza dei bambini che per i beni di lusso mo­strati dai genitori.” Infatti il 60% delle storie pubblicate riguarda i loro figli e i primi cinque video per numero di interazioni sono quelli con i figli.

Ciò su cui si interroga Lucarelli, e anche noi come psicoterapeuti, è l’impatto che questi comportamenti dei genitori e l’esposizione sui social possono avere sulla salute mentale dei minori. La giornalista si domanda: “Che benefici traggono i minori dal vedersi puntato un telefono in faccia e nel non sapere che quello che fanno diventerà un contenuto? [i genitori non pensano] che se un giorno avranno da lamentarsi di questa loro scelta, sarà troppo tardi per poter rimediare, visto che esisteranno milioni di contenuti non rimovibili e una loro biografia digitale infinita?”

Abbiamo coinvolto due psicoterapeute dell’Associazione Eco, le dottoresse Federica Ariani e Tatiana Giunta, che si occupano di età evolutiva per provare a riflettere insieme su tale quesito e abbiamo posto loro qualche domanda.

“Dottoressa Giunta esiste una definizione per il comportamento messo in luce dalla giornalista Lucarelli?”

Si tratta di un fenomeno definibile con l’espressione britannica sharenting, che deriva dall’unione delle parole share, condividere, e parenting, essere genitori ed è l’esposizione costante dei bambini sui social media da parte dei loro genitori o di altri adulti che ne sono responsabili.

“I protagonisti dello sharenting sono solo personaggi celebri e i loro figli?”

Assolutamente no. Potremmo pensare che si tratti di un fenomeno legato principalmente agli influencer, tuttavia è molto diffuso anche tra genitori non celebri. Secondo un sondaggio contenuto in uno studio presentato sulla Rivista italiana di educazione familiare (Cino, Demozzi, 2017), il 68% delle persone intervistate – prevalentemente madri con figli di età compresa tra 0 e 11 anni – disse di pubblicare con una certa frequenza foto dei propri figli online, attraverso i profili social e il 30% di farlo anche su gruppi con un pubblico più ampio di quello di un profilo personale. Da questo sondaggio emerge la tendenza, da parte dei genitori, a diminuire la condivisione di foto dei figli con l’aumentare della loro età, mentre nei primi cinque anni percepiscono questa pratica come un loro diritto di genitori, senza tenere in considerazione il diritto alla privacy dei figli.

“Qual è lo scopo di condividere contenuti legati all’immagine dei propri figli?”

Alcuni sostengono che lo sharenting sia l’evoluzione digitale del mostrare gli album di famiglia e del parlare dei successi dei propri figli. La differenza da non sottovalutare consiste nel pubblico, che è più ampio e composto anche da sconosciuti. Inoltre lo sharenting ha una funzione sociale: i genitori si sentono supportati dalla rete, condividono le loro difficoltà, ricevono apprezzamenti. Diciamo che risponde a un bisogno narcisistico. E talvolta guadagnano denaro.

“Anche in passato i bambini sono stati esposti mediaticamente attraverso TV e cinema, che differenza c’è rispetto allo sharenting?”

Le implicazioni sono diverse, più complesse e ancora in fase di studio. A differenza degli spot, dei film o dei programmi televisivi nei quali i bambini erano/sono consapevoli di essere ripresi da una telecamera, lo sharenting introduce una riflessione importante rispetto alla (non) consapevolezza di essere ripresi, che ha importanti implicazioni sulla costruzione della fiducia reciproca, sulla privacy, oltre a possibili effetti sullo sviluppo psicologico.

“Sembrano dunque esserci implicazioni a diversi livelli. Quali riflessioni possiamo fare rispetto al tema del rispetto della privacy?”

È chiaro come non essendoci il consenso, il diritto alla privacy non venga rispettato. La diffusione di dettagli legati al minore – come i posti che frequenta, i nomi di famigliari – potrebbe sembrare innocua, tuttavia lo espone al rischio di venire avvicinato da estranei con intenzioni negative. Inoltre in diversi casi, come testimoniato dal dipartimento australiano Children’s eSafety, le immagini di minori condivise dai loro genitori sono state ripostate da sconosciuti o “rubate” e pubblicate su siti pedopornografici.

Oggi il patrimonio digitale rimane a disposizione di tutti e cosa ne sarà del futuro di questi kidfluencer quando avranno una vita adulta e una carriera? Cosa rimarrà dell’eredità virtuale lasciata loro dai genitori?

“Cosa possiamo dire delle implicazioni a livello psicologico?”

Si tratta di un fenomeno ancora in fase di studio, tuttavia gli interrogativi su come lo sharenting influisca a livello psicologico meritano una riflessione attenta e puntuale.

Secondo Leah Plunkett (2019), docente alla Harvard Law School, il problema riguarda il mancato consenso dei bambini nell’utilizzo della loro immagine. Chi vorrebbe che la propria immagine venisse catturata e poi diffusa, ad esempio in momenti di fragilità, senza aver dato il consenso? È proprio ciò che è successo a Leone e Vittoria, come riporta Lucarelli, ripresi durante i loro momenti di difficoltà e tristezza per il trasloco o all’ospedale con una flebo, con l’intento di ricevere le attenzioni dei follower e di monetizzare. La tendenza a lucrare sui propri figli è una “mercificazione” di questi in nome del denaro e del successo.

Come evidenzia la psichiatra Adelia Lucattini su Repubblica “i social ci hanno portato alla sovraesposizione mediatica, ma un conto è sovraesporre sé stessi, un altro è farlo con terzi. I bambini spesso non sanno che loro immagini riservate sono state postate dai genitori, quando poi ne diventano consapevoli potrebbero sentire violata la loro intimità. Occhi indiscreti hanno la possibilità di scrutare nel loro privato, e non è difficile immaginare che possano provare vergogna. Questo potrebbe influire sulla relazione coi genitori stessi e rendere difficile un rapporto sereno ed equilibrato con loro. Ed è la migliore delle ipotesi perché significa che il processo di differenziazione dai genitori, necessario per lo sviluppo dei bambini, sta avvenendo, stanno crescendo e diventando adolescenti consapevoli, sufficientemente strutturati e forti da potersi opporre e ribellare.”

Talvolta le angosce dei bambini vengono condivise dai genitori per cercare supporto e strappare una risata al loro pubblico, tuttavia come sottolineano Willingham ed Hershbergnel loro studio del 2019, le loro angosce non dovrebbero essere recepite come «un segnale per tirare fuori lo smartphone cercando di ottenere “Mi piace”». I bambini cercano nei genitori il rispetto e la compassione e un contesto familiare ed intimo nel quale imparare a ridere di sé, che non può avvenire se vengono derisi dai loro genitori.

Rispetto allo sviluppo dell’identità il rischio è quello di costruire un’immagine di sé come di “oggetto di scena”, come fonte di denaro. L’immagine di sé assume un’importanza predominante in un mondo virtuale dove l’apparenza è tutto e può tradursi nello sviluppo di aspetti legati alla ricerca di un sorta di “consenso pubblico”, come riportato in un articolo del Post che intervista Brunella Greco, esperta in materia di tutela dei minori online per la ONG Save the Children: “cominciano a fare i conti da piccoli col fatto di essere esposti al giudizio e ai “mi piace” degli altri, e questo interagisce con la formazione della personalità e della propria immagine pubblica”.

Sempre Lucattini ci ricorda come “la vetrinizzazione dei figli può dar vita allo sviluppo di un Falso Sé, ovvero una personalità difensiva, da offrire agli altri. Non nel senso di ingannevole, ma di personalità non propriamente autentica, che il bambino crea inconsciamente per proteggere il vero Sé. Il Falso Sé è una difesa della mente per proteggere l’intimità, gli aspetti emotivi inconsci. Ma spesso chi ce l’ha non lo sa. Prima era un fenomeno legato a dinamiche famigliari o traumi, ora è causato anche dalla perdita del confine tra intra ed extra famigliare, tra pubblico e privato. Questi ragazzi saranno adulti che avranno prima o poi bisogno di andare in analisi.”

In conclusione possiamo dire che pubblicare le immagini dei figli minori, oltre ad agevolare atti di cyberbullismo, furti d’identità, truffe online o ancor peggio atti legati alla pedopornografia, trasmette un messaggio educativo distorto e può avere influenze negative sullo sviluppo del senso di Sé e sulla relazionalità.

“Ci sono degli studi con le testimonianze dei figli dello sharenting?”

Trattandosi di un fenomeno nuovo sono ancora pochi gli studi in letteratura che possano cogliere gli effetti dello sharenting.

Un gruppo di ricercatori belgi (Ouvrein e Verswijvel, 2019) ha condotto un focus group con adolescenti tra i 12 e i 14 anni dimostrando che, sebbene alcuni hanno affermato di comprendere le ragioni del comportamento genitoriale, in molti si sono definiti preoccupati. Ciò che ha suscitato maggiore imbarazzo sono le foto buffe o di nudità. Gli adolescenti vorrebbero controllare ciò che i genitori pubblicano potendo quindi scegliere e dando il consenso o il dissenso. Come conseguenze dello sharenting gli adolescenti fanno riferimento all’accettazione dei pari, alla paura di essere valutati negativamente, all’essere vittima di bullismo o cyberbullismo, o sul lungo termine alla presenza di foto imbarazzanti che potrebbero influenzare la scelta del recruiter di fronte a una candidatura lavorativa.

In un secondo studio della stessa università (Verswijvel et al., 2019), attraverso la somministrazione di questionari a 817 adolescenti, è emersa la loro tendenza a disapprovare largamente lo sharenting, considerandolo imbarazzante e inutile. Gli adolescenti che valutano in modo maggiormente positivo lo sharenting sono quelli che tendono a condividere numerose informazioni personali o che prestano meno attenzione e sono meno preoccupati nei riguardi della loro privacy.

“Un’ultima domanda. È chiaro come ci sia un problema da risolvere inerente il tema della tutela dei minori, soprattutto rispetto al consenso e alla privacy. Quali sono attualmente le tutele in Italia?”

Attualmente l’unica legge a cui poter fare riferimento è il GDPR con le successive modifiche. Trattandosi di un’emergenza, in Italia, come precedentemente in Francia, a marzo 2024 è stata presentata una proposta di legge che tuteli i minori protagonisti dei social dei loro genitori. In tale proposta sono contenuti aspetti interessanti, come la conservazione dei guadagni prodotti dal kidfluencer (il minore esposto dai genitori sui social) in un conto a lui intestato (attualmente però un minore non può avere un conto a lui intestato), vincolato e accessibile solo alla maggiore età, o la possibilità di richiedere l’oblio digitale al compimento dei 14 anni, ovvero la cancellazione di tutti i contenuti che lo ritraggono.

“Dottoressa Ariani, sempre di più fin dall’allattamento i figli devono “condividere” le attenzioni dei genitori con uno strumento inanimato quale è lo smartphone. Questo comportamento genitoriale che conseguenze può avere sullo sviluppo dei figli?”

Rispondo con uno studio che rappresenta una pietra miliare della psicologia dello sviluppo con la sua versione aggiornata alla nostra realtà digitale.

Fin dai primi mesi di vita i caregivers rappresentano per i loro figli il principale stru­mento di regolazione e autoregolazione emotiva. A differenza delle convinzioni le­gate all’idea che il bambino alla nascita sia una tabula rasa, privo quindi di iniziative, richieste o capacità, le recenti ricerche dimostrano quanto fin dai primi giorni di vita il neonato possieda delle competenze relazionali e dunque quanto la relazione sia per lui fondante e necessaria per poter esprimere e riconoscere se stesso. Si tratta di un discorso di riconoscimento e di auto­regolazione: attraverso il contatto fisico e lo scambio di interazioni il neonato impara a rico­noscere l’adulto di riferimento e a re­golare il proprio funzionamento emotivo e affettivo.

Un interessante esperimento svoltosi negli anni ‘70 da parte dell’équipe del dott. Tro­nickesprime con maggiore chiarezza questo assunto: si tratta dell’esperimento dello Still Faceed è stato applicato su delle diadi madri-bambino nell’età compresa tra i 3 e i 6 mesi, un pe­riodo dunque in cui il bambino ha imparato ad esprimersi attraverso suoni e vocalizzi. L’esperimento era suddiviso in tre fasi: in una prima fase veniva chiesto alla madre di porsi vis à vis con il suo bambino e di avviare con lui un dialogo attraverso vocalizzi e suoni vo­cali, “facendo delle domande” e rispondendo al pic­colo, lasciando a lui il proprio tempo di latenza per partecipare attivamente all’interazione. Il bambino partecipava in modo sereno, sorrideva alla madre, vocaliz­zava, esprimeva dei suoni e si muoveva eccitato sul seggiolone, indicando oggetti e rispondendo alle richieste materne.

Successivamente, nella seconda fase dell’esperimento, veniva richiesto alla madre di inter­rompere l’interazione non solo vocale ma anche mimica, di non partecipare più attivamente e con lo sguardo alla relazione con il piccolo, mantenendo un’espressione facciale neutra. La reazione del bambino era da subito attribuibile a una condizione di stress: coglieva subito che qualcosa non andava, provava a ripetere la sequenza mi­mica e le interazioni che prece­dentemente funzionavano nel vivificare la madre (in­dica, fa delle facce, si muove in un certo modo) ma, permanendo la neutralità, il bambino incominciava a essere infastidito, aumentavano i livelli di stress, si modifi­cava la postura, iniziava a muoversi e divincolarsi finché non iniziava a piangere di­speratamente.

La terza parte dell’esperimento consisteva in un’esperienza di riparazione, dunque nel rista­bilire la connessione emotiva e la regolazione: la madre interrompeva la neutra­lità dello sguardo e della mimica e ricominciava a interagire con il piccolo. Da subito il bambino si calmava e smetteva di piangere, ma era necessario del tempo prima che riuscisse a ricolle­garsi emotivamente alla madre in modo sereno: l’esperienza dell’assenza materna era stata molto impattante ed era necessario del tempo per po­terla recuperare.

Questo esperimento effettuato negli anni Settanta ci racconta quanto sia importante la rela­zione per e con il bambino molto piccolo e anche attraverso quali canali essa si strutturi: lo sguardo, la responsività visiva, la voce e la continuità della relazione. Questi elementi sono centrali affinché  il bambino possa riconoscere l’Altro e se stesso. Attraverso la presenza at­tiva, partecipe e vivace della madre, il bambino ap­prende a regolare le emozioni e a mante­nere la continuità di Sé; nel momento in cui la madre si assenta emotivamente (questo è il caso anche della depressione post par­tum) il bambino percepisce vividamente lo stress e lo esperisce attraverso il corpo, il pianto. Il pianto ha proprio la funzione di riattivare la madre, di chiederne la presenza e di ristabilire la relazione.

La reazione più estrema a un fattore stressogeno presente nell’ambiente relazionale circo­stante è il riflesso vasovagale, cioè l’utilizzo, attraverso lo svenimento e la per­dita di co­scienza, di difese psicologiche come quella della dissociazione.

“La relazione con i genitori, dunque, è necessaria al bambino per dare un senso alla propria esistenza e per favorire il proprio sviluppo psichico e psicologico, tramite l’autoregolazione. Che funzione acquisisce quindi lo smartphone in questa interazione quando viene inserito da parte del genitore?”

Nel marzo 2021 è stato pubblicato, anche in rete, un aggiornamento dell’esperimento dello Still Face di Tronick, attualizzato alla modernità: veniva cioè inserito all’interno della rela­zione madre-bambino lo smartphone.

In questo esperimento veniva chiesto alle madri di porsi in una posizione vis à vis con il loro bambino e di avviare una conversazione, fatta di sguardi, sorrisi, suoni e voca­lizzi, come nell’esperimento originario. Il bambino è da subito un soggetto attivo della relazione e con­tribuisce a mantenere attivo il dialogo.

Nella seconda fase dell’esperimento veniva richiesto alla madre di iniziare a utiliz­zare il cellulare, dunque di interrompere la conversazione con il piccolo e di farsi as­sorbire dallo smartphone. La reazione del bambino a questo comportamento materno equivale a quello dell’esperimento originario: il piccolo prova inizialmente a riatti­vare la madre, muovendosi sulla sedia, vocalizzando, emettendo suoni spiritosi e/o standardizzati; permanendo l’assenza materna, il bambino inizia a manifestare com­portamenti stressogeni, fino a esplo­dere in un pianto disperato. Nel momento in cui la madre “riallaccia” la relazione, il bam­bino si calma e torna nell’assetto relazionale e comunicativo iniziale.

Cosa possiamo concludere?

Lo smartphone dunque, e la sua presenza all’interno della relazione con i bambini molto piccoli, non fa altro che minare la connessione della diade, causando in loro un’interruzione dello scambio caldo, empatico e strutturante, che occorre al piccolo per co­stituirsi e per autoregolarsi. La presenza del cellulare interrompe la continuità relazionale e il contatto emotivo, fondamentale per un sano sviluppo psicologico e cognitivo del bambino.

Dr.sse Federica Ariani, Tatiana Giunta e Luigina Pugno

BIBLIOGRAFIA

Cino, D., Demozzi, S. (2017) Figli “in vetrina”. Il fenomeno dello sharenting in un’indagine esplorativa. Rivista Italiana Di Educazione Familiare, 12(2), 153–184.

https://doi.org/10.13128/RIEF-22398

Gibran, K. (1923) Il profeta. Feltrinelli, 2013.

Lucarelli, S. (2024) Il vaso di Pandoro. Ascesa e caduta dei Ferragnez. PaperFirst.

Ouvrein, G., Verswijvel, K. (2019). Sharenting: Parental adoration or public humiliation? A focus group study on adolescents’ experiences with sharenting against the background of their own impression management. Children and Youth Services Review, 99, 319-327.

Plunkett, L. (2019) Sharenthood: why we should think before we talk about our kids online. The MIT Press.

Verswijvel, K., Walrave, M., Hardies, K., & Heirman, W. (2019). Sharenting, is it a good or a bad thing? Understanding how adolescents think and feel about sharenting on social network sites. Children and Youth Services Review, 104, 401-411.

Willingham, V.D.T., Hershberg, R.S. (2019) Stop posting your child’s tantrum on Insta­gram. The New York Post.

SITOGRAFIA

https://www.repubblica.it/moda-e-beauty/2024/03/22/news/sharenting_proposta_legge_foto_minori_social-422358811/

https://www.ilpost.it/2024/03/21/social-network-foto-bambini/

https://www.cesda.net/2022/12/09/sovraesposizione-mediatica-dei-bambini-e-conseguenze-a-livello-individuale/

https://www.ilpost.it/2022/09/10/sharenting-bambini-social/

NARRAZIONE DEL DISTURBO DELL’ATTENZIONE E DELL’IPERATTIVITA’: recensione di “UNA MENTE IN FRAMMENTI – Origini e cura del disturbo da deficit di attenzione” di Gabon Matè – Casa Editrice Astrolabio

Come pensa, sente, agisce una persona con disturbo da Deficit di attenzione e iperattività (ADHD)?
Gabol Maté delinea in “Una mente in frammenti” cosa accade nella mente di un ADHD prendendo a modello la sua esperienza e le citazioni dei suoi pazienti. L’autore offre al lettore una riflessione profonda su come si muove nel mondo e quali sono i vissuti di chi affronta questa diagnosi, quali i
correlati genetici e ambientali che portano all’esordio e sviluppo di questa neurodivergenza e infine come è essere uomini, donne, genitori, partner, amici, bambini o professionisti con ADHD.
Lo fa attraverso la voce di psichiatra ma anche di padre e di uomo con questa diagnosi mettendo in luce il substrato sociale che origina, sostiene e cronicizza il disturbo: come è soffrire di ADHD nella nostra società e in questo mondo accelerato e orientato alla performance?
Gabor Maté in “Una mente a frammenti” ci offre una visione chiara dei limiti e delle risorse di piccoli e adulti con ADHD oltre che proporre strategie di sostegno a genitori con figli ADHD coniugando la sua storia personale ad informazioni di carattere scientifico in un linguaggio semplice
e a tratti commovente.

Cos’è l’ADHD?

L’ADHD o Disturbo da Deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è classificabile come un disturbo del neurosviluppo ed è generalmente diagnosticata durante l’infanzia. Ad oggi però, con la
maggiore diffusione di ricerche e informazioni sul tema emerge sempre più spesso nella popolazione adulta il bisogno di trovare uno sfondo a sintomi e ad una sofferenza spiegabile e comprensibile sotto il cappello di questa diagnosi.
L’ADHD è caratterizzata da una fatica in queste specifiche aree: attenzione, iperattività e impulsività.
– Attenzione: la mente di un ADHD saltella e svolazza come un uccello impazzito. Spesso la sensazione è quella di uno scollamento tra mente e corpo dove la mente è immersa in un mondo diverso, di fantasie e pensieri. Matè riporta la descrizione di un suo paziente che si identifica in una giraffa con la testa che si affaccia su un altro paesaggio, molto più alto e ricco di sfumature rispetto a quello vissuto dal corpo nel momento presente: questa metafora ben dettaglia la sua fatica nello stare nel mondo. La distraibilità e la mancanza di concentrazione si rivela in modo discontinuo. Non è raro osservare infatti nelle persone con ADHD un movimento di massima concentrazione connesso ad un alta motivazione o interesse tanto da escludere tutti gli stimoli circostanti e da
immergersi completamente nel compito (es. svolgere un attività con la tv accesa) e viceversa quando il compito non è attraente l’esperienza di un ADHD è quella di vagare e perdersi tra tutti gli stimoli interni ed esterni presenti. Ecco che questo spiega un rendimento discontinuo nei bambini ADHD e la difficoltà degli stessi ad essere compresi e accettati nella loro mancanza di
concentrazione come se fosse riferibile solo alla scarsa volontà e intenzionalità. Più che di distrazione nelle persone ADHD potremmo allora parlare di in-attenzione ovvero la difficoltà a concentrarsi su stimoli non ritenuti interessanti. Nella mente di un ADHD domina il caos, la distraibilità porta infatti a essere facilmente agganciati ad uno stimolo che a sua volta si affianca ad un altro e ad un altro ancora, rischiando di far perdere il focus iniziale. Quasi ogni ADHD racconta di entrare spesso nella stanza per prendere una cosa e una volta lì non sapere cosa lo ha spinto ad arrivarci, dimenticandosi quindi il motivo per cui era entrato. Le persone ADHD si propongono dei
piani o delle attività anche quotidiane e semplici (es. riordinare una camera) che in breve tempo sembrano fallire poiché si viene catturati continuamente da diversi riferimenti lasciando tutto incompiuto e perdendo l’imput iniziale. Un esempio potrebbe configurarsi così: mentre riordino la stanza, mi ricordo di fare la lavatrice e mi muovo in quella direzione, arrivo davanti alla lavatrice
scordandomi ciò che dovevo fare, vengo attratto da un’altra attività e così via con l’esito di non aver assolto al compito originario.
La confusione interna riflette quella esterna: sembra infatti mancare il “chip dell’ordine” scrive Maté, poiché l’individuo sembra sprovvisto di uno schema mentale necessario a comprendere il processo attraverso il quale si riordina. É come se fosse chiara la meta ma mancasse la mappa. Il soggetto ADHD riesce quindi ad immaginare l’obbiettivo ma non sa come arrivarci. Inoltre alla
distraibilità si coniuga, generando maggiore sofferenza, il bisogno delle persone ADHD di ricercare sempre esperienze di novità e stimolazione sensoriale nel tentativo di scappare dalla dolorosa sensazione di noia ricorrente. Questa caratteristica è accentuata da un ruolo importante giocato dalla dopamina, un neurotrasmettitore utile anche nella regolazione dell’umore, nella memoria e nella
gratificazione. Nei soggetti ADHD le ricerche scientifiche si muovono proprio nella direzione di esplorare carenti livelli di dopamina o difficoltà nella sua ricaptazione. Il meccanismo della disattenzione e dell’essere attratti da numerosi stimoli non si manifesta solo in attività pratiche ma
anche nella comunicazione. Il pensiero sembra andare sempre un po’ più in là rispetto al linguaggio con il rischio di saltare delle parole e rendere l’eloquio sconclusionato e illogico.
– Iperattività: può mostrarsi in un irrequietezza del corpo (es. alzarsi spesso), del linguaggio (es. incontinenza verbale ed eccessiva loquacità) o dei pensieri. Una persona con ADHD vive un disagio nel restare ferma fisicamente con il bisogno continuo di muoversi e giocherellare con oggetti. Nelle
conversazioni sono frequenti movimenti oculari di esplorazione dell’ambiente che possono essere percepiti dall’interlocutore come mancanza di interesse o infastidire nell’interazione. Mentre nei bambini è più facile notare iperattività corporea, negli adulti sono comuni sintomi di overthinking.
Questa sensazione è descritta come un rumore bianco o un brusio persistente dei pensieri che faticano ad essere colti o intercettati dalla persona stessa. La costante vivacità unita alla fatica a concentrarsi porta le persone con ADHD a non godere appieno del presente o avvertire la spiacevole impressione di non avere attimi di riposo e rilassatezza. C’è sempre qualcosa di importante che sembra sfuggire alla mente, la perpetua preoccupazione di star perdendo qualcosa che sembra inafferrabile a livello cognitivo. I pazienti con ADHD riferiscono di non riuscire a “prendersi neanche una pausa da se stessi”, di “essere stanchi”. Gabor Matè si descrive come un giocoliere in equilibrio precario impossibilitato ad interrompere la propria esibizione. L’agitazione perenne porta a conseguenti sensazioni di letargia, sconforto e sintomi
depressivi in risposta alla fatica data da un iperattività cognitiva o fisica e dal mettere continuamente in atto strategie compensative.
– Impulsività: può rivelarsi non solo nell’agire (es. acquisti impulsivi, alimentazione) ma anche nelle situazioni sociali (es. fatica a rispettare il proprio turno di parola, sovrapporsi della voce dell’altro). Le persone con ADHD il più delle volte agiscono mossi da una sensazione di urgenza con il bisogno di immediata soddisfazione dei propri desideri. Senza questa lotta contro il tempo o l’ottenimento di una ricompensa veloce è facile scivolare per una persona ADHD nell’inerzia e nella procrastinazione. Non è raro che questi pazienti si riducano all’ultimo momento nella consegna di un compito o di un attività programmata. A tal proposito le persone con ADHD sentono di avere moltissimi potenziali inespressi o competenze e qualità che faticano a valorizzare e a sviluppare nel tempo; questo si traduce in numerosi progetti mai realizzati o abbandonanti dopo un primo intenso entusiasmo per la novità che sottrae alla noia, la quale si configura come un’esperienza estremamente spiacevole e spaventosa per una persona con questa diagnosi. Nei bambini o adulti con ADHD è facile quindi notare una dispercezione dello scorrere del tempo. Il senso del tempo sembra essere quello di un infante: o è qualcosa che si riferisce all’istante e al momento immediatamente presente, o al contrario sembra infinito. Il futuro nella mente di un ADHD è come se non riuscisse ad essere tenuto in considerazione e ricordato. Le implicazioni e le conseguenze sembrano infatti non essere visibili e tutto è agito sull’impulso del momento presente.
I progetti a lungo termine vengono procrastinati fino a che non diventano a breve termine e quindi portati a compiutezza nell’affanno e nell’urgenza. Questo si correla emotivamente a sensazioni di ansia, sentirsi sopraffatti, ritardo cronico e sofferenza. Da una parte allora la persona ADHD non
riesce a vivere nel presente e a godersi il qui e ora, dall’altra tutto sembra sopraggiungere nell’immediatezza e anche se può sembrare paradossale è molto coerente con l’inafferrabilità del concetto di tempo, temporalità e di spazio che caratterizzano le persone con questa diagnosi.
Un esempio personale che riporta l’autore è proprio quello di ridursi all’ultimo nell’uscire di casa ogni mattina non prendendo in considerazione l’ipotesi che possano sopraggiungere imprevisti (es. sbrinare il vetro della macchina dal ghiaccio, che vi sia traffico lungo il tragitto, dimenticanza di
alcuni oggetti in casa) con la conseguenza di essere puntualmente in ritardo.

Come si sviluppa l’ADHD?

L’ADHD ha un eziopatogenesi multifattoriale: esiste una predisposizione genetica ed ereditaria ma è essenziale considerare anche il valore dell’ambiente e delle relazioni di attaccamento. In accordo con l’autore è bene tenere presente la vicendevole influenza di geni e ambiente escludendo così un
approccio riduzionistico allo sviluppo della patologia.
Per ciò che concerne basi biologiche ed ereditarie, si evidenzia un deficit della corteccia prefrontale destra che nell’organismo funziona da vigile per dirigere il traffico di pensieri, azioni e impulsi. Nel caso nelle persone con ADHD quest’ultima lavora in modo semi-dormiente causando soprattutto difficoltà nell’inibizione degli impulsi. Anche un incompleto sviluppo della corteccia orbitofrontale (OFC) sembra giocare un ruolo decisivo per alcune importanti funzioni che risultano deficitarie nelle persone con ADHD. Alterazioni dell’OFC possono avere effetti sulla regolazione degli stimoli interni ed esterni, sull’inibizione degli impulsi fisici ed emotivi, con conseguente difficoltà a
differenziarsi nel processo di indipendenza e maturità. Nello specifico, i centri inferiori del cervello sembrano essere implicati nel controllo degli impulsi e nel generare senso di urgenza tipico degli ADHD. L’OFC ha connessioni anche con il controllo dell’attenzione e con la capacità di localizzazione nello spazio o con regioni deposte all’orientamento e all’acquisizione di competenze
-spaziali. Nelle persone con ADHD non è raro notare una difficoltà in tali abilità: sono spesso disorientati e non riescono a riconoscere o seguire le indicazioni stradali. Le ricerche mostrano inoltre che l’ADHD si correla positivamente ad alcuni squilibri ormonali, rilascio di sostante chimiche o deficit nella crescita di circuiti neuronali che giocano un ruolo importante e possono influire ed essere influenzati da esperienze emotive. Tra le interazioni emotive che maggiormente hanno impatto sull’emergere della patologia è possibile riferirsi ai legami di attaccamento. A tal proposito la competenza di sintonizzazione della figura di attaccamento, il soddisfacimento per il
bambino rispetto ad un buon contatto emotivo genitoriale, il movimento materno ad offrirsi come base sicura al piccolo e la competenza a saper cogliere i suoi segnali e condividere l’esperienza emotiva si configura come un fattore protettivo anche rispetto all’insorgere del disturbo ADHD. Dal
punto di vista ambientale stress ed eventi familiari conflittuali o traumatici possono rivelarsi fattori di rischio per lo sviluppo di questo disturbo. Maté citando i suoi pazienti racconta storie di divorzio, abuso, depressione delle figure significative, violenza o alcolismo. Alle volte questi vissuti sono
rimossi proprio perché fonte di troppa sofferenza e rimangono inconsapevoli ai pazienti che arrivano per una diagnosi. Altre volte vengono minimizzati, ridimensionati e sdrammatizzati e anzi si nota nei pazienti il movimento opposto: quello di prendersi la colpa per i castighi e le punizioni ricevute o per le scelte di altri significativi.

 

ADHD, vissuti ed esperienze relazionali

La fragilità nelle tre aree (attenzione, iperattività e impulsività) porta con se difficoltà su un piano individuale ma soprattutto interpersonale. A livello sociale le persone con ADHD spesso si sentono aliene rispetto ai pari: le interazioni possono essere esperienze sgradevoli quando si avverte la
sensazione di essere annoiati quando non si è centrali nella conversazione e/o disinteressati al racconto dell’altro. È arduo per le persone con ADHD riuscire a tenere il filo della conversazione, saltellano da un argomento all’altro e spesso vengono etichettati come maleducati, arroganti e distanti proprio per aspetti logorroici e di esuberanza verbale o per il ritiro dalla conversazione al
fine di controllarsi e adeguarsi. Non è raro subire fin dalla prima infanzia esperienze di umiliazione o di rimprovero proprio per la fatica a contenersi e a regolare le proprie emozioni.
Bassa autostima e falso se sono rinforzati fin dall’infanzia: persone con ADHD assumono atteggiamenti autodenigratori e sperimentano sensi di colpa, vergogna e autocritica. Molti ADHD riferiscono che nessuno potrebbe essere più feroce e severo di se stesso con se stesso.
Comunemente c’è una tendenza al perfezionismo e reticenza a sperimentare impotenza e a mostrare fragilità. Per difesa viene ostentata un’immagine grandiosa di sé che stona da quella realmente percepita internamente o al contrario ci si presenta continuamente come mediocri, inetti e dipendenti. Pazienti con ADHD hanno bisogno di essere apprezzati e validati e basano la stima sul fare più che sull’essere, traendo soddisfazione solo da successi esterni e dal giudizio altrui. I bambini con ADHD spesso fanno i “pagliacci della classe” o sono considerati come inautentici ed eccessivi nelle loro manifestazioni sociali ed emotive e talvolta imprevedibili e altalenanti
nell’umore. Adulti e bambini con ADHD sperimentano spesso disregolazione emotiva e anche le reazioni possono apparire fuori controllo con conseguente rifiuto nelle esperienze relazionali e gruppali. I soggetti con ADHD sono inoltre percepiti come più immaturi rispetto ai coetanei per atteggiamenti e manifestazioni emozionali infantili (es. adulti con crisi di rabbia come fossero
bambini). Le crisi emotive e le modalità infantili sono definite da un fallimento dell’autoregolazione e dell’inibizione degli impulsi e si correlano comunque ad sviluppo incompleto di alcune vie neuronali che collegano le regioni della corteccia celebrale ad aree inferiori del cervello e ad un aspetto deficitario della corteccia prefrontale destra. Pensiamo alla competenza di
come un termostato che mantiene la temperatura interna costante a prescindere dalle variazioni esterne. Nelle persone ADHD deficit in quest’area determina una facile suscettibilità alle variazioni esterne anche minime che conducono a reagire in maniera automatica seppur senza intenzionalità.
Proprio per lo scarso controllo degli impulsi pazienti con ADHD risultano allo sguardo altrui puerili, incapaci di differenziarsi e di rendersi autonomi. Questo elemento diventa fonte di stress e di angosce profonde sperimentate dalle persone con ADHD e agisce sul senso di autostima e autoefficacia. A tal proposito le persone ADHD patiscono il timore dell’intimità: emerge un bisogno di vicinanza e al tempo stesso il terrore di essere allontanati. Da una parte c’è un disperato bisogno di accudimento e di legame, dall’altra si vive la paura di perdere se stessi nella relazione e il rischio di esserne fagocitati e sopraffatti o abbandonati. I “no” diventano nella mente ADHD un rigetto alla
propria persona più che a quella specifica richiesta o comportamento. Un ADHD fatica a cogliere la differenza tra un normale diniego e un atteggiamento repulsivo, proprio per la tendenza ad esagerare gli stimoli e di conseguenza anche le reazioni agli stessi. Nel processo di cura diventa
fondamentale ricercare, sotto gli impulsi superficiali e le scenate infantili, i bisogni autentici connessi all’autodeterminazione. L’accettazione di sé stessi è un passo determinante: diventa essenziale poter sperimentare di valere non per ciò che si fa, ma di valere a prescindere da quello che si sa fare. Sentire di essere amabili al di là delle aspettative e dell’assoluta disponibilità ad esaudire i bisogni altrui tanto da sopprimere i propri sentimenti. Infatti un ulteriore elemento di fatica relazionale si rivela nella difficoltà a percepire i confini interpersonali: i bambini con ADHD assumono spesso un atteggiamento di benevolenza e apertura eccessivi senza però l’abilità ad interpretare correttamente i segnali sociali e tendono a considerare le relazioni più intime di quello che sono. Le persone con ADHD proprio per una difficoltà a tenere il confine sono incapaci di dire no, rendendosi disponibili e servizievoli a discapito dei propri bisogni. L’individuo con ADHD è guidato da un fortissimo senso del dovere e da responsabilità auto-imposte, che fatica però a
sostenere e portare avanti, con conseguente sovraccarico emotivo. Questo continuo dire di sì a tutto emerge dal bisogno di sentirsi potenti e indispensabili e dalla richiesta inconscia di guadagnarsi merito, accettazione e riconoscimento. Il costo è una profonda sofferenza emotiva che viene
anestetizzata pur di fronteggiare lo stress ambientale. Inoltre così come per la distraibilità anche il senso di responsabilità e disponibilità è molto situazionale: l’autore si descrive come un professionista estremamente dedito al suo lavoro ma come un marito talvolta poco presente che non assolve con così tanto impegno a tutti i suoi doveri interni alle mura domestiche, lì dove si sente più al sicuro e non è mosso dall’urgenza di piacere o dalla paura del giudizio.

Bambini ADHD possono mostrarsi al mondo esterno come profondamente assennati con uno sforzo cognitivo enorme e a casa rivelarsi completamente diversi. Questa fatica a tenere il confine con l’altro emerge anche dal
punto di vista emotivo: lo psichiatra distingue la competenza empatica dall’immedesimazione emotiva propria dei soggetti con ADHD. Essere empatici infatti significa sentire ciò che accade all’altro emotivamente riuscendo a prenderne le distante e a mantenere il confine tra sé e la persona
che sta manifestando la propria emozione. Nel caso dei soggetti ADHD quello che accade è proprio un contagio emotivo e un’appropriazione dell’emozione annullando i confini interpersonali.
Così come per altre neurodivergenze anche nell’ADHD il fenomeno del masking ovvero mascheramento dei sintomi con l’obbiettivo di conformarsi è ricorrente e richiede un grande sforzo cognitivo ed emotivo “Ho trascorso tutta la mia vita facendo finta di essere normale” scrive Matè, citando un paziente. Vengono messe in atto massicce strategie di compensazione, nel tentativo di
assottigliare le differenze con i pari e di mostrarsi meno irrequieti e caotici. Persone con ADHD si uniformano ai bisogni e i desideri degli altri significativi, forzandosi anche a sperimentare emozioni che idealmente “dovrebbe essere sentite” e impegnandosi anche per anni in attività contrarie alla loro natura che rinforzano l’immagine interna fallimentare, di insuccesso e la bassa stima di sé (es. svolgere il lavoro di commercialista nonostante la fatica nei processi logici-matematici). Ecco che questo si associa a vuoto interiore e angosciante quando ci si approccia alla scoperta di se’.

Un altro importante elemento che caratterizza questa neurodivergenza è l’ipersensibilità emotiva e sensoriale. L’autore porta come esempio sua figlia con ADHD al leggero aumentare della voce lamentava al padre di star gridando o al suo leggero variare di tono si sentiva subito rimproverata.
Le persone con ADHD sembrano infatti essere molto ricettive agli stimoli sensoriali esterni (es. uditivi, visivi, tattili, olfattivi) e alle impressioni mentali, e possono reagire a stimoli ed emozioni stressanti ipo o iper attivandosi. Nel primo caso si nota sonnolenza o spegnimento delle energie, che
possono modificarsi repentinamente appena la fonte di stress viene a mancare. Sentirsi sottoposti a bombardamenti di stimoli sensoriali esterni in aggiunta ad un deficit nell’attenzione selettiva,comporta per le persone con ADHD un enorme fatica a vivere il momento presente tanto che la
“dissociazione” può subentrare come uno dei meccanismi di difesa più comuni. La dissociazione, ovvero la tendenza ad assentarsi mentalmente, non va qui intensa in termini di disturbo, ma come autoprotezione. In quest’ottica la dissociazione diventa un anestetico emotivo e si esprime in modo
sempre più massiccio quando si affrontano situazioni intense connesse ad impotenza e/o a sovraccarico, dalle quali persone con ADHD sembrano scollegarsi automaticamente.
Nel secondo caso lo stimolo esterno viene processato attraverso la via breve, ovvero tramite l’amigdala e il sistema limbico senza passare dalla corteccia prefrontale attivando reazioni di ansia e paura immediate ed impedendo la mentalizzazione dello stesso. In questo caso il soggetto sente di essere sotto sequestro emotivo ovvero la sensazione di essere catturati dall’emozione spiacevole immediata e sproporzionata con conseguente disregolazione. Le persone ADHD possono subire degli scompensi sensoriali in situazioni con stimoli eccessivi (es. folla o feste) o sono ipervigili rispetto ai cambiamenti emotivi dell’ambiente che registrano in modo molto raffinato. É come se
avessero della antenne recettive potenti rispetto al minimo variare dell’atmosfera emotiva ed è per questo che spesso vengono classificati come bambini dal temperamento difficile. Uno stimolo ritenuto insignificante per altri può dare origine ad una intensa reazione. Per i genitori comprendere
la loro ipersensibilità non è sempre facile e spesso viene associata ad atteggiamenti oppositivi nei loro confronti con la conseguenza che il figlio venga spesso descritto come irascibile e scontroso.
Matè parla allora di allergie emotive spiegando come la volontà non c’entri. È impossibile infatti chiedere ad una persona che soffre di un allergia di “smetterla di essere così allergico!” o “di limitare la propria reazione”. In accordo con l’autore possiamo perciò pensare alle persone con ADHD come persone dalla “pelle sottile”. Ecco che nel processo di cura diventa indispensabile porsi in ascolto in modo curioso e aperto a ciò che emerge, rinunciando a pretendere di sapere ciò che il bambino pensa o agisce. Non attribuire quindi un significato all’atteggiamento dell’altro (es. mio figlio mi sfida) ma chiedere e orientarsi con fiducia a partire dal dialogo. Elemento
fondamentale per il processo di cura è la presenza, la comprensione e l’accettazione autentica delle caratteristiche e la coltivazione di uno spazio sicuro. Spesso i genitori chiedono come aiutare i propri figli con diagnosi di ADHD.

Le strategie più efficaci sono quelle di vicinanza e sostegno: i genitori dovrebbero dimostrare di desiderare la compagnia del figlio autenticamente e non come senso del dovere, scegliere di coinvolgere il bambino e ricercare il contatto prima di un’esplicita richiesta o invito. E’ fondamentale per un genitore esplorare cosa c’è dietro ai comportamenti disfunzionali del figlio provando a non leggerli come atteggiamenti oppositivi ma alla luce di ansia,
vergogna o rabbia. Questo vale anche per l’adulto che può guardare a se stesso ponendosi degli interrogativi compassionevoli su ciò che gli accade e sul perché dei propri atteggiamenti, trasformando le feroci critiche in domande sul senso di sé. Non è da sottovalutare in questo processo l’importanza del dare e darsi tempo in quanto lavorare sull’urgenza per un ADHD andrebbe a colludere con il proprio funzionamento.
Il bambino con ADHD può vivere costantemente la sensazione di colpa e vergogna con il timore di essere isolato e umiliato. Ecco che il genitore più che contrastare l’atteggiamento auto-denigratorio, con il rischio di rafforzare il senso di inadeguatezza, può prestare attenzione a non alimentarlo e a
sospendere il giudizio. Sia in manifestazioni di critica che di lode il genitore dovrebbe limitarsi a considerare il comportamento piuttosto che complimentarsi o rimproverare la persona. Questo si traduce in un incremento autentico dell’ autostima reale diversa da quella acquisita, ovvero determinata dall’ esterno, che non concede la possibilità di interiorizzazione e accettazione. Il bambino ha bisogno di sentire che sarà accettato e amato per ciò che è, non per ciò che fa bene o male che sia. L’adulto ADHD invece, a tal proposito, può osservare il senso di colpa nelle vesti di guardiano riconoscendo e valorizzando i messaggi che offre e imparando a discriminarne e valutarne il senso, senza obbedirvi in modo cieco.

Obbiettivo finale può diventare tollerare l’ansia e il senso di colpa senza evitarlo, silenziarlo o farsene sopraffare. Riguardo la difficoltà di autoregolazione del bambino ADHD, è fondamentale creare intorno al piccolo un ambiente stabile e imparare a disinnescare reazioni a sua volta disregolate che favoriranno la co-costruzione di un’atmosfera negativa. I genitori devono prendere coscienza dell’interdipendenza tra la reattività del figlio e il loro umore proprio per un discorso di ipersensibilità sensoriale. E’ essenziale che i genitori lavorino su se stessi al fine di promuovere il processo di individuazione e differenziazione, prestando massima attenzione agli schemi di fusionalità emotiva e invischiamento, interrogandosi sulle proprie modalità di interazione con il bambino.
Spesso bambini con ADHD vengono descritti come oppositivi, testardi, viziati, insolenti, “prova ad ottenere sempre ciò che vuole con reazioni esagerate”: questo accade quando l’individuo non ha la possibilità di agire liberamente e autodeterminarsi ma solo di reagire e compiacere la volontà di bisogni e desideri genitoriali ai quali i bambini ADHD provano ad aderire senza successo.
Il dissenso arriva dalla paura di essere controllati e può manifestarsi con comportamenti di passività o pigrizia (es. “più gli si mette fretta a prepararsi la mattina più rallenta i movimenti, sembra che lo faccia di proposito”) o al contrario con reazioni fuori controllo (es. urla, pianti). In entrambi i casi
l’atteggiamento oppositivo arriva da insicurezze profonde che se comprese possono evitare al genitore di sentirsi sotto scacco emotivamente o manipolato dal bambino e sostenere una posizione di curiosità e ascolto dei bisogno e dei sentimenti del figlio. In assenza di un reale ascolto è possibile che si inneschi a livello familiare una lotta di potere perché l’opposizione viene percepita
in termini di affronto all’autorità. In conclusione anche la visione dicotomica del mondo, di sé e degli altri e la difficoltà di integrazione dei vissuti deriva dall’assunzione di un immagine di sé come fallimentare. È comune che bambini e adulti con ADHD non riescano a cucire insieme le esperienze, che sembrano rimanere scomposte e frammentate (es. non posso essere sia felice che triste, non riesco a tenere insieme pregi e difetti, parti di luce e parti di ombra). Questo funzionamento “tutto o niente” dei bambini ADHD può incoraggiare i genitori ad educare con premi o punizioni che sembrano nel breve termine essere molto efficaci ma sostengono a lungo andare una visione in bianco e nero dell’ambiente e di se stessi.

In conclusione, scrive l’autore il compito più difficile che spetta ai pazienti con ADHD è imparare a trattare sé stessi con amore e compassione.

 

Dott.ssa Valentina Pizzichetti

Psicologa – Psicoterapeuta

L’IMPORTANZA DELLA PRESENZA DEI PAPA’ IN SALA PARTO: SUPPORTO, CONNESSIONE E AMORE FIN DAL PRIMO ISTANTE

*Prima di proseguire con la lettura dell’articolo, ci tengo fare una premessa perchè il termine PAPA’ non venga frainteso. L’obiettivo è discutere l’importanza della presenza dei genitori in sala parto indipendentemente da come si definiscono le famiglie, e utilizzerò il termine “papà” sebbene non ci sia l’intenzione di limitarsi ad una figura maschile tradizionale.

 

In molte famiglie, i genitori possono essere di qualsiasi genere e orientamento sessuale, e tutti meritano di essere supportati e inclusi in questo momento speciale.

La nascita di un bambino è uno dei momenti più importanti, intensi ed emotivi nella vita di una coppia. Se per molti anni il parto è stato considerato un evento esclusivamente femminile, oggi si parla molto del ruolo del papà, fin dai primi giorni della gravidanza, durante il momento del parto e nel periodo post-partum.

In questo articolo mi soffermerò, in particolare, sull’importanza della presenza del papà in sala parto e su come in quel momento si generi supporto, connessione e amore fin dal primo istante.

E’ indiscutibile, infatti, che la presenza del papà in sala parto offra vantaggi emotivi e psicologici sia per la madre che per il bambino. Vediamoli nel dettaglio:

  1. Un supporto emotivo essenziale per la madre. Durante il travaglio e il parto, le madri affrontano emozioni, paure e fatiche enormi. La presenza del partner al loro fianco può avere un effetto calmante e rassicurante, riducendo l’ansia e migliorando la gestione del dolore. Il papà diventa un riferimento emotivo, una figura che la madre conosce e di cui si fida profondamente, rendendo il momento più gestibile e meno isolante.

2. Rafforzare il legame tra padre e figlio sin dal primo istante. Quando un papà è presente alla nascita del proprio figlio, l’esperienza di assistere al primo respiro del bambino crea un legame istantaneo. Il contatto visivo e la possibilità di toccare o tenere in braccio il neonato subito dopo il parto permette al papà di sviluppare fin da subito un forte legame con il figlio, stabilendo una connessione emozionale profonda che crescerà con il tempo.

3. Un momento di crescita per la coppia. Essere presenti insieme in sala parto rafforza il legame di coppia, facendo vivere un’esperienza intensa di complicità e supporto reciproco. Superare insieme un momento di grande difficoltà e gioia, crea una base solida per affrontare le sfide future della genitorialità. Il papà non è solo un osservatore, ma un partecipante attivo nel portare il bambino al mondo.

4. Sentirsi parte della nascita del proprio bambino. Molti padri riferiscono che essere presenti durante il parto li ha fatti sentire partecipi di questo evento unico, e ha dato loro la possibilità di contribuire attivamente al benessere della loro famiglia. I papà possono dare un contributo reale anche nelle piccole cose: offrire acqua, incoraggiare, aiutare la madre a trovare posizioni più confortevoli, e, semplicemente, esserci.

5. Superare le paure e creare ricordi preziosi. La sala parto può essere un luogo carico di tensione, ma è anche l’inizio di una nuova vita e di un capitolo fondamentale per una famiglia. Per il papà, essere presente significa anche affrontare le proprie paure e vivere in prima persona una trasformazione personale. Questo momento irripetibile diventa una memoria preziosa, che rafforza il loro ruolo nella famiglia.

Vien da sè che la presenza dei papà in sala parto non è solo un supporto prezioso per la madre, ma anche un’occasione unica per il padre di creare un legame con il bambino e con la compagna. Essere presenti al parto non significa solo assistere, ma vivere e contribuire all’inizio di una nuova vita insieme.

Ovviamente tutti questi aspetti sono fondamentali se pensiamo al periodo post-partum di una donna, poichè il parto non è la fine di una condizione, ma delinea l’inizio di un nuovo ruolo per i neogenitori, che non sempre viene vissuto in modo “semplice” come spesso la società vuole far credere. 

Il periodo post-partum è una fase molto delicata per la neo-mamma, segnata da cambiamenti fisici, emozionali e psicologici profondi. La presenza del papà in sala parto, infatti, può avere un impatto significativo su come la madre affronta il post-partum e contribuisce a far crescere la fiducia, la serenità e la connessione emotiva.

Nella fase post-partum si sono delineati vantaggi negli aspetti emotivi nelle donne che hanno avuto il supporto del papà in sala parto.

  • Maggiore sicurezza e serenità. La presenza del partner durante il parto ha un effetto rassicurante che può prolungarsi nel post-partum. Le madri che hanno condiviso con il compagno l’intensità del parto tendono a sentirsi più sicure e sostenute nei giorni successivi alla nascita. Sapere che il partner è stato lì e ha vissuto l’esperienza con loro permette alle mamme di sentirsi meno sole di fronte alle sfide emotive e fisiche dei primi giorni.
  • Riduzione del rischio di depressione post-partum. Gli studi hanno evidenziato che la partecipazione attiva del partner alla nascita può aiutare a prevenire la depressione post-partum. La sensazione di essere accompagnati e comprese, unita alla certezza che il partner ha un quadro chiaro di ciò che comporta la nascita, riduce l’ansia e il senso di isolamento che spesso accompagnano le neomamme. Con un supporto empatico e presente, la madre ha maggiori probabilità di affrontare questa fase con uno stato emotivo più stabile.
  • Rafforzamento del legame di coppia e maggiore comunicazione. Affrontare insieme la sala parto permette di creare una base solida per affrontare il post-partum come una squadra. Questo si traduce spesso in una comunicazione più aperta e sincera nei giorni e nei mesi successivi, poiché entrambi i partner hanno vissuto la nascita come un evento condiviso. Quando il papà è presente, i piccoli gesti e attenzioni nel post-partum diventano anche più spontanei: può essere più propenso a condividere responsabilità come il cambio dei pannolini, l’alimentazione e il supporto notturno, rafforzando l’intesa e l’equilibrio familiare.
  • Sostegno attivo e comprensione delle esigenze fisiche e psicologiche della madre. Chi ha vissuto il travaglio al fianco della propria compagna comprende meglio le difficoltà fisiche che lei sta affrontando, come il dolore, la stanchezza, e i cambiamenti ormonali. Questo aiuta i papà a essere più presenti e consapevoli nel periodo post-partum, sia a livello pratico che emotivo. Con un supporto più empatico, la madre può sentirsi più compresa e meno in difficoltà nell’esprimere i propri bisogni.
  • Senso di gratitudine e di fiducia reciproca. L’esperienza condivisa in sala parto spesso genera un profondo senso di gratitudine e fiducia reciproca. Molte mamme si sentono emotivamente riconnesse con il partner e apprezzano la sua presenza e il sostegno dimostrato. Questo senso di fiducia facilita il dialogo e la collaborazione nel periodo post-partum, rendendo entrambi più attenti alle reciproche esigenze e alla cura del neonato.
  • Facilitazione del processo di attaccamento. Il coinvolgimento del partner dal momento della nascita aiuta la mamma a sentirsi meno “l’unica responsabile” della relazione col bambino e favorisce un attaccamento sicuro e condiviso. Sapere che il partner è emotivamente connesso e partecipe della nuova realtà familiare aiuta la mamma a dedicarsi a sé stessa e a riposare, migliorando la propria stabilità emotiva.

La presenza del papà in sala parto crea, quindi, una connessione speciale e un terreno di collaborazione emotiva che agevola la madre nel periodo post-partum. Con il sostegno emotivo del partner, molte madri si sentono più sicure, accolte e comprese, con un impatto positivo che si riflette sia sulla relazione di coppia che sull’equilibrio emotivo del nucleo familiare.

“I papà non sono accompagnatori. Quando scegliamo di andarci insieme, il papà non ci “accompagna” in sala parto: viene con noi ad accogliere il nuovo essere umano che forse avrà i suoi occhi” (Cit. Il parto positivo).

Qui di seguito riporto (in forma anonima) alcuni racconti di persone che hanno voluto condividere la loro storia e opinione.

Racconto di M.P.:

“Assistere a un parto è un’esperienza che ti cambia nel profondo. È il momento in cui il tempo sembra sospendersi, eppure ogni istante è carico di tensione, speranza e paura. La sala parto diventa uno spazio dove il mondo esterno scompare, dove esistono solo lei, con il suo corpo che si piega alla forza della natura, e tu, testimone silenzioso e impotente di qualcosa di primordiale. Lei era entrata in travaglio già da qualche ora quando io sono arrivato. Ricordo la corsa, il battito del mio cuore che si accelerava mentre attraversavo i corridoi dell’Ospedale Sant’Anna, sapendo che ogni secondo poteva essere decisivo. Quando l’ho vista, distesa sul letto della sala parto, con il viso segnato dalla fatica e dal dolore, ho capito che quelle ore sarebbero state dure. Non solo per lei, che stava affrontando una battaglia fisica e mentale, ma anche per la piccola creatura che voleva arrivare. Seduto su una sedia, guardavo, osservavo, cercavo di offrire conforto, ma il lavoro vero lo stava facendo lei. E tutto questo mi lasciava un senso di impotenza che non avevo mai provato prima. Le ore sono volate per me, ma sapevo che per lei ogni minuto era un tormento. Continuavo a chiedermi: perché una donna deve sopportare tutto questo? Viviamo in un’epoca in cui la scienza compie passi da gigante, mandiamo sonde nello spazio, esploriamo galassie lontane, eppure il parto resta un’esperienza che mette in ginocchio una donna, come se fosse rimasta ferma nel tempo, una sfida che la tecnologia non ha ancora saputo alleviare. Durante quelle ore intense in sala parto, non ho mai guardato l’orologio, né una sola volta ho preso in mano il telefonino. Il tempo sembrava essersi fermato, e non c’era nulla che potesse distogliermi da quel momento. Ero completamente immerso in ciò che stava accadendo davanti ai miei occhi, come se tutto il resto del mondo fosse sparito. Ogni respiro, ogni espressione sul suo volto, ogni movimento era qualcosa che volevo imprimere nella mia memoria per sempre. Nulla era più importante di quel momento, e non volevo che andasse perduto in distrazioni o banalità. Volevo essere presente, realmente presente, in ogni istante, perché sapevo che stavo assistendo a qualcosa di straordinario, qualcosa che avrebbe segnato per sempre la mia vita. E poi, quando il pensiero della sofferenza sembrava non avere fine, alle 18 e qualcosa, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato lui. Minuscolo, fragile, perfetto. La sala parto, per un attimo, si è riempita di una luce diversa, una gioia immensa ha travolto tutto il resto. Non potevo crederci: dopo tutte quelle ore di fatica, di attesa, e di quel dolore che sembrava insormontabile, ecco che tra le mani c’era un piccolo miracolo. Un esserino così piccolo, ma capace di riempire tutto lo spazio che fino a quel momento era stato vuoto di senso.

In quell’istante ho capito che la vita, in tutte le sue forme e complessità, è davvero un miracolo, uno che nessuna scienza o progresso potrà mai spiegare o replicare completamente.

Assistere a quel momento mi ha lasciato una gratitudine che non riuscirò mai a esprimere a parole. Lei ha affrontato una battaglia che io non potrò mai comprendere fino in fondo, ha sopportato un dolore che sembrava quasi inumano, e lo ha fatto con una forza che mi ha lasciato senza fiato. Ho capito in quelle ore quanto sia straordinaria, quanto il suo coraggio e la sua resistenza siano qualcosa che va oltre il semplice atto del dare alla luce una nuova vita.

Ogni respiro affannato, ogni sforzo, ogni istante di dolore ha costruito quel miracolo che ho avuto la fortuna di vedere nascere. La mia gratitudine per Lei è immensa, perché ha portato nel mondo una vita nuova, e l’ha fatto nonostante tutta la sofferenza, la fatica e la paura. Ero lì, seduto su quella sedia, impotente, ma il mio cuore era pieno di riconoscenza per ciò che stava facendo.

Lei non solo ha messo al mondo nostro figlio, ma mi ha mostrato cosa significhi davvero il sacrificio, la forza, e l’amore incondizionato. Non dimenticherò mai la sua determinazione, la sua lotta silenziosa e implacabile.”

Racconto di S.A.:

“Ancora prima di rimanere incinta, sapevo che non avrei voluto, in quel momento, nessuno al mio fianco oltre a mio marito e nei 9 mesi di gravidanza non ho fatto altro che confermare, a me stessa e agli altri, questa mia consapevolezza. 

Prima figlia, pertanto tutto nuovo per me… mi sono documentata nei mesi, ho cercato di dare una nuova immagine al parto, non solo come evento di dolore e fatica, ma come un “viaggio” che mi avrebbe avvicinata sempre di più alla mia bimba… e devo dire di esserci riuscita. Mi sono vissuta il momento con molta serenità, pronta ad accogliere qualsiasi “cosa” accadesse perchè sarebbe stato un passo in più verso di lei. Mi sono completamente affidata al mio corpo, che ha sempre saputo “cosa fare” fin dal primo giorno della gravidanza (e molte volte lo sottovalutiamo), ma la presenza di mio marito ha fatto la differenza. 

Lui era li con me e per me! 

È stato sostegno emotivo, psicologico e fisico per tutto il lunghissimo travaglio e poi lo è stato anche per la mia bambina, perchè io allo stremo delle forze non me la sono sentita di prenderla in braccio nell’immediato…e questa scelta l’ho vissuta serenamente sapendo che la mia bimba era avvolta dalle braccia del suo papà.

Tutto questo ha contribuito a rafforzare il nostro rapporto e farmi sentire compresa e sostenuta anche nel periodo post partum, un periodo in cui ci si sente molto labili e vulnerabili. Sentivo che lui era nel “mio stesso team” e ho percepito la cura e le attenzioni, che mi aveva dedicato al momento del parto, ancora presenti”.

Racconto di E.T.:

“Nonostante il mio sia stato un parto meraviglioso in quanto del tutto fisiologico, rapidissimo e senza alcuna problematica/complicazione nel post, l’ho vissuto e lo ripenso ad oggi come un vero e proprio trauma. 

Per trauma intendo un momento catartico, di rottura.

È stato come se il mio corpo avesse voluto segnare con un evento forte e intenso come la fine del mio percorso di gravidanza e, allo stesso tempo,  dare risalto all’inizio del percorso di genitorialità che coinvolge in prima persona anche M.

È stata un’esperienza mistica e terrena (cit. Jovanotti) allo stesso tempo, a tratti violenta e straziante, sopratutto quando il mio corpo era al limite dello sforzo e la mia mente ha iniziato a vacillare e a perdersi in pensieri di cui ho provato immediatamente vergogna: voglio morire; toglietemi questa cosa dalla pancia;

Voglio fuggire da questa situazione; se l’avessi saputo non l’avrei mai fatto.  

La presenza di M. durante il parto per me è stata fondamentale. Senza colpevolizzarmi, lui mi ha aiutata a trasformare questi pensieri distruttivi in pensieri positivi, a tramutarli in pensieri di forza, ricordandomi costantemente che il dolore fisico sarebbe cessato e che stavo facendo un ottimo lavoro.

Il suo supporto fisico e psicologico non sono riusciti ad eliminare il dolore fisico ma hanno alleviato le mie preoccupazioni e mi hanno aiutata a sgomberare la mente, a lasciarmi andare e a sentirmi scura in un momento di grande fragilità, consapevole che, per qualunque altra cosa diversa dall’atto di “partorire”, lui avrebbe agito per me. Sebbene impotente di fronte al mio dolore corporeo, vederlo e sentirlo al mio fianco mi ricordava che l’impresa che stavo affrontando non era soltanto mia. Sento c he aver condiviso con lui un momento così intimo e speciale ci ha legati in un modo particolare per sempre.”

Racconto di S.M.:

“Avevo letto tanto sul parto, avevamo anche fatto un corso pre-parto con un’ostetrica privata. Ma la verità è che nulla ti prepara veramente a tutto ciò che ti aspetta durante il travaglio e il parto. Ore di ansia. Ma quando questa è condivisa sicuramente è più facile da sopportare. Mia moglie continua tuttora a dire che io le sia stato di grande supporto. Io mi sono sentito inutile tutto il tempo. Vedi tutta quella sofferenza e puoi fare ben poco, aumentava solo la mia frustrazione. Come può il corpo umano sopportare tutto ciò non l’ho ancora capito. Dolore atroce che ti spinge a vomitare il nulla che hai nello stomaco. Un mistero. Ed io ero lì, a guardare tutto questo. Volevo aiutarla, ci provavo. Cercavo di incoraggiarla, di farmi sentire al suo fianco, ma mi sembrava tutto inutile. Mi sentivo impotente. Quando poi é nata mia figlia, mia moglie era stremata. Ho visto mia figlia. Era blu, neanche un gemito. Ero terrorizzato ma non volevo che, dopo quello sforzo inimmaginabile, mia moglie si preoccupasse. Le dicevo: “va tutto bene…”. Intanto morivo dentro. Poi l’ho sentita. Penso sia stato il minuto più lungo della mia vita! Mi hanno poi spiegato che era solo un momento di adattamento al nuovo habitat. Tremavo di gioia. Ho avuto la fortuna di fare il contatto pelle a pelle. Non potevo credere che qualcosa di così bello potesse esistere ed era lì tra le mie braccia. Mia moglie sul lettino della sala parto e rideva con la ginecologa e le ostetriche mentre la suturavano. Ero troppo felice per riflettere. Poi a mente fredda ho pensato: “ Non riesco a spiegarmi come possa aver sopportato tutto ciò, ma addirittura ridere… é surreale…”. Credo che sia stato l’amore. L’amore batte tutto il resto.”

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

LE RELAZIONI A DISTANZA: UN’ANALISI PSICOLOGICA

Le relazioni a distanza (o long-distance relationships, LDR) sono un tema sempre più rilevante nella società contemporanea, grazie alla globalizzazione, all’aumento delle opportunità professionali e accademiche all’estero e alla diffusione delle tecnologie di comunicazione. Sebbene queste relazioni possano essere vissute con entusiasmo e passione, comportano anche sfide psicologiche significative che richiedono un adattamento emotivo, comunicativo e comportamentale da parte dei partner.

Come si sviluppa una relazione a distanza?
Una relazione a distanza si caratterizza dalla separazione fisica tra i partner, i quali, tuttavia, riescono a mantenere un forte legame emotivo. Grazie ai progressi tecnologici, oggi è possibile restare in contatto in tempo reale attraverso messaggi, videochiamate e social media, creando una sensazione di vicinanza nonostante la distanza geografica. Tuttavia, ciò che manca in una relazione a distanza è l’intimità quotidiana e la condivisione di momenti
fisici che caratterizzano le relazioni tradizionali, basate sulla vicinanza e sull’esperienza diretta.
Dal punto di vista psicologico, le relazioni a distanza possono essere viste come una “sfida” per l’attaccamento. L’attaccamento sicuro (un concetto sviluppato da Bowlby) si basa sulla presenza fisica e sulla capacità di condividere esperienze quotidiane. Quando i partner sono lontani, l’ansia e l’incertezza possono aumentare, specialmente nei casi in cui uno o entrambi i partner abbiano stili di attaccamento più ansiosi o evitanti. Tuttavia, la teoria
dell’attaccamento suggerisce che, in un contesto di lontananza, i partner potrebbero sviluppare forme di “attaccamento virtuale”, basate sulla fiducia e sulla continuità delle comunicazioni. Questi legami virtuali, pur essendo diversi dall’interazione fisica, possono comunque essere emotivamente gratificanti. Nei primi periodi di una relazione a distanza, si vive spesso un’intensa passione emotiva, accompagnata da una forte idealizzazione del
partner e dalla speranza che la lontananza sia solo temporanea e superabile. In questo contesto, mantenere una comunicazione digitale diventa lo strumento principale per mantenere il legame quotidiano. La qualità e la frequenza delle interazioni virtuali giocano un ruolo cruciale nell’influenzare la percezione della relazione e nel determinare il benessere emotivo e la stabilità psicologica di entrambi i partner.

Quali sono le difficoltà psicologiche nelle relazioni a distanza?
Nonostante la forte attivazione emotiva iniziale, le difficoltà nelle relazioni a distanza sono molteplici e vanno ben oltre la semplice lontananza fisica. I partner si trovano ad affrontare sfide legate alla gestione del tempo, alla fiducia reciproca, alla solitudine e, talvolta, alla difficoltà di mantenere una connessione emotiva profonda. Una delle difficoltà psicologiche
più intense è la sensazione di ansia e insicurezza: la distanza fisica può generare preoccupazione nei partner, che si sentono vulnerabili rispetto all’incertezza della stabilità della relazione. L’assenza del contatto diretto può alimentare dubbi sulla fedeltà, sulla sincerità e sul futuro della relazione. Alla base vi è la paura di essere trascurati o di non essere abbastanza importanti per l’altro. Infatti, anche quando i partner sono molto impegnati a comunicare tramite messaggi o videochiamate, la solitudine emotiva può emergere in modo considerevole. Non poter condividere momenti quotidiani, come una
cena insieme o una passeggiata, può dare il senso di una mancanza di “presenza” affettiva.
La carenza di esperienze condivise nella vita quotidiana può, inoltre, ridurre la sensazione di intimità. Proprio per questo motivo, le relazioni a distanza pongono una sfida aggiuntiva nella comunicazione emotiva: mentre nelle relazioni tradizionali è possibile cogliere segnali non verbali come il linguaggio del corpo, il tono di voce o il contatto fisico, nelle relazioni virtuali tali segnali sono ridotti o assenti. Questo può portare a malintesi, interpretazioni errate e conflitti non risolti. Questa disconnessione emotiva, può essere poi alimentata anche dal fatto che spesso i partner possono trovarsi a vivere in fusi orari diversi, con impegni professionali, sociali e familiari che differiscono notevolmente. La difficoltà nell’organizzare momenti per parlare e l’incapacità di condividere routine quotidiane comuni può generare frustrazione e alimentare la sensazione di essere lontani. Infine, questo tipo di relazioni richiedono, in molti casi, una visione chiara e condivisa sul futuro: se i partner non sono allineati riguardo agli obiettivi a lungo termine, come ad
esempio la possibilità di vivere insieme o di ridurre la distanza fisica, può crescere il senso di incertezza, di solitudine e di frustrazione.

Come mantenere una relazione a distanza sana e solida?
Nonostante le molteplici difficoltà, le relazioni a distanza non sono destinate a fallire. Al contrario, possono essere occasioni di crescita, di maggiore consapevolezza di sé e del partner e di sviluppo di competenze comunicative avanzate. Vasilenko et al. (2014), propongono una panoramica critica sull’adattamento psicologico ed emotivo nelle relazioni a distanza, che offre spunti su come le coppie possano gestire le difficoltà psicologiche
derivanti dalla separazione fisica. Il primo è sicuramente una comunicazione aperta e sincera: infatti, la chiave per una relazione a distanza di successo è la comunicazione. È fondamentale che entrambi i partner siano aperti e onesti riguardo ai propri sentimenti, alle proprie esigenze e alle proprie aspettative. Questo significa non solo parlare delle cose positive, ma anche affrontare le difficoltà e le frustrazioni con empatia e disponibilità.
Inoltre, stabilire regole chiare su come e quando comunicare aiuta a prevenire malintesi. Lo stesso Baker (2010), in uno studio psicologico, esplora le dinamiche di contatto nelle relazioni a distanza, sottolineando come la comunicazione sia cruciale per la manutenzione della relazione e come i partner sviluppano nel tempo strategie per renderla sana e
soddisfacente. Un secondo spunto di riflessione è legato allo stabilire obiettivi comuni: è essenziale che entrambi i partner abbiano una visione condivisa del futuro. Questo potrebbe includere decisioni concrete, come quando ci si rivedrà fisicamente, come si pianificherà di colmare la distanza a lungo termine o quali sacrifici si sono disposti a fare per la relazione.
Avere obiettivi comuni e condivisibili aiuta a dare significato alla distanza e a mantenere viva la carica emotiva all’interno della coppia, anche al fine di rendere quotidiana la meta da raggiungere. Infatti, cercare di realizzare una routine di comunicazione è cruciale: la regolarità nei contatti quotidiani o settimanali aiuta a mantenere la connessione emotiva e a ridurre il senso di solitudine. Anche se non è sempre possibile parlare ogni giorno, stabilire
un momento fisso per confrontarsi aiuta a sentirsi più vicini, capiti e uniti. Questo sforzo aiuta anche nel condividere le esperienze, anche a distanza. Sebbene non sia possibile vivere insieme e fisicamente tutto quello che accade, è necessario impegnarsi per creare esperienze condivise a distanza: guardare un film in contemporanea, cucinare lo stesso piatto, fare attività virtuali insieme (come giochi online, letture, o hobby comuni) può rafforzare il legame emotivo e il senso di vicinanza. E’ importante essere pronti anche ad
adattarsi ai cambiamenti e ad essere pazienti quando le cose non vanno come
pianificato. La fiducia reciproca è l’elemento cruciale in ogni relazione, ma in una relazione a distanza deve essere ancora più forte: è necessario dare spazio all’altro, evitando eccessivi controlli o aspettative irrealistiche. Per fare questo al meglio, ogni partner deve essere in grado di coltivare il proprio benessere emotivo e la propria indipendenza. La crescita
personale e la realizzazione delle proprie ambizioni aiuteranno a ridurre la dipendenza emotiva e a rendere la relazione più equilibrata.
Le relazioni a distanza rappresentano una sfida psicologica significativa, ma non sono destinate a fallire se affrontate con consapevolezza, pazienza e impegno. I partner che riescono a sviluppare una comunicazione sana, a mantenere alta la fiducia e a stabilire obiettivi comuni possono trovare nelle difficoltà un’opportunità di crescita e rafforzamento del legame. Sebbene le sfide psicologiche siano evidenti, con il giusto supporto emotivo e la
volontà di lavorare sulla relazione, le coppie a distanza possono prosperare e mantenere un legame solido nel tempo.

Dott.ssa Caterina Marini

Psicologa – Psicoterapeuta

FONTI
• Baker, L. A., & Oswalt, S. B. (2010). Relational Maintenance and
Communication in Long-Distance Relationships: An Overview. Journal of Social
and Personal Relationships, 27(1), 42-58.
• Vasilenko, S. A., & Piper, M. E. (2014). Psychological and Emotional
Adjustment in Long-Distance Relationships: A Critical Review. Journal of Family
Psychology, 38(5), 550-563.

PERCHE’ SERVE LO PSICOLOGO A SCUOLA?

Lo psicologo scolastico è sempre più richiesto nelle scuole di ogni ordine e grado, a partire dalle scuole primarie fino ad arrivare alle scuole cosiddette Superiori (Secondarie di secondo grado). Tale figura professionale viene identificata come utile e facilitante verso la creazione di un ambiente maggiormente positivo nell’ambito scolastico. Obiettivo primario dello psicologo scolastico è quello infatti di creare un ambiente sereno e cooperativo al fine di supportare le relazioni tra tutte le persone che afferiscono all’istituzione scolastica (studenti, famiglie, insegnanti, personale scolastico) per favorire un clima di serenità che supporti l’apprendimento, la gestione dello stress dell’insegnamento e rafforzi le relazioni tra famiglie-scuola e comunità territoriale.

Lo  psicologo scolastico è dunque focalizzato ad accogliere e a rispondere ai bisogni della scuola intesa come un sistema complesso costituito da individui, gruppi ed istituzioni in interazione tra loro.

Gli ambiti di intervento dello Psicologo all’interno delle scuole sono diversi in base all’ordine e grado della Scuola e delle esigenze territoriali, tuttavia possiamo individuare alcuni settori in cui tendenzialmente il professionista è chiamato ad operare.

L’ambito primario d’intervento è il supporto ai minori con situazioni di disagio (difficoltà emotive, relazionali o svantaggio sociale/culturale) e ai ragazzi con esigenze educative speciali (BES, DSA, difficoltà legate al comportamento e all’impulsività).

Spesso le manifestazioni di rabbia, aggressività, condotta indisciplinata e svogliatezza nascondano un malessere che va al di là del conflitto con i compagni o i docenti. Talvolta sono presenti sintomi ansiosi, fatica a sentirsi parte integrante della classe, percezione di non valere quanto si vorrebbe e inefficacia da un punto di vista del profitto nonostante gli sforzi messi in atto. Lo psicologo aiuta lo studente a fare luce su ciò che sta vivendo e a costruisce con lui un percorso per stare meglio, affrontando il problema in modo personalizzato.

La prevenzione e l’individuazione precoce di segnali di disagio che potrebbero in futuro esitare in patologie conclamate (disturbi d’ansia, disturbi alimentari, consumo di alcol e droghe, autolesionismo, comportamento dirompente, bullismo, …) sono l’ambito d’intervento privilegiato dello sportello d’ascolto per attuare la propria mission di prevenzione: un ascolto precoce, un’accoglienza non giudicante, un sostegno nel costruire un cambiamento sono un bene prezioso per i ragazzi.

In alcuni casi, quando la situazione richiede un intervento prettamente clinico, il professionista effettua un invio ai servizi del territorio per una presa in carico più approfondita e a lungo termine.

Lo psicologo a scuola lavora inoltre con insegnanti e ragazzi sull’inclusione di allievi e famiglie straniere che accedono ai servizi educativi e alle scuole del territorio, con attenzione a fornire anche un supporto alla genitorialità.

Un altro ambito in cui lo psicologo scolastico opera è la progettazione, realizzazione e/o supervisione di interventi in aula su tematiche legate alla formazione e alla prevenzione. Molto spesso allo psicologo è richiesto di lavorare con i gruppi classe, strutturando dei veri e propri percorsi sui temi rilevanti in base alla fascia d’età: la gestione delle emozioni, la prevenzione del bullismo, l’educazione all’affettività e alla sessualità, la conoscenza e prevenzione delle dipendenze (fumo, sostanze, gaming, affettive, smartphone e social).

I nostri ragazzi vivono contemporaneamente nel mondo reale e nel mondo del web e dei Social Network: il confronto con i modelli proposti, le prese in giro, la perdita di senso e di direzione nel loro percorso di crescita può diventare molto pericolosa, se non intercettata. Inoltre spesso le modalità disfunzionali di gestione dei conflitti in classe, tra pari, (ma anche tra docente-studente, genitori-insegnanti) possono essere migliorate con training psico-educativi sulla gestione delle proprie emozioni e sulla consapevolezza delle proprie modalità comunicative, riportando in aula, e fuori, un clima maggiormente costruttivo.

Lo psicologo può sostenere  anche i docenti nella comprensione delle classi difficili e nel contenimento dei rischi di burn out. I casi di cronaca riportati dalle testate giornalistiche dimostrano quanto frequentemente la scuola e le relazioni che gravitano intorno ad essa possono diventare teatro di conflitti violenti, con escalation di atti violenti e aggressioni fisiche e verbali.

Le attività in classe rappresentano una risorsa importante perché permettono allo psicologo di avvicinare tutti i ragazzi e farsi conoscere, costruendo un clima di fiducia e una prima relazione, permettendo anche a chi è più timido, scettico o riluttante al confronto di considerare l’idea di aprirsi con un estraneo. Gli incontri sul tema dell’ educazione sessuale, ad esempio, sono un’ottima occasione per entrare in contatto e in relazione con i ragazzi. Ci tengo inoltre a sottolineare che l’educazione sessuale  e affettiva è una materia di insegnamento obbligatoria nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea: in questo momento  fanno eccezione soltanto alcuni Stati membri, tra cui l’Italia. Quando è presente nell’Istituzione scolastica lo psicologo è spesso chiamato a effettuare questa tipologia di attività veicolando le  conoscenze specifiche e le abilità relazionali promosse in base alle fasce d’età, come indicato dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’educazione sessuale e affettiva precoce è concepita come una forma di prevenzione primaria delle gravidanze indesiderate e delle malattie sessualmente trasmissibili oltre ad aiutare a prevenire forme di sfruttamento, coercizione e abuso sessuale, forme dipregiudizio e stereotipi legati all’identità di genere, discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

Un altro dei focus su cui si concentra lo psicologo scolastico è la prevenzione e la riduzione del fenomeno della dispersione scolastica. Rispetto al resto dell’Europa, l’Italia infatti presenta tassi di abbandono molto alti (al pari di Bulgaria e Malta): circa un 1% degli studenti abbandona la scuola Secondaria di primo grado e circa il 4% la scuola Secondaria di secondo grado.  

Tuttavia tutti gli sforzi messi in atto dallo Psicologo all’interno dell’Istituzione scolastica si scontrano spesso con la scarsità di risorse a disposizione della Scuola per garantire una presenza stabile e continuativa tale da permettere l’instaurarsi di relazioni significative e di fiducia. Spesso il professionista si trova ad avere così tante richieste di consulenza da dover effettuare delle scelte in base alle urgenze e differire nel tempo gli incontri con ragazzi che ugualmente portano un reale disagio ma in quel momento meno sintomatico, non riuscendo così a trovane un’immediata accoglienza o la continuità nel tempo che sarebbe loro sufficiente in molti casi ad alleviare le loro preoccupazioni. La scuola e lo sportello d’ascolto non si configurano come un luoghi di diagnosi o di psicoterapia, ma come spazi circoscritti di confronto, di de-compressione in cui lo studente, il docente, il genitore possono mettere a fuoco il disagio e ritrovare le fila del percorso d’intervento (qualora necessario).

Come viene sottolineato dalla legge e dai professionisti che vi operano, la scuola non è e non deve diventare un luogo di cura, ma spesso finisce per essere un “Triage” che necessita di invii ai Servizi specialistici sul Territorio, che sempre per la stessa ragione, ovvero l’esiguità di risorse investite per la salute mentale, in termini di prevenzione e cura, non riescono a fare fronte e prendere in carico le necessità richieste.

In Italia, restando fanalino di coda rispetto alla maggior parte dei Paesi Europei, non è ancora stata definita una legge che istituisca la figura dello psicologo scolasticocome professionista competente e presente stabilmente in tale contesto. Attualmente, esistono soltanto alcune norme che regolano molti aspetti dell’attività professionale dello psicologo che opera nella scuola. Allo stato attuale le scuole, in virtù dell’autonomia didattica ed organizzativa delle singole istituzioni (Legge 15 marzo 1997, n. 59) e della cosiddetta “Buona Scuola” (Legge 13 luglio 2015, n. 107), possono avvalersi di uno psicologo attraverso accordi con i singoli professionisti, con le aziende sanitarie locali, con gli uffici scolastici regionali, con gli studenti e le loro famiglie e su delibera degli organi collegiali, ricorrendo al contributo di enti, istituti bancari, associazioni, genitori o al Fondo d’Istituto.

La mancanza di uniformità a livello normativo fa emergere una situazione critica poiché le attività psicologiche a scuola talvolta non risultano realizzate esclusivamente dallo psicologo, come sarebbe previsto dalla legge nazionale, ma molteplici altre figure vengono inserite all’interno del contesto scolastico, previa presentazioni di progetti con tematiche legate alla promozione del benessere e della salute, provenienti da differenti formazioni. Ciò talvolta determina sovrapposizione e confusione soprattutto per i ragazzi e  le famiglie.

Attualmente, secondo il Disegno di Legge S. 2613 proposto, lo psicologo scolastico deve essere iscritto all’Ordine degli Psicologi, in possesso di laurea magistrale in psicologia, con specializzazione quadriennale nello specifico settore dell’età evolutiva e operare in uno spazio identificato, previo appuntamento, senza entrare in classe se non con il consenso informato dei soggetti coinvolti e delle famiglie in caso di minori. Secondo la Cassazione, infatti, gli psicologi possono stare in classe solo se i genitori degli alunni sono stati informati della loro presenza e hanno prestato il consenso. Il tema del consenso informato dei genitori di allievi minori, solleva non poche problematiche per lo psicologo che opera a scuola. Non è semplice reperire i consensi di entrambi i genitori, spesso non presenti entrambi nella vita del minore o in forte conflittualità tra loro, questo spesso impedisce o scoraggia i ragazzi a partecipare alle attività di Sportello, per evitare di reperire un genitore, magari focus del loro disagio o che sanno non essere d’accordo con la partecipazione al tipo di attività, per timori e pregiudizio circa il lavoro dello Psicologo e dei Servizi sociali e territoriali. Questo genera un grande sommerso in termini di intercettazione dei ragazzi più sofferenti o coinvolti in situazioni familiari più complesse, proprio i ragazzi talvolta che avrebbero più necessità di avere un momento di ascolto.

La pandemia di Covid-19 viene considerata un vero e proprio “evento cerniera”all’interno del contesto scolastico, capace di segnare un “prima” e un “dopo” sulla presenza dello psicologo nelle scuole. La diffusione di difficoltà psicologiche, in particolar modo di ragazzi e adolescenti, ha spinto a riconsiderare la presenza dello psicologo all’interno del contesto scolastico e per la prima volta c’è stata una promozione importante da parte dello Stato per l’inserimento di questa figura professionale. Con il protocollo siglato nel 2020 tra Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e il Ministero dell’Istruzione, sono state definite le Linee di indirizzo per la promozione del benessere psicologico a scuola. Questo documento ha riportato in primo piano la figura dello psicologo, fondamentale per la promozione del benessere nel contesto scolastico scosso dal susseguirsi di lockdown, restrizioni e nuove forme di didattica online o mista. La realtà delle cose, come diretta conseguenza dell’emergenza, è stata l’istituzione, negli Istituti scolastici che ne erano ancora sprovvisti, di uno Sportello d’ascolto a cui gli studenti, gli insegnanti e i genitori, su prenotazione volontaria, potessero accedere e ricevere ascolto rispetto alla problematica emergente (ansia, difficoltà di apprendimento, comportamento alimentare). Lo specialista ha avuto la funzione di accogliere e riconfigurare il problema emergente per mezzo di un intervento di consulenza e orientamento.L’inserimento più diffuso dello Psicologo nell’istituzione scolastica durante la Pandemia ha aperto le porte a ragionare non più solo in un’ottica di riparazione, ma ha permesso di iniziare a pensare in termini di prevenzione attraverso l’ascolto, il confronto, l’informazione.

La speranza è che con il termine dell’emergenza e dei fondi stanziati in tale contesto, sia possibile per le Scuole continuare a sostenere queste attività e promuoverle come un bene primario, al pari dell’insegnamento della conoscenza.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologo – Psicoterapeuta

STRESS, ANSIA E CONCENTRAZIONE: SAI CHE I GIOCHI SENSORIALI POSSONO AIUTARTI?

Hai mai avuto bisogno di calmarti manipolando un oggetto, come una pallina antistress o un pop it? Gli stimming toys, ormai diffusi tra adulti e bambini, non sono semplicemente giochi, ma veri alleati per il benessere emotivo e sensoriale. Questi strumenti si stanno facendo strada anche nella psicoterapia, dimostrandosi utili in situazioni di stress, ansia e difficoltà di concentrazione. Ma cosa sono esattamente e perché funzionano così bene?

Cosa sono gli Stimming Toys?

Gli stimming toys sono dispositivi progettati per stimolare i sensi attraverso il movimento, il tatto o il suono. Tra i più noti troviamo:

fidget spinner, pop it e cubi antistress,
palline sensoriali, slime o pasta modellabile,
oggetti con texture particolari, come tappetini tattili o tessuti.

Il termine “stimming” deriva da “self-stimulatory behavior” (comportamento auto-stimolatorio) ed è stato originariamente associato all’autismo. Oggi, il loro utilizzo si è esteso anche a persone neurotipiche per affrontare momenti di stress, ansia o difficoltà di concentrazione.

Perché funzionano?

Gli stimming toys aiutano a:

1. Ridurre stress e ansia, offrendo uno sfogo fisico per l’energia nervosa.
2. Migliorare la concentrazione, mantenendo l’attenzione su uno stimolo leggero e costante.
3. Favorire il grounding (ancoraggio al presente), aiutando a rimanere nel “qui e ora” attraverso stimoli concreti e sensoriali.

Ma cosa rende questi strumenti così efficaci? La loro azione si basa su meccanismi neurologici profondi che influenzano il nostro stato emotivo.

I Meccanismi Neurologici
1. Attivazione del Sistema Somatosensoriale:
La manipolazione di oggetti tattili stimola il sistema somatosensoriale, che aiuta il cervello a rilasciare serotonina e dopamina, neurotrasmettitori legati al benessere. Questo tipo di stimolazione riduce l’attivazione del sistema nervoso simpatico (responsabile della risposta “attacco o fuga”) e promuove il rilassamento.
2. Grounding sensoriale:
Stimoli concreti e prevedibili, come la sensazione di pressione o movimento, ancorano la mente al presente. Questo processo coinvolge il talamo, che filtra le informazioni sensoriali, distogliendo l’attenzione da pensieri intrusivi o stati dissociativi.
3. Regolazione del Sistema Limbico:
Gli stimoli ripetitivi degli stimming toys riducono l’attività dell’amigdala, il centro delle emozioni, spesso iperattiva in stati di stress, ansia o emozioni intense come rabbia e frustrazione. Questo effetto calmante può aiutare a modulare anche impulsi legati a comportamenti disfunzionali, come la fame emotiva. L’ancoraggio al presente, inoltre, stimola l’ippocampo, favorendo un migliore equilibrio cognitivo ed emotivo, contribuendo a gestire sensazioni di tristezza o sopraffazione.
4. Stimolazione del Cervelletto e del Sistema Vestibolare:
Movimenti ritmici o compressivi attivano il cervelletto e il sistema vestibolare, migliorando il senso di equilibrio interno ed esterno e favorendo una sensazione di calma e stabilità.
5. Attivazione dei Circuiti Dopaminergici:
Gli stimming toys attivano i circuiti della dopamina, offrendo una gratificazione immediata che migliora l’umore e aumenta il senso di controllo.
6. Modulazione del Nervo Vago:
Attraverso la stimolazione tattile, gli stimming toys agiscono sul nervo vago, promuovendo rilassamento, sicurezza e un ritmo respiratorio regolare.
Utilizzo in Psicoterapia

Gli stimming toys possono essere integrati in diversi modi nel setting terapeutico, ad esempio come:

Strumento di autoregolazione: durante una seduta, un paziente in preda ad una forte emozione come ansia, agitazione, rabbia, tristezza ecc. può manipolare un oggetto per calmarsi e sentirsi più a proprio agio.
Promozione del grounding: in momenti di intensa attivazione emotiva, toccare o manipolare un oggetto può aiutare il paziente a rientrare in contatto con il presente.
Facilitazione del dialogo: spesso, il semplice gesto di manipolare un oggetto durante una conversazione può abbassare le difese e favorire un dialogo più aperto e spontaneo.
Per chi sono indicati?
Adulti e bambini con difficoltà di regolazione emotiva: persone con ansia, ADHD, o difficoltà di gestione dello stress possono trovare grande beneficio.
Persone in terapia per trauma: gli stimming toys possono aiutare a gestire flashback o stati di dissociazione.
Chiunque cerchi uno strumento pratico per rilassarsi: gli stimming toys non hanno controindicazioni e sono facilmente accessibili!

In conclusione, gli stimming toys non sono solo giochi: sono strumenti semplici ma potenti per migliorare la qualità della vita, aiutandoci a gestire momenti di difficoltà e a riconnetterci con il presente. Esplorarli significa scoprire un nuovo modo di prendersi cura di sé, trovando il proprio equilibrio con un gesto tanto piccolo quanto efficace.

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

Bibliografia
1. Brand, B. L., Schielke, H. J., & Lanius, R. A. (2022). Finding Solid Ground: Overcoming Obstacles in Trauma Treatment. Oxford University Press.
2. Schaaf, R. C., & Davies, P. L. (2010). Evolution of the Sensory Integration Frame of Reference. American Journal of Occupational Therapy, 64(3), 363-367.
3. Porges, S. W. (2011). The Polyvagal Theory: Neurophysiological Foundations of Emotions, Attachment, Communication, and Self-regulation. W.W. Norton & Company.
4. Cozolino, L. (2014). The Neuroscience of Human Relationships: Attachment and the Developing Social Brain. W.W. Norton & Company.
5. Siegel, D. J. (2012). The Developing Mind: How Relationships and the Brain Interact to Shape Who We Are. Guilford Press.

INTRATTENIMENTO TECNOLOGICO: ACCUDIMENTO O DIPENDENZA?

La tecnologia è un problema? I cambiamenti e gli sviluppi del campo tecnologico rappresentano qualcosa che va modificato o resettato?
Nel primo quarto di secolo degli anni duemila siamo stati sottoposti a grandi cambiamenti tecnologici e digitali, tanto da poter parlare di digital trasformation: l’invenzione di Internet, del Bluetooth, dei Clouds, di Google Maps, delle piattaforme Social Network, dei Bitcoin, degli Assistenti Digitali (…) ha completamente rivoluzionato il mondo in cui viviamo, modificando a
fondo il nostro modo di viverlo e abitarlo. Sono cambiate infatti non soltanto le cose che utilizziamo ma anche il modo in cui le usiamo e si sono trasformate profondamente anche le relazioni, le modalità in cui si costruiscono, si mantengono, si evolvono nel tempo: se prima non era pensabile che i rapporti avvenissero se non in presenza, oggi alcune relazioni vengono costruite attraverso il mezzo tecnologico e, spesso, possono essere mantenute proprio grazie a questo strumento. Le grandi possibilità che ci concede la tecnologia (per esempio di accorciare le distanze e di modificare
lo spazio -tempo) ci permettono di abitare il mondo con delle procedure completamente differenti rispetto al passato e con degli strumenti che rappresentano il nostro periodo storico, quasi più di noi stessi.
Riprendendo il discorso del filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti: “con il termine “tecnica” intendiamo sia l’universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. Con questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello “spirito” umano, ma come “rimedio”
alla sua insufficienza biologica 1”. Galimberti fa un confronto tra l’istinto che guida e indirizza il comportamento degli animali e l’azione che distingue e differenzia l’uomo: la tecnica rientrerebbe nel mondo delle azioni insieme all’anticipazione, all’ideazione, alla progettazione e alla libertà di
movimento ed azione. In questo senso, secondo Galimberti, “la tecnica è l’essenza dell’uomo” perché da lui costruita e da lui utilizzata per sostituirlo o porsi al suo posto: se nei tempi antichi la tecnica era uno strumento nelle mani dell’uomo utile a raggiungere uno scopo e ad organizzare la sua vita, ad oggi la tecnica rappresenta invece l’essenza, l’ambiente all’interno del quale l’uomo
vive e si è costituita con la finalità di controllare e dominare il mondo circostante, a livello locale e/o planetario. Ad oggi, infatti, abbiamo degli strumenti che ci aiutano a fare tutto: calcolare le spese, prevedere il tempo, organizzare le cose e noi stessi, migliorare il fisico, l’importo calorico, la
salute mentale, strumenti che ci aiutano a bere a sufficienza, a mangiare il giusto, a muoverci quanto necessario, a cucinare, a dormire, a svegliarci, a cambiare stile di vita o modificare il modo in cui facciamo le cose…possiamo dire che più niente è guidato essenzialmente dal nostro istinto e dalla
nostra parte animalesca, tutto ciò che è istintuale può essere potenzialmente sostituito da qualcosa di tecnico. “Infatti, finché la strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta
quantitativamente al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà l’accresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica 2”. In questo senso i nostri desideri e i nostri scopi diventano condizionati dalla tecnica e dalle infinite possibilità che questa ci propone. Sicuramente sarà difficile, andando avanti con i secoli, che i nostri bisogni non siano condizionati dalle infinite possibilità che la tecnologia ci concede e che propone.

Quale è dunque l’effetto che la tecnologia ha su di noi?
Se, prima dell’esistenza della tecnologia, costruivamo noi stessi a partire dalla risonanza individuale delle esperienze che facevamo, ad oggi, attraverso la tecnologia, l’esperienza collettiva diviene esperienza individuale: c’è infatti un veloce appiattimento della differenza tra interiorità ed esteriorità, della differenza tra superficialità e profondità e di quella tra passività ed attività. In un mondo moderno e tecnologizzato si perde il significato di queste differenze e, in qualche modo, la psicologia dell’uomo si appiattisce a causa di un sempre minore confronto con sé stesso, in cambio della funzionalità dell’apparato tecnico.
Per tornare sulle parole di Umberto Galimberti “Non dunque l’uomo che può usare la tecnica come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, ma
l’uomo la cui natura si modifica in base alle modalità con cui si declina tecnicamente3”.
La strutturazione di un mondo sempre più tecnologico non fa altro ridurre la capacità umana di psicologizzare, non utilizzando doti psicologiche come quella della mentalizzazione e della immaginazione; il risultato di questa situazione è che ci si omologhi sempre più alla razionalità dell’apparato tecnico e che si perda, oltre che la dimensione dell’istinto, quella della produzione immaginifica. Secondo Galimberti la tecnica non risponde più ai bisogni degli uomini ma è finalizzata ad un proprio obiettivo (quello per esempio di creare e produrre contenuti) e contribuisce a creare un nuovo tipo di ambiente nel quale l’uomo è portato a vivere, un mondo tecnologico. In
questo senso, l’epoca della tecnica porta l’uomo a doversi adattare a questi nuovi equilibri, a modificare il proprio modo di stare in contatto con le persone e con il mondo e ad omologarsi alle novità proposte dalla tecnologia, in crescente e sempre continuo mutamento. “Un’azione è omologata quando è conforme a una norma che la prescrive, quindi quando non è un’azione, ma
una conform-azione. E “conformazioni” sono tutte le azioni che si compiono in un apparato e in funzione dell’apparato, al cui interno il “fare da sé” cessa dove incomincia il “deve essere fatto” in perfetto accordo con le altre componenti dell’apparato 4”. L’omologazione e la conformazione passano dal fatto che per vivere nel mondo è necessario utilizzare lo strumento tecnico che diventa
l’unico modo possibile di esistere e di adattarsi. Il mondo è talmente tanto governato dalla tecnica da renderci dipendenti dalle sue principali caratteristiche: senza l’interruzione dell’utilizzo continuativo della tecnica diventa per noi impossibile renderci conto di quanto la utilizziamo e di
quanto ne abbiamo bisogno. Arriviamo a mettere in atto una vera e propria dissociazione psichica, affidando gran parte del nostro appartato cognitivo e mentale a degli strumenti tecnici, senza adoperare le nostre capacità intellettive. Questo succede a prescindere dalla nostra volontà,
all’interno di un mondo tecnologico dal quale non ci è possibile sottrarci, pena l’assenza di adattamento o l’esclusione da una rappresentazione condivisa del mondo.
Se, da un lato, la tecnologia favorisce una dissociazione psichica, creando nuovi desideri al posto dell’uomo e impedendo lui di “decidere” a cosa affidarsi e cosa preferire, dall’altra ci consente però di sentirci anche al sicuro, rassicurati e compresi: il fatto che si sostituisca a noi ci consente di
delegare le nostre facoltà emotive e di sentirci, in qualche modo, capiti dalle proposte che provengono dal essa. Quando per esempio ci vengono proposti dei contenuti da parte dei social network, essi sono selezionati in base alle nostre preferenze e all’indicizzazione delle nostre precedenti visualizzazioni: il fatto che ci ritroviamo nei contenuti proposti, che sentiamo che in
qualche modo ci riguardano, favorisce una sensazione e un senso di accudimento, di gratificazione e di cura, vissuti che spostano la nostra attenzione cosciente sui contenuti proposti e non più sul
nostro mondo interno. La tecnica che anticipa e indirizza i nostri desideri, oltre a toglierci “l’impiccio” di pensare, favorisce delle sensazioni emotive gradevoli e positive, che hanno a che fare con l’accudimento.
In chiusura di questa lettura del mondo di oggi, a tratti pessimista, a tratti realistica, resta solo da rispondere alla domanda iniziale, la tecnologia è davvero un problema?

Se restiamo sulle premesse condivise più in alto, il punto potrebbe non essere questo: la tecnologia non è più un mero strumento da noi possibilmente utilizzabile ma sta diventando il mondo in cui viviamo. Diventa dunque per noi impossibile sottrarcene. Ciò che sicuramente sarà importante tenere a mente, sia nel mondo attuale che in quello futuro, sarà imparare a utilizzarla responsabilmente: ciò significa non delegare completamente ad essa tutte le funzioni mentali ed emotive, le decisioni legate alla nostra vita e alle relazioni, rendendola un po’ più strumento che
apparato psichico sostitutivo. La tecnologia ci fornisce tante possibilità ad oggi imprescindibili ma, forse, pensare di utilizzarla meno, per meno tempo al giorno, provando a riscoprire la conoscenza e la relazione attraverso altre modalità, potrebbe favorire non solo un migliore e più funzionale contatto con noi stessi e con il nostro mondo interno, ma anche un uso più consapevole ed efficiente dell’apparato tecnico che ci ritroviamo a utilizzare.

 

1Galimberti, in questo caso si riferisce a tutti gli strumenti e le innovazioni appartenenti al nostro periodo storico, noi invece all’interno di questo articolo ci riferiremo principalmente all’utilizzo di Internet e dell’intrattenimento.
2 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp. 37.
3 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp 47
4 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp 615

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa-Psicoterapeuta

 

LIMERENZA: quando il desiderio diventa ossessione

Probabilmente sarà capitato a moltƏ, se non a tuttƏ, di provare un intenso attaccamento e desiderio emotivo nei confronti di qualcunƏ, che però non ci corrisponde. Ebbene, dopo un po’, insomma “ce ne siamo fattƏ una ragione”; questo non accade, o comunque avviene dopo tantissimo tempo se si soffre di limerenza.

Con questo termine si indica una condizione emotiva, ancora poco studiata, che determina un attaccamento ossessivo verso una particolare persona o un “oggetto di limerenza” con cui non si riesce ad instaurare una relaziona sana e che interferisce con il funzionamento quotidiano del soggetto.

Il termine è stato utilizzato per la prima volta dalla psicologa Dorothy Tennov nel suo libro del 1979 Love and Limerence – the Experience of Being”, tradotto poi in italiano come limerenza o ultrattaccamento. La Tennov condusse sin dagli anni ’60 studi sull’amore romantico, sul significato e sulle sensazioni associate alla sensazione di essere innamoratƏ. L’innamoramento determina, secondo la Tennoy un desiderio travolgente di attenzione e considerazione da parte di un’altra persona e la richiesta di essere corrispostƏ con pari sentimenti di ammirazione e desiderio. Talvolta però tutto questo assume dei contorni più cupi: il desiderio diventa pensiero intrusivo, la ricerca di considerazione si tramuta in ossessione e l’innamoramento diventa limerenza.

Caratteristiche della limerenza sono oltre al già citato pensiero intrusivo, l’estrema sensibilità alle azioni e ai cambiamenti dell’altrƏ che influenzano lo stato emotivo del soggetto limerente. Ad ogni minimo gesto, anche casuale o non rivolto a loro, può corrispondere una gioia immensa o un’estrema disperazione. C’è un intenso, ed appunto ossessivo, bisogno di ricevere conferme spesso ricercate in gesti o comportamenti che magari nel concreto non sono intenzionali o non sono rivolti a loro e persistenti fantasie e rimuginii riguardo alle azioni e situazioni che si possono venire a creare, in una continua spirale di gelosia e dubbio.

L’oggetto di limerenza è qualcunƏ che quasi mai corrisponde i sentimenti di idealizzazione e considerazione; sono “amori” non corrisposti che si instaurano indipendentemente dalla reale conoscenza dell’altrƏ o del tipo di rapporto instaurato. Effettivamente si evidenzia come la limerenza non sia un disturbo relazionale, ma a tutti gli effetti un disturbo affettivo; la vera relazione con l’oggetto di limerenza, infatti, è davvero marginale tanto che spesso, contrariamente da quello che succede nell’innamoramento, manca una autentica partecipazione o preoccupazione per il benessere dell’altrƏ. Anche il desiderio o l’attrazione sessuale non è presente o comunque ha un ruolo del tutto marginale, accade anche che oggetto di limerenza non sia dello stesso sesso da cui il soggetto è sessualmente attratto.

Per quanto fin qui detto, seguendo il pensiero di Wakin e Vo (2008), si possono osservare alcuni aspetti comuni tra la limerenza, il disturbo ossessivo compulsivo e quello da uso di sostanze.

Secondo i due autori tra i sintomi della limerenza si ritrovano sia i pensieri intrusivi caratteristici del DOC, che le compulsioni che si manifestano, in questo caso, con rituali legati al controllo, all’idealizzazione dell’oggetto e alla pianificazione. Così come nel DOC emerge una significativa compromissione del funzionamento del soggetto ed un elevato stato ansioso legato prevalentemente alla paura di un rifiuto da parte dell’oggetto di limerenza.

Allo stesso modo gli autori individuano alcune modalità di pensiero e comportamento simili a quanto si individua nel disturbo da uso di sostanze. Si rintracciano infatti sia il fenomeno della tolleranza, ovvero c’è sempre un maggior bisogno di reciprocità emotiva per mantenere il livello di gratificazione desiderato, che veri e propri sintomi da astinenza come dolore fisico, disturbi del sonno, irritabilità e depressione. Anche gli aspetti legati al continuo pensiero, all’iperfocalizzazione e alle fantasie legate all’oggetto ed il sottile piacere che ne deriva, sono assimilabili al cosiddetto rimuginio desiderate presente in chi usa sostanze.

Tutto questo ci porta, nonostante l’esigua letteratura in merito, a dire qualcosa anche sul possibile trattamento della limerenza. Proprio a partire infatti dai punti di contatto col DOC si può supporre che la psicoterapia cognitivo comportamentale possa essere quella maggiormente indicata (Wyant, 2021).

In un periodo come questo in cui si assiste ad un considerevole aumento di casi di dipendenza affettiva e di difficoltà relazionali è quanto mai importante incentivare gli studi clinici su questi temi oltre che prestare attenzione a situazioni di disagio emotivo che sebbene abbiano un’origine individuale, possono avere ripercussioni anche a livello relazionale e rivolgersi conseguentemente a professionisti competenti ed esperti.

Dott.ssa Chiara Delia

Psicologo – Pscoterapeuta