ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

SUL SUCCESSO DELLA ROUTINE

Morning routine, beauty routine, daily routine.


I social sono pieni di suggerimenti su come impostare routine efficaci ed efficienti per iniziare bene la giornata, prendersi cura di sé, fare sport, dedicarsi alla pulizia della casa, riposare al meglio, prosperare economicamente e chi più ne ha più ne metta.
Ma che cosa ci dice la scienza al riguardo? Le routine sono utili? E se sì, perché?

Quando si parla di miglioramento della qualità di vita, gran parte delle ricerche si focalizza su come, in situazioni di sofferenza e disagio, l’instaurazione e il mantenimento di nuove abitudini possa essere d’aiuto.

Studi hanno dimostrato come i ritmi biologici siano influenzati da quelli sociali. Costruirsi una routine che implichi la ripetizione giornaliera di alcune azioni o che identifichi in maniera chiara le fasi della giornata da dedicare ad attività specifiche, tenendo conto anche delle ore di luce/buio, permette di regolare il proprio ritmo interiore. Di conseguenza si riposerà meglio e durante la veglia si avranno risorse adeguate a regolare le emozioni e coltivare presenza e intenzionalità, con ricadute positive sulla produttività.

Si è visto inoltre come con l’età aumenti anche la stabilità delle routine quotidiane, poiché esse rappresentano verosimilmente un importante fattore di adattamento al cambiamento fisiologico dei ritmi biologici e circadiani.

Analizziamo insieme le suggestioni che arrivano dalle ricerche.

In centri che accolgono persone affette da demenza, la scansione del tempo attraverso momenti che si ripetono in maniera regolare nel corso della giornata (i pasti serviti sempre negli stessi orari, etc.) e della settimana (i laboratori del giovedì, l’attività ricreativa del sabato, e così via) rallenta il declino funzionale e offre sensazioni di sicurezza e stabilità in un mondo che appare sempre più confuso agli occhi degli ospiti.

Per i bambini, disporre di routine regolari stabilite dall’adulto è rassicurante perché riduce l’entropia di un mondo ancora tutto da esplorare e offre limiti all’interno dei quali muoversi e sperimentare. Un discorso analogo vale a maggior ragione per alcuni disturbi del neurosviluppo, come l’autismo o l’ADHD, poiché per bimbi che ne soffrono l’esterno apparirà ancora più disorientante e pericoloso.

Adulti neurodiversi beneficeranno anche loro di routine quotidiane e sociali perché esse rappresenteranno cornici all’interno delle quali muoversi per raggiungere obiettivi e coltivare valori.

Numerose ricerche hanno dimostrato come nel trattamento dell’insonnia è utile praticare quella che viene definita “igiene del sonno”. Essa consiste nell’eliminazione di stimoli attivanti dal luogo preposto al riposo e nel tempo immediatamente precedente la messa a letto. Si tratta, ad esempio, di evitare di tenere a vista nella stanza da letto oggetti che rimandino al lavoro o allo studio, di non fare attività fisica intensa e non utilizzare dispositivi elettronici prima di andare a dormire, di riservare un luogo fisico definito al sonno. A questa sorta di pulizia si dovrebbe affiancare l’introduzione di una serie di passaggi ripetitivi che dicano al corpo che ci si sta preparando al riposo. Tale routine può prevedere un bagno caldo, l’uso di una crema corpo spalmata con un automassaggio, la preparazione e l’assunzione di una tisana rilassante e così via.

In presenza di sintomi depressivi, l’attivazione comportamentale, ossia l’introduzione di piccole attività un tempo piacevoli nella quotidianità, insieme al supporto dei professionisti, è uno dei tasselli del percorso di ripresa.

Riassumendo, in condizioni di fragilità le routine aiutano a dare ritmo e significato alle giornate.

Infine, veniamo alle abitudini dei milionari. Vi sarà capitato di leggere libri o recensioni di libri che suggeriscono come la strada per il successo venga spianata da una routine collaudata.
Questo, in un certo senso, è vero.

Se ci pensiamo, avere una giornata con dei ritmi ben scanditi può:

regolare il tempo da dedicare al lavoro, al riposo e allo svago;
incrementare i livelli di energia;
aiutare a gestire le emozioni in maniera efficace;
velocizzare le incombenze quotidiane;
permettere di dedicare risorse a ciò che si ritiene prioritario;
mantenersi motivati per
raggiungere i propri obiettivi.

Non si può però esportare nella propria vita la routine di qualcun altro. È pensabile prendere spunto, ma la riproduzione dei ritmi di una persona che si ammira non garantirà i risultati sperati. E questo perché la routine è strettamente connessa ai valori. È da essi che bisogna partire per costruire quella più efficace per sé.

Fare mente locale su quel che conta offre la possibilità di scegliere ciò su cui si vuole investire risorse. Se si considera importante avere dei capelli lucenti, bisognerà prevedere nella giornata un momento da dedicare all’uso di prodotti specifici. Un’attività così semplice può apparire superflua ma, se riflettiamo, rappresenta un modo per coccolarsi, per sentirsi a proprio agio con se stessi e con gli altri e, in ultima istanza, per accrescere autostima e autoefficacia percepita. Se si intende accudire le persone amate, le giornate dovranno includere dei momenti riservati a una visita, una telefonata, un messaggio.

Riflettere sui valori permette di comprendere in quale direzione si vuole condurre la propria vita, come farlo, a che cosa dare priorità nel qui e ora, come tollerare la frustrazione e i cali di motivazione quando per coltivare un valore è necessario “sforzarsi”.

Una routine di successo non rende necessariamente, più ricchi, più affermati o più belli. Il successo consiste nel riuscire ad allineare le proprie azioni ai propri valori. Trovare spazio per fare ciò che conta farà sentire più appagati, più affermati e permetterà di affrontare con maggiore resilienza le intemperie della vita!

 

Dott.ssa Arianna Calabrese

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Riferimenti bibliografici

Gitlin, L. N., Kales, H. C., & Lyketsos, C. G. (2012). Nonpharmacologic management of behavioralsymptoms in dementia. JAMA, 308(19), 2020–2029.

Haynes, P. L., Gengler, D., Kelly, M. (2016). Social Rhythm Therapies for Mood Disorders: an Update. Current psychiatry reports, 18(8), 75.

Moss, T. G., Carney, C. E., Haynes, P., Harris, A. L. (2015). Is daily routine important for sleep? An investigation of social rhythms in a clinical insomnia populationChronobiologyinternational, 32(1), 92–102.

Rogers, S. J., Dawson, G., Lord, C., (2010). Early Start Denver Model for Young Children with Autism: Promoting Language, Learning, and Engagement. New York: Guilford Press.

Sabet, S. M., Dautovich, N. D., & Dzierzewski, J. M. (2021). The Rhythm is Gonna Get You: Social Rhythms, Sleep, Depressive, and Anxiety Symptoms. Journal of affective disorders, 286, 197–203.

SINDROME DELL’IMPOSTORE Quando accettare il proprio valore personale diventa impossibile

La sindrome dell’impostore è stata teorizzata per la prima volta negli anni ’70 dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes. Alcuni studi rilevano che il 70% della popolazione, sia maschile sia femminile, almeno una volta nella vita ha sperimentato questa condizione e si pensa che addirittura Albert Einstein ne soffrisse.

E’ importante rilevare che, anche se le psicologhe hanno attribuito il nome “sindrome” a questo fenomeno, non si tratta di una malattia e, di conseguenza, non lo troviamo tra le patologie inserite nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM).

Ma se non è una malattia, cos’è la sindrome dell’impostore? Si tratta di un fenomeno psicologico a causa del quale il soggetto non riesce ad attribuirsi il merito dei propri successi. Potrebbe dunque pensare di aver ottenuto un determinato traguardo, come per esempio il superamento di un esame universitario o una promozione sul lavoro, grazie alla fortuna (“le domande che mi hanno fatto erano facili!”) o all’aver ingannato gli altri (“il mio capo crede che sia competente, ma presto scoprirà che non è così!”).

La condizione di chi soffre della sindrome dell’impostore non necessariamente legata alla psicopatologia, dunque non è detto che chi ne è vittima sia affetto, ad esempio, da ansia o depressione. Piuttosto tale fenomeno è legato ad una combinazione di condizioni ambientali e caratteristiche personali.

Tra le cause possiamo trovare:

Essere cresciuto in un contesto familiare con una o più persone che hanno ottenuto successo o che si sono sempre distinte;
Essere particolarmente sensibili;
Aver ricevuto in famiglia sempre e solo complimenti, anche quando i risultati ottenuti non erano eccellenti;
Avere (o aver avuto) poche possibilità di esprimere liberamente le proprie emozioni;
Appartenere ad una minoranza oggetto di discriminazione sociale;
Affrontare nuove sfide (es. nuovo ambiente di lavoro).

La sindrome dell’impostore è strettamente legata all’autostima, al valore personale e all’idea che abbiamo di noi stessi e dei traguardi che immaginiamo di dover raggiungere per essere “accettabili” al livello sociale. Non a caso, è una condizione che spesso colpisce persone che ricoprono cariche importanti. Un aspetto che spesso non viene considerato è quello delle relazioni sociali. Infatti la sindrome dell’impostore non riguarda solo le capacità lavorative o accademiche, ma spesso colpisce anche l’ambito relazionale. Una persona potrebbe pensare di risultare simpatica o interessante solo perché gli altri non la conoscono abbastanza, e non si sono ancora accorti di quanto riesca a fingere di essere ciò che non è.

Essere colpiti dalla sindrome dell’impostore genera sofferenza e insicurezza e spesso dà origine ad una serie di pensieri negativi su di sé. Eccone alcuni esempi:

Sentirsi inadeguati rispetto al proprio ruolo professionale o sociale;
Convinzione di ingannare le persone rispetto al proprio valore;
Sentirsi in colpa per i traguardi raggiunti e pensare di non meritarli;
Paura di esporsi e di essere giudicati;
Paura di essere smascherati e di essere considerati degli impostori;
Accettare con difficoltà elogi e complimenti;
Essere convinti che i propri successi derivino unicamente dalla fortuna.

Ma quali sono i fattori che contribuiscono al mantenimento della sindrome dell’impostore? Ne sono stati rilevati principalmente due: il perfezionismo e la bassa autostima.

Il perfezionismo consiste nella consuetudine di pretendere da se stessi dei risultati di livello superiore a quelli richiesti dalla situazione. Questo porta il soggetto a diventare ipercritico rispetto alle proprie prestazioni (sociali, lavorative, accademiche, ecc.), portandolo a porre a se stesso standard sempre più elevati e spesso irraggiungibili. Qualunque risultato ottenuto ritenuto inferiore all’obiettivo preposto viene percepito come insoddisfacente e come diretta conseguenza dello scarso valore della persona. Il perfezionismo dà dunque origine ad un circolo vizioso, da cui diventa spesso difficile uscire. Ogni risultato “non perfetto” sarà considerato dal soggetto come la conferma di essere incompetente e, nel caso della sindrome dell’impostore, confermerà a convinzione di aver raggiunto traguardi e riconoscimenti di cui in realtà non è meritevole.

La bassa autostima è strettamente correlata al perfezionismo. Chi ne soffre ha la costante sensazione di essere inadeguato e di non valere abbastanza. Riconosce a se stesso uno scarso valore personale ed è afflitto dalla paura di sbagliare in qualunque situazione. Spesso chi ha bassa autostima è convinto di non poter essere amato e apprezzato per ciò che è. Il perfezionismo e l’impossibilità di raggiungere risultati impensabili vanno a riconfermare la scarsa percezione che la persona ha di sé.

Come superare la sindrome dell’impostore? Questo implica certamente un lavoro su se stessi, in particolare se questa è una condizione frequente o addirittura cronica. Per far fronte alla sindrome dell’impostore è importante imparare ad avere uno sguardo più oggettivo su se stessi, ad apprezzare i traguardi raggiunti e a fare i conti con i propri limiti: in poche parole bisogna imparare ad apprezzarsi e ad amarsi per ciò che si è. Porsi degli obiettivi raggiungibili e apprezzare i risultati ottenuti, imparare ad accettare i complimenti, accogliere con gioia i riconoscimenti, lasciando da parte l’ipercritica, è ciò che può aiutare a vivere al meglio la vita lavorativa e sociale.

A volte però sapere cosa dovremmo fare per stare meglio non è sufficiente a cambiare le cose. Fare ricorso alla psicoterapia potrebbe aiutare a uscire dalla dolorosa sensazione di essere degli impostori e imparare ad accettarsi per ciò che si è.

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta

ALLA RICERCA DELLA FELICITA’: MODI SANI E NATURALI PER RAGGIUNGERE IL BENESSERE

Attraverso le culture e le epoche, ci si è spesso interrogati sulla felicità. Filosofi, studiosi e scienziati hanno cercato di offrire diversi approcci e prospettive nel tentativo di comprenderla. Da  Aristotele che affermava che la felicità risiedeva nelle virtù morali o etiche, ad Epicuro che considerava la felicità come lo scopo ultimo dell’esistenza umana, a José Ortega secondo cui si raggiunge la felicità solo quando la “vita proiettata” e quella affettiva coincidono. Ad oggi, la scienza ci ha permesso di comprendere la felicità in termini oggettivi, identificandone meccanismi e processi neurobiologici associati.

La complessità della nostra vita quotidiana ci catapulta e ci immerge costantemente in una miriade di situazioni ricche di stimoli. In molte occasioni, questi stimoli migliorano il nostro umore. Pensiamo alle sensazioni che proviamo dopo una corsa al parco, dopo aver ascoltato della buona musica o aver fatto una passaggiata in motagna o al mare, dopo aver abbracciato un caro o aver mangiato del buon cibo. In situazioni simili, il nostro cervello produce dei messaggeri chimici che attraverso la circolazione sanguigna, giungono in diverse aree del nostro corpo innescando specifice sensazioni. Queste sostanze chimiche, note anche come neurotrasmettitori, possono influenzare il nostro stato d’animo e il nostro benessere emotivo. Stiamo parlando proprio, dei cosiddetti “ormoni della felicità o del benessere”. Di questi ormoni fanno parte la dopamina, la serotonina, l’ossitocina e l’endorfina che giocano un ruolo fondamentale nel regolare il nostro umore, ridurre lo stress e promuovere la sensazione di felicità e benessere generale. Esistono diversi modi naturali per stimolarne la loro produzione affinché ci si possa sentire più calmi, felici e in equilibrio emotivo.

In questo articolo, proveremo ad esplorare alcuni dei modi più efficaci per aumentare la produzione di dopamina, serotonina, ossitocina ed endorfine nel nostro corpo, migliorando così il nostro benessere.

La dopamina è spesso conosciuta come “ormone del piacere” ed è coinvolta nella motivazione, gratificazione, ricompensa e nella sensazione del piacere. È responsabile del rinforzo di comportamenti appresi anziché promuoverne di nuovi. La sua  funzione principale infatti, è quella di agire da sistema di ricompensa. Assecondare il desiderio di cibi come la cioccolata, raggiungere un obiettivo, svolgere attività di cura del Sè come un bel bagno caldo, sono tutte attività che possono innescare il rilascio di dopamina, producendo una sensazione di piacere che farà aumentare il desiderio di ricorrere nuovamente a quel particolare cibo o attività. Bisogna però fare attenzione perché non tutte le attività o le sostanze introdotte nel corpo, possono essere sane seppur rilasciando ugualmente una scarica di dopamina. È il caso dell’assunzione di alcol, droghe o attività come il gioco d’azzardo che possono diventare vere e proprie dipendenze.

La serotonina invece, è conosciuta come “l’amplificatore naturale del buon umore” o “ormone della felictà”.Viene spesso associata al benessere emotivo e alla felicità ma in realtà,  è coinvolta anche nella regolazione dell’umore, dell’ansia, del sonno, della temperatura corporea, nella percezione del dolore e nella motilità intestinale.  Le ricerche inoltre, suggeriscono che questo ormone influenza positivamente la memoria, migliora l’apprendimento e promuove il rilassamento. Trascorrere del tempo al sole, praticare del buon esercizo fisico e meditare sono tutte attività che permettono il rilascio di serotonina.

Ci sono poi, le endorfine gli “antidolorifici naturali del corpo”. Sono conosciute per il loro potere analgesico in quanto agiscono come gli oppiodi, con il vantaggio di essere direttamente prodotti dal nostro corpo. Questo neurotrasmettitore infatti, permette di alleviare il dolore e può aiutare a ridurre lo stress e migliorare l’umore. Le endorfine vengono rilasciate attraverso l’esercizio fisico intenso, durante l’eccitazione sessuale, quando si guarda un bel film, si ascolta musica o si ride.

Infine, abbiamo l’ossitocina, il cosiddetto “ormone dell’amore”. Svolge un ruolo cruciale durante la gravidanza, il parto e l’allattamento. Inoltre, è fondamentale nelle interazioni sociali perché permette di instaurare relazioni profonde. È ormai noto che siamo esseri sociali e che è proprio grazie al supporto sociale positivo e a relazioni sane che possiamo ottenere numerosi benefici. È stato dimostrato che questa sostanza chimica viene attivata attraverso il contatto fisico ma  anche socializzando in conversazioni, fornendo assistenza agli altri e interagendo con un animale domestico. Le relazioni sociali e le connessioni sane, nel corso della nostra vita quindi,  aumentano le emozioni positive e promuovono il benessere generale.

A prescindere da quale sia l’attività o il comportamento che permette il rilascio di uno di questi ormoni, ciò avverrà solo in piccole dosi. Una volta metabolizzato infatti, la sensazione di piacere tenderà a svanire e il nostro corpo ritornerà alla sua omeostasi originaria.

Un buon promemoria per ricordarsi come stimolare la produzioni di questi ormoni “della felicità” (o del benessere) potrebbe essere il seguente:

fare esercizio fisico regolare (o una breve passeggiata all’aperto) ci permetterà di aumentare i livelli di endorfine nel corpo così come, dopamina e serotonina, migliorando di conseguenza, l’umore e riducendo ansia e stress.
una dieta sana ed equilibrata  e l’assunzione di cibi, come il cioccolato fondente, le banane, le arachidi, i cereali integrali, proteine magre e grassi sani ci permetteranno di aumentare i livelli di serotonina.
dormire a sufficienza. Un buon sonno è fondamentale per il rilascio di serotonina e melatonina.
mindfulness e meditazione ci permetteranno di aumentare i livelli di serotonina e dopamina nel cervello, riducendo ansia e stress.
passare del tempo all’aperto e in contatto con la natura stimolerà la produzione divitamina D, che può influenzare positivamente l’umore aumentando i livelli di serotonina.
la socializzazione e l’interazione con gli altri potrà aumentare i livelli di ossitocina, dopamina e endorfine, migliorando così l’umore complessivo.
praticare hobby e passioni; che si tratti di fare yoga, dipingere, leggere un libro o ascoltare musica, dedicare del tempo alle attività che fanno sentire bene può aumentare i livelli di dopamina e endorfine.

La chiave di tutto resta sempre un approccio curioso alla vita e quindi anche, a quei modi naturali di stimolare i nostri ormoni della felicità. Sperimentare quello che è nelle proprie corde, così da poter cercare la propria personale strada a ciò che può promuovere in modo sano, un maggiore benessere alla nostra vita. È già tutto a nostra disposizione e sotto i nostri occhi, dobbiamo solo provare a (ri)scoprirlo.

 

 

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa, Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

2021 Alexander R. et al. The neuroscience of positive emotions and affect: Implications for cultivating happiness and wellbeing https://doi.org/10.1016/j.neubiorev.2020.12.002

1979 Fox E.R.W. Happiness Hormones? The western journal of medicine

Sitografia

2023 Austin D. Dopamine, serotonin, endorphins, oxytocin: Your happy hormones, explained(nationalgeographic.com)

LA REALTÀ VIRTUALE… NON E’ SOLO UN GIOCO

La realtà virtuale (VR) è una tecnologia che permette agli utenti di interagire con un ambiente digitale e tridimensionale in maniera immersiva e realistica. Questo ambiente viene creato utilizzando computer e software che generano una simulazione del mondo reale. Gli utenti possono interagire con questo ambiente utilizzando dispositivi come visori VR, guanti sensoriali e controller. Questi dispositivi consentono di manipolare gli oggetti dell’ambiente virtuale, muoversi attraverso lo spazio e comunicare in tempo reale con altri utenti.

Il concetto di realtà virtuale ha radici negli anni ’60 e ’70, ma è diventato “popolare” negli ultimi anni.

Grazie ai rapidi progressi tecnologici, la realtà virtuale sta diventando sempre più accessibile ed utilizzata in diversi campi, dai videogiochi all’addestramento militare, dall’architettura alla psicoterapia.

Le neuroscienze possono fornire importanti chiavi di lettura per comprendere come il nostro cervello reagisce alla realtà virtuale. Studi recenti hanno dimostrato che l’esperienza della reltà virtuale può attivare le stesse aree cerebrali coinvolte nella percezione e nell’elaborazione delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno.

Ciò significa che il nostro cervello interpreta le esperienze virtuali in modo simile a come interpreta le esperienze reali, anche se sono generate dal computer.

Questo fenomeno, noto come “presenza”, è fondamentale per il successo della realtà virtuale. La sensazione di essere immersi in un ambiente virtuale, di interagire con oggetti e persone come se fossero reali, ha un impatto significativo sul nostro benessere emotivo e psicologico.

Studi condotti in ambito terapeutico hanno dimostrato come l’uso della realtà virtuale può avere effetti positivi sul trattamento di disturbi come fobie, traumi psicologici e disturbi dell’umore.

Ad esempio, la realtà virtuale può essere utilizzata per esporre in modo graduale e controllato i pazienti alle situazioni temute, permettendo loro di affrontare le proprie paure in un ambiente sicuro e controllato. Questo approccio, noto come terapia dell’esposizione in realtà virtuale, è particolarmente efficace nel trattamento di fobie specifiche, come paura degli insetti, del volo e degli spazi chiusi.

Inoltre, può essere utilizzata per ricreare ambienti virtuali che favoriscono il rilassamento e la riduzione dello stress. Attraverso l’uso dei dispositivi è possibile immergersi in scenari naturali, come boschi, spiagge o cascate che favoriscono la calma e la tranquillità.

Al di là delle implicazioni terapeutiche, la realta virtuale può avere importanti risvolti negativi sulla nostra salute mentale.

L’uso eccessivo della realtà virtuale può portare ad un distacco dalla realtà, causando isolamento sociale e problemi di dipendenza. Alcuni studi hanno evidenziato come l’abuso di videogiochi di realtà virtuale possa causare sintomi simili a quelli dell’abuso da sostanze come irritabilità, ansia e depressione.

L’immersione continua in ambienti virtuali può alterare la percezione della realtà, portando alcune persone a confondere ciò che è reale da ciò che è virtuale. Questo fenomeno, noto come sindrome da realtà virtuale, può avere conseguenze negative sulla salute mentale e sul benessere psicologico, portando con sé perdita del senso di identità e di controllo sulla propria vita.

E’ fondamentale trovare un equilibrio tra l’uso della realtà virtuale per fini terapeutici e ricreativi, e l’eccessivo utilizzo che può portare a conseguenze negative.

In conclusione, la realtà virtuale è una tecnologia che offre importanti opportunità di sviluppo e di crescita in diversi settori, dalle neuroscienze alla psicologia.

Tuttavia, è fondamentale essere consapevoli dei risvolti psicologici e adottare misure preventive per prevenire l’insorgere di problemi legati all’abuso.

Solo attraverso un uso consapevole e responsabile possiamo sfruttare il suo potenziale e beneficiare dei numerosi vantaggi che può offrire.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo – Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

Morganti F. Riva G., 2006, Conoscenza comunicazione e tecnologia, aspetti cognitivi della realtà virtuale. Milano.

Vincelli, Rira, Molinari, 2007, La realtà virtuale in psicologia clinica. Milano, McGraw Hill.

Wallece, 2017, La psicologia di internet, Milano, Cortina.

IL TRAUMA E LE SUE CONSEGUENZE

Dal trauma si può guarire? Il trauma non può essere cancellato, ma si possono curare le tracce che il trauma lascia nella mente, nel corpo e nell’anima.

I segni che lascia il trauma si manifestano in modi differenti:

– con una sensazione di peso sul petto che denominiamo ansia o depressione; 

  • con la paura di perdere il controllo che ci fa sentire maggiormente vulnerabili; 
  • con il sentirsi sempre in allerta, come se un pericolo possa essere dietro l’angolo ad ogni nostro passo; 
  • con il forte disgusto che si prova nei propri confronti, sentendosi spesso colpevoli più che vittime; 
  • con flashback e incubi costanti; 
  • con la fatica di essere concentrati in quello che facciamo;
  • con la difficoltà di amare e di sentirsi amati.

Ma cosa è il trauma? In psicologia il trauma viene definito come una risposta emotiva ad un evento, o ad una serie di eventi, estremamente stressanti o disturbanti. Il trauma può avere effetti profondi e duraturi sulla salute menale di un individuo, influenzando il suo comportamento, le sue emozioni e le sue capacità di relazione. In alcuni casi, il trauma può portare a disturbi più gravi come il Disturbo da Stress Pos-Traumatico (PTSD).

Il trattamento del trauma spesso coinvolge interventi terapeutici come la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprcessing) e altre forme di supporto psicologico.

Con un percorso di cura ci si pone l’obiettivo di ritornare ad essere padroni di se stessi e di riprendere la connessione tra corpo e mente. Chi lavora con le persone traumatizzate sa che per riprendere il controllo di se stessi è necessario ripercorrere il trauma, ma non è possibile farlo se prima non abbiamo condotto la persona a provare direttamente quella sensazione di sicurezza, condizione indispensabile per non sentirsi nuovamente traumatizzati.

La ricerca neuroscientifica ha messo in evidenza come l’unico modo per modificare come ci si sente, consiste nel diventare consapevoli delle nostre sensazioni interiori, non avendone paura e sentendosi in balia di esse, ma cercando di accogliere ciò che accade dentro di noi.

L’obiettivo non vuole essere stabilire con certezza cosa sia esattamente accaduto, ma guidare “le persone a tollerare le sensazioni, le emozioni e le reazioni che provano, senza esserne sopraffatti” (B. Van Der Kolk).

È importante far sì che la persona non si senta colpevole dell’accaduto; il trauma non è colpa loro e tanto meno è stato causato da qualche loro difetto e nessuno può meritarsi quello che è accaduto a loro.

Elaborare un trauma è un processo complesso e individuale che può variare notevolmente da persona a persona. Tuttavia ci sono alcuni approcci e strategie comuni utilizzati in psicologia per aiutare le persone ad elaborare e superare il trauma. 

 1. Riconoscimento e accettazione attraverso il supporto professionale:

  • Consapevolezza: il primo passo è riconoscere che si è vissuto un evento traumatico. In questa fase è importante accettare i sentimenti e le emozioni associate al trauma.
  • Autoaccettazione: accogliere le reazioni al trauma come normali e non sbagliate sebbene si percepisca l’ora fatica nel superare l’evento. “Ciò che è successo non può essere cancellato” (B. Van Der Kolk). È necessario occuparsi delle tracce del trauma che rimangono nel corpo, nella mente e nell’anima.

Chi ha subito dei traumi sa bene di cosa sto parlando, perchè questi vissuti interni sono quelli che accendono maggiormente l’ansia, la depressione e la paura: si temono le proprie sensazioni fisiche; esse diventano il vero pericolo da evitare.

Anche se il trauma riguarda il passato, il cervello emotivo continua a generare sensazioni che rendono la persona impaurita e impotente nel presente, e così il corpo si congela e la mente si spegne.

Il cambiamento ha inizio con l’aprirsi alla propria esperienza interna, focalizzandosi sulle sensazioni e portando l’attenzione a come esse siano, di fatto, transitorie, poichè reagiscono a modifiche posturali minime, o a variazioni nella respirazione o a mutamenti del pensiero.

Dopo aver imparato a notare queste sensazioni fisiche è necessario imparare a chiamarle con il giusto nome es. “Quando sono ansioso, ho una sensazione di oppressione al petto”.

In questo modo possiamo guidare il paziente a stare su quella sensazione e notare cosa cambia se si fa un respiro profondo o se ci si abbandona ad un pianto.

È importante sentirsi capaci di poter esplorare e tollerare le proprie reazioni fisiche per poter “approdare” nel passato in modo sicuro.

Altro passo fondamentale in questo viaggio, sarà quello di osservare l’interrelazione tra i pensieri e le sensazioni fisiche. È inevitabile che pensieri diversi, creano sensazioni diversi, es “mio padre mi ama” o “la mia ragazza mi ha lasciata” hanno effetti diversi nel nostro corpo.

Perchè tutto questo possa avvenire in modo efficace è importante poter creare una buona relazione terapeutica in cui sentirsi al sicuro e concedersi di esplorare anche parti traumatizzate.

“Sicurezza e terrore sono incompatibili. Quando siamo terrorizzati, niente ci calma come la voce rassicurante o l’abbraccio deciso di qualcuno di cui ci fidiamo” (B. Van Der Kolk).

2. Supporto sociale:

Nel trattare il trauma, i contesti relazionali sono fondamentali: che siano famiglie, persone amate, gruppi di auto-aiuto, comunità religiose, psicoterapia, lo scopo è di dare sicurezza emotiva e fisica. È fondamentale riuscire a creare una ri-connessione con gli altri esseri umani, soprattutto quando si è stati vittima di traumi relazionali, quando chi doveva o diceva di amarci in realtà ci ha inflitto sofferenza e dolore.

Avere un sistema di supporto solido, che includa amici, familiari o gruppi di supporto è cruciale per la guarigione.

3. Tecniche di coping:

  • Mindfulness e meditazione: queste pratiche possono aiutare a radicare la persona nel presente, riducendo l’ansia e migliorando la consapevolezza del corpo e delle emozioni.
  • L’esercizio fisico: l’attività fisica regolare può aiutare a ridurre lo stress e migliorare l’umore;
  • Routine di auto-cura: prendersi cura di sè attraverso una buona alimentazione, sonno adeguato e altre pratiche di benessere.

4. Rielaborazione del significato:

  • Riflettere sull’esperienza: comprendere l’impatto del trauma sulla propria vita e cercare di dare un nuovo significato all’esperienza può aiutare a integrare il trauma in una narrazione personale più ampia.
  • Resilienza e crescita post-traumatica: Alcune persone trovano che lavorare attraverso il trauma porti a una maggiore resilienza e a una nuova comprensione di sé.                          

5. Interventi farmacologici:

  • Medicazione: In alcuni casi, i farmaci possono essere prescritti per gestire i sintomi di ansia, depressione o PTSD

Il percorso di elaborazione del trauma è spesso lungo e può richiedere un impegno costante. Ogni individuo è unico, quindi le strategie che funzionano per una persona potrebbero non essere efficaci per un’altra. È importante lavorare con professionisti qualificati per trovare il percorso di guarigione più adatto.

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

LA MEDITAZIONE METTA NEL PROTOCOLLO MBSR

La mia religione è la gentilezza

Dalai Lama

Nel protocollo di meditazione Mindfulness chiamato MBSR (mindfunell based stress reduction) ideato da Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni ’70 si pratica la meditazione Metta, ovvero dell’amorevole gentilezza.

La parola in lingua pali Metta ha due significati principali: uno corrisponde a benevolo. Essa è paragonata appunto a una pioggia lieve che cade sulla terra che non seleziona o sceglie, ma scende semplicemente senza discriminare.

L‘altro significato della parola Metta é amico. Il culmine della meditazione Metta é diventare veri amici di noi stessi e di tutte le forme di vita.
La pratica della meditazione Metta (che significa amorevole gentilezza ) è alla base della pratica della presenza mentale, poiché richiede lo stesso atteggiamento di rifiuto del giudizio e dell’attaccamento, un atteggiamento di accettazione nei riguardi del momento presente, un orientamento che invita a far posto alla calma, alla chiarezza della mente del cuore, alla compassione.
Secondo Jon kabat-Zinn la pratica della gentilezza amorevole è una disciplina ardua, non meno che prestare attenzione al proprio respiro, o osservare il corso del proprio pensiero.

Nel corso della nostra vita desideriamo essere amati, amare, e amare noi stessi. Purtroppo a causa della sofferenza tendiamo invece a percepirci come separati dagli altri e a isolarci per proteggerci. Buddha definì il cammino spirituale che conduce alla liberazione dalla sofferenza e all’uscita dall’isolamento come “la liberazione del cuore, che è amore”.
Praticando le meditazioni (brahma-vihara,) dell’amore, della compassione, della gioia compartecipe e dell’equanimità facciamo sì che l’amore, la compassione, la gioia compartecipe e l’equanimità costruiscano la nostra casa interiore.
Quando entriamo in contatto con la capacità di amare la luce si accende. La pratica di queste meditazioni è un modo per accendere la luce e per poi averne cura, è un processo di profonda trasformazione spirituale.

Possiamo accumulare esperienze e beni, possiamo cercare qualcosa che riteniamo di non avere e che ci renderà felici, ma la nostra felicità non nasce dall’accumulare e dal possedere dobbiamo cambiare idea su dove cercarla.
Secondo Buddha la felicità ordinaria viene dall’esperienza del piacere, la fugace soddisfazione di ottenere ciò che vogliamo, ma tale felicità è simile all’acquietamento temporaneo della fame. Questa felicità ordinaria è transitoria e porta con sé una tendenza nascosta alla solitudine e alla paura. Quando cerchiamo la felicità nel possedere e nell’accumulare ci procuriamo soltanto sofferenza.
Dobbiamo abbandonare il tentativo di controllare i cicli del piacere e del dolore, che sono incontrollabili, e imparare invece come connetterci, aprirci e amare indipendentemente da ciò che accade.

Ricordare alle cose la propria bellezza è l’essenza della Metta.
La meditazione di Metta è  la prima delle 4 brahma-vihara, le altre sorgono dalla Metta, che le sostiene e le amplia.
Quando nella vita proviamo paura e dolore queste creano distacco tra alcune parti di noi stessi. Quando queste esperienze di paure e dolore sono intense al punto da definirsi traumatiche creano una frammentazione di noi stessi, ci separiamo dentro di noi e ci sentiamo separati dalla nostra vita e dagli altri. Una mente spaventata può comunque essere penetrata dall’amorevole gentilezza, questo senso di amore che non è legato al desiderio e che non pretende che le cose siano diverse da quelle che sono, vince l’illusione dell’isolamento, di non essere parte di un tutto e vince la frammentazione interiore.
Metta diventa la capacità di accogliere tutte le parti di noi e del mondo.
Il risveglio dell’amore e la sensazione di unione non sono condizionate dal fatto che le cose vadano in un certo modo, poiché la Metta, non è dipendente né condizionata.
La pratica di Metta, che può sradicare la paura, la rabbia e la colpa, comincia con l’amicizia verso se stessi. Il suo fondamento consiste nell’imparare ad essere amici di se stessi.
La fiducia nella nostra innata capacità di dare amore rende possibile la coltivazione della Metta.

La meditazione di Metta si compone di frasi di gentilezza amorevole; che ci aiutano a cominciare ad essere amici di noi stessi.

Tradizionalmente all’inizio si usano quattro frasi:
” possa Io essere libero dal pericolo”
“possa Io essere felice”
“possa Io essere in salute”
“possa Io disporre dei beni indispensabili”.

Quando si pratica questa meditazione a volte emerge con forza un sentimento di indegnità e si possono vedere chiaramente le circostanze che limitano l’amore verso noi stessi. Quando questo accade si respira gentilmente e si accetta che questi sentimenti siano sorti, si richiama alla mente la bellezza del desiderio di essere felici e si ritorna alle frasi di Metta.

Partire da noi stessi è la base per offrire amore agli altri.

In seguita la Metta procede in modo strutturato e preciso: dopo averla offerta a noi stessi, ci spostiamo verso qualcuno che è stato buono con noi, verso le persone che amiamo, verso gli amici, verso chi ci ha fornito aiuto, verso un conoscente, un estraneo, verso gli esseri viventi tutti e poi ci si sposta verso coloro ai quali è più difficile indirizzare la Metta, ovvero verso chi ci ha fatti soffrire, ci ha traditi, delusi. In questo modo mettiamo in discussione i nostri limiti ed estendiamo la nostra capacità di benevolenza,

Qualunque sentimento momentaneo è meno potente degli auguri che facciamo, che sono dei semi de a tempo debito fruttificheranno.

Concludo riportando la parole di Sharon Salzberg, autrice de L’arte rivoluzionaria della gioia, edito da Ubaldini Editore:

la Metta è un tesoro che rallegra e porta all’intimità con noi stessi e con gli altri, è la forza dell’amore che condurrà oltre la frammentazione, la solitudine e la paura”.

 

Dott.ssa Luigina Pugno

Psicologa – Psicoterapeuta

​​TU CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI… 2.0: Inside out 2 e l’avvento delle emozioni secondarie in Adolescenza.

Nel nuovo sequel della pixar Inside out 2, ritroviamo la giovane protagonista Ryle, ormai 13enne alle prese con nuove emozioni che proprio caratterizzano l’avvento dell’adolescenza: Ansia, Imbarazzo, Invidia, Noia/Ennuie Nostalgia.

Nel primo film, Inside out, avevamo lasciato la protagonista 12enne che, a seguito del traumatico evento del trasferimento in una nuova città, aveva dovuto fare i conti con tutte le emozioni primarie: Gioia, Paura, Disgusto, Rabbia e soprattutto Tristezza.

Si è visto, dunque, in Inside Out, che solo accettando la tristezza per la separazione da ciò che non aveva più e che era nel passato, che la giovane Ryle, ha potuto accogliere la gioia per tutto quanto di nuovo stava capitando nella sua vita, nel presente; è solo accettando il cambiamento, il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza; accettando l’importanza di ogni emozione, che ha potuto riequilibrarle, ed essere di nuovo serena, d’altronde, come abbiamo ben visto: “Non c’è Gioia senza Tristezza”!

Nel sequel della Pixar, ritroviamo Ryle, alle prese con l’ormai imminente adolescenza e con il caos e la confusione che quest’ultima comporta, momento, che per l’età in cui avviene, si congiunge con un altro momento di transizione decisamente importante che è la fine del sicuro contesto delle scuole medie e l’inizio dell’incerto e sconosciuto periodo delle scuole superiori.

Vediamo, dunque, la protagonista alle prese con l’insidioso periodo definito Pubertà, che racchiude un momento di cambiamento, crescita e ridefinizione del senso di Sé che spesso può risultare davvero “cringe”.

La parola cardine di Inside out 2, sembra allora proprio essere Crescita, ed è proprio con la crescita e la confusione del periodo puberale che fanno l’avvento nella consolle amigdaliana altre emozioni quali appunto l’Ansia, l’Imbarazzo, l’Invidia e l’Ennui/Noia, e qualche comparsa qui e là di Nostalgia, definite anche emozioni secondarie.

Come sappiamo dagli studi di Ekman (2008) le emozioni si dividono in primarie e secondarie: sono emozioni primarie quelle che si esprimono con la stessa espressione facciale in qualsiasi popolazione e definite, pertanto, innate e universali: paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa (come appunto visto anche in Inside out).

Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

 A quanto pare, però, per quanto riguarda queste ultime, la nostra varietà emotiva sarebbe molto più ampia di quello che aveva riscontrato Ekman (2008) con i suoi studi sulle espressioni facciali; infatti, un recente studio della University of California, diretto da Alan S. Cowen e Dacher  Keltner (2017) e pubblicato su Pnas, aggiorna e amplia le emozioni fondamentali nell’essere umano, aggiungendo alle classiche  6 tipologie di emozioni, altre 21, per un totale di 27 tipologie distinte di emozioni: ammirazione, adorazione, apprezzamento estetico, divertimento, ansia, soggezione, imbarazzo, noia, calma, confusione, desiderio, disgusto, dolore empatico, estasi, invidia, eccitazione, paura, orrore, interessamento, gioia, nostalgia, amore, tristezza, soddisfazione, desiderio sessuale, simpatia, trionfo.

Si può comprendere, dunque, perché con una varietà così ampia di emozioni, nel periodo adolescenziale, ci si possa sentire in qualche modo confusi e turbati, e vada a modificarsi quello che finora era stato il Senso di Sé, mettendo in discussione molti valori che fino a quel momento erano stati di riferimento: la famiglia, gli amici, i progetti, i desideri; vengono stravolti e ridimensionati, concentrandosi solo su quella spasmodica ricerca del senso di Sé smarrito, che spesso può far risultare l’adolescente egoista e concentrato solo su sé stesso.

Ma, in realtà è un periodo, come ben espresso in Inside out 2, in cui, in questo sentiero smarrito della pubertà, l’Ansia prende il sopravvento sulle altre emozioni al punto da chiuderle in una teca, e relegarle negli sperduti meandri dell’inconscio.

Così, come Ryle nel weekend in cui dovrà mostrare tutto il suo valore sul campo per farsi accettare dalla nuova squadra di Hockey del liceo, l’adolescente, tra una storia su Instagram, un Tiktok e un BeReal, cerca di farsi accettare e mostrarsi più forte di quanto non sia; cerca dunque di nascondere la sua fragilità provando a reprimere le emozioni.

Ma, come diceva Freud (1886-1899) : “le emozioni inespresse non moriranno mai, restano sepolte vive e usciranno più tardi in un modo peggiore”!

Ed è qui che, infatti, come ben colto dalla Pixar, subentra lui, il famoso “Attacco di Panico”, dove tutte le emozioni cercano di prendere il sopravvento nella costruzione del senso di Sé, facendo sentire chi lo vive come in un vortice senza via di fuga.

Ma la via d’uscita c’è, e di fatto è solo nel momento in cui ogni emozione si placa per dare spazio all’altra che riescono ad equilibrarsi e l’attacco di panico va esaurendosi.

Ovviamente c’è dell’altro dietro all’attacco di panico, legato ai vissuti individuali, così come quello che Ryle vive in weekend, nella realtà dura anni, ma ben semplifica quanto accade in adolescenza e soprattutto negli adolescenti dell’attuale generazione Z che sembrano ben identificarsi in Ryle.

Un aspetto forse un po’ trascurato, In Inside Out 2 è il tipico rapporto conflittuale con i genitori che è molto importante, insieme al rapporto con i pari e la società nell’edificare quel famoso Senso di Sé e la futura personalità dell’adolescente che poi diviene un giovane adulto.

È importante, infatti, soprattutto in questa fase della vita, che l’adolescente possa avere la possibilità di essere accompagnato, con una distanza sufficientemente buona, da adulti che lo guidino e lo aiutino a leggere e capire cosa sta provando.

Questo perché come abbiamo visto, le emozioni vanno espresse, ma soprattutto vanno riconosciute, perché è solo attraverso il loro riconoscimento che siamo in grado di affrontarle e di gestirle: non è possibile gestire ciò che non si conosce.

È solo quindi attraverso un percorso di conoscenza di sé che è possibile vivere in armonia ed equilibrare le nostre emozioni.

Inside Out 2, come il primo film, offre una rappresentazione semplice ma efficace del complesso mondo emotivo degli adolescenti. Aiuta a comprendere l’importanza di riconoscere e accettare tutte le emozioni per vivere in armonia.

Questo è un messaggio fondamentale per psicoterapeuti, genitori e insegnanti, poiché il supporto emotivo e la guida sono essenziali per aiutare gli adolescenti a navigare in questo periodo di transizione.

 

Dott.ssa Monica Iuliano

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

 Ekman, P. (2008). Emotions Revealed: Recognizing Faces and Feelings to Improve Communication and Emotional Life. Henry Holt and Company.

 Cowen, A. S., & Keltner, D. (2017). Self-report captures 27 distinct categories of emotion bridged by continuous gradients. Proceedings of the National Academy of Sciences, 114(38), E7900-E7909.

 Freud, S. Citazione da: The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud.

L’IMPATTO DEI SOCIAL MEDIA SULLA SALUTE MENTALE

I social media hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare, informarci e
relazionarci. Sebbene offrano numerosi vantaggi, come la connessione globale e l’accesso immediato alle informazioni, i loro effetti sulla salute mentale sono oggetto di crescente dibattito e preoccupazione.

Numerosi studi hanno esaminato sia gli effetti positivi sia quelli negativi dei social media sul benessere mentale. È fondamentale sottolineare che i social media, di per sé, non sono né intrinsecamente buoni né cattivi: il loro impatto dipende dall’uso che ne viene fatto.

Analizziamo in dettaglio come questi strumenti influenzano il nostro benessere psicologico.
Le piattaforme sociali hanno introdotto un’era di condivisione globale, inizialmente vista come una rivoluzione positiva capace di diffondere un’elevata quantità di informazioni rapidamente. Tuttavia, con il tempo, le aspettative di un cyber-villaggio globale prospero e sicuro si sono scontrate con una realtà più complessa, probabilmente di pari passo con una progressiva regressione involutiva della società. Il lato oscuro della Rete è emerso, portando a effetti collaterali significativi che hanno portato ad una profonda metamorfosi negativa dei social media. Secondo il Report Digital del 2022 di We Are Social, gli utenti dei social media hanno raggiunto 462 miliardi, rappresentando circa il 58,4% della popolazione mondiale, un aumento
considerevole rispetto ai 148 miliardi di utenti rilevati nel 2012. Questo incremento costante richiede una riflessione approfondita sul loro effettivo impatto nella vita delle persone e sulla loro salute psicologica.

I giovani, specialmente gli adolescenti e i giovani adulti, sono tra i principali utilizzatori dei social media. Diversi studi indicano che l’uso intensivo di queste piattaforme può avere sia effetti positivi che negativi sulla salute mentale. Infatti, queste nuove tecnologie creano connessione sociale: permettono di mantenere i contatti con amici e familiari, specialmente durante periodi di isolamento o distanza fisica. Danno loro la possibilità anche di creare una rete di persone, di mantenerla viva e solida nel tempo, attraverso lo scambio assiduo di immagini, video, giochi, audio e messaggi, alimentando il senso di appartenenza a qualcosa.
A livello psicologico l’avvento e l’aumento dei contatti online ha dato vita a quello che viene definito Digital Emotion Regulation , ovvero l’atto di regolare le proprie emozioni grazie alla tecnologia, attraverso gli ambienti digitali.        Le piattaforme come Instagram, Youtube, Facebook o Twitch offrono spazi liberi dove i giovani possono condividere le loro esperienze, ricevere supporto emotivo, aumentare il loro livello di autostima personale e professionale. E’ indubbio che il filtro del “non dal vivo” permette anche alle persone con più difficoltà sociali di intraprendere azioni più comunicative con altri utenti, innalzando così il livello di benessere psicologico. Infine, non possiamo non
renderci conto che l’uso corretto dei social permette di restare aggiornati, informarsi velocemente sulle notizie del mondo, stimolare la creatività, imparare cose nuove in modo gratuito e pratico, lavorare in modo più fluido, anche con altri Paesi.
Pur senza dimenticare del tutto i progressi e i benefici esistenti con l’avvento di
Internet e dei social media, stanno proliferando con sempre maggiore frequenza studi finalizzati a elaborare tecniche in grado di analizzare le variazioni che l’uso dei social media provoca sull’umore e sulle emozioni delle persone. L’effetto “tossico” delle piattaforme sociali si manifesta attraverso la stimolazione della dopamina, che come “una sostanza chimica” funge da neurotrasmettitore per creare una dipendenza continua (addirittura paragonabile a quella provocata da alcol e sigarette). Ne
consegue che, oltre all’incremento esponenziale dei comuni sintomi di ansia,
depressione e senso di inadeguatezza, talvolta si manifestano anche più violenti atteggiamenti di aggressività o offensività nei contenuti condivisi online, che portano spesso al cyber-bullismo, frutto di una percezione distopica di immagini modificate dai numerosi filtri in grado di alterare la realtà rispetto alla fittizia apparenza della rete. C’è un desiderio di attenzione continua, una sorta di “gratificazione sociale” misurata
mediante la visualizzazione del numero di “likes” e di commenti ricevuti; questa dimensione mantiene sempre in condizioni di elevata ipereccitazione e porta le persone ad aggiornare continuamente i propri profili.
Altro aspetto da sottolineare, sulla base di quanto affermato dall’MIT e rispetto all’utilizzo generalizzato e pervasivo dei social media, esiste un rilevante problema strutturale alimentato dal cosiddetto “contagio emotivo ” che tali piattaforme generano sull’umore degli utenti, mutevole “a seconda della versione del prodotto cui sono esposti”. Lo scopo dei gestori è quello di massimizzare il tempo trascorso online e catalizzare un costante coinvolgimento interattivo, spesso a costo di creare dipendenza
psicologica. Il dilagante fenomeno emulativo di atti di autolesionismo che ha persino portato a casi di suicidio, ne è un esempio.
Sono questi, dunque, i tratti preoccupanti del lato oscuro della rete che sembrano delineare una vera e propria sindrome patologica da paura di essere disconnessi e di perdersi online (cd. “Fear of Missing Out” – acronimo FOMO) strettamente connessa all’inedito paradigma “Digito ergo sum”, come nuova dipendenza configurabile nell’ambito dei disturbi comportamentali e cognitivi provocati dall’uso eccessivo di Internet (cd. “Internet Addiction Disorder”) declinabile anche come “Smartphone Addiction”. L’obiettivo degli studi e delle ricerche sul campo è quello di limitare, o almeno provare ad arginare gli effetti negativi dell’uso errato dei social, al fine di
valorizzarne le potenzialità e le opportunità. Per fare questo è necessario che vi sia un controllo, fa parte dei più grandi nei confronti dei più piccoli, che nascono già bombardati da mille informazioni e schermi. Stabilire limiti di tempo per l’uso dei social media può aiutare a ridurre la componente di dipendenza, nonché migliorare la qualità del sonno e della salute psicofisica; senza escludere a propri le connessioni online è importante sensibilizzare e investire anche su relazioni “dal vivo”, al fine di mitigare l’effetto di isolamento sociale. La mission di tutti noi dovrebbe essere quella di promuovere un uso consapevole e critico dei social media, delle connessioni e della Rete in generale, perché può contribuire a migliorare il benessere complessivo degli
individui, e di traverso della società che è sempre più digital ed pericolosa.

 

Dott.ssa Caterina Marini

Psicologa – Psicoterapeuta

OSSESSIONE TRUE CRIME: PERCHE’ SIAMO COSI’ ATTRATTI DAI CRIMINI?

Il genere true crime, che narra crimini realmente accaduti in forma narrativa e letteraria, ha origini lontane. Nasce in Gran Bretagna tra il 1550 e il 1700 con resoconti di omicidi stampati su fascicoletti e ballate che raccontavano storie di criminali famosi destinate a intrattenere la borghesia.

Nell’Ottocento, con l’aumento dell’alfabetizzazione, anche le persone comuni iniziarono a leggere storie vere di crimini sui giornali. Autori come Charles Dickens e Thomas De Quincey si interessarono al genere, storie sensazionalistiche venivano vendute a puntate e uscirono i primi romanzi polizieschi. Nel 1966 Truman Capote scrisse “A sangue freddo” raccontando il massacro di una famiglia in Kansas e il processo agli assassini. Il libro rivoluzionò il true crime, facendolo entrare di fatto nella letteratura, e insistendo molto sul punto di vista dei presunti criminali. Autori come James Ellroy e Emmanuel Carrère seguirono le sue orme, narrando casi di cronaca nera con uno stile letterario.

In Italia, il true crime è presente in riviste come Cronaca Vera e programmi televisivi come Storie Maledette di Franca Leosini. Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo e Roberto Saviano hanno raccontato storie criminali in libri e programmi TV, contribuendo a diffondere il genere anche nel nostro paese, fino ad arrivare al podcast Elisa True Crime, il più ascoltato in Italia nel 2023.

 

Ma cos’è esattamente il true crime e perché ne siamo così affascinati?

Prima di tutto, il true crime si riferisce a storie reali di crimini, investigazioni e processi giudiziari. Queste storie sono spesso ricche di suspense e mistero, due elementi che ci attraggono profondamente. Chi di noi non ama un buon mistero da risolvere? Le storie di crimini veri ci portano in un mondo oscuro e complesso, dove possiamo esplorare le profondità della mente umana e le dinamiche che portano a comportamenti estremi.

Un altro motivo per cui siamo così attratti dal true crime è la nostra curiosità innata per la psicologia umana: vogliamo capire cosa spinge una persona a commettere un crimine. Che cosa succede nella mente di un criminale? Quali sono le circostanze che portano una persona apparentemente normale a fare qualcosa di terribile?

Questa curiosità non è solo una semplice fascinazione morbosa; è un desiderio profondo di comprendere le complessità del comportamento umano. La psicologia criminale ci permette di esplorare concetti come la moralità, il bene e il male, e come fattori come l’infanzia, le esperienze traumatiche e i disturbi mentali possano influenzare le azioni di una persona. Attraverso le storie di true crime, possiamo anche riflettere su noi stessi e sui nostri comportamenti, ponendoci domande difficili: “Cosa avrei fatto io in quella situazione?” o “Potrebbe succedere anche a me?”

Un’altra dimensione del nostro interesse per il true crime è il senso di controllo che queste storie possono offrire. Viviamo in un mondo che spesso può sembrare caotico e imprevedibile. Le storie di crimini reali ci permettono di vedere il funzionamento del sistema giudiziario, come vengono risolti i crimini e come i colpevoli vengono puniti. Questo processo può darci un senso di ordine e giustizia.

Infine, sapere come e perché si verificano certi crimini può aiutarci a sentirci più preparati e meno vulnerabili. È come se, attraverso la comprensione dei meccanismi del crimine, potessimo proteggere meglio noi stessi e i nostri cari. Questo senso di controllo, anche se parziale, può essere rassicurante.

 

Negli ultimi anni, però, l’avvento dei media digitali ha amplificato enormemente la nostra esposizione al true crime. Oggi, con pochi clic, possiamo accedere a una vasta gamma di contenuti: dai documentari sui principali servizi di streaming, ai podcast che raccontano in dettaglio casi famosi e meno conosciuti, fino ai libri digitali che possiamo leggere ovunque ci troviamo. Questa accessibilità ha reso il true crime una parte integrante della nostra cultura popolare.

Nel mentre, la qualità delle produzioni moderne è cresciuta tantissimo: i documentari e i podcast di oggi sono spesso ben scritti, accuratamente ricercati e presentati in modo coinvolgente. Gli autori e i produttori sanno come tenere alta la nostra attenzione, raccontando storie in modo che risultino non solo informative, ma anche emozionanti.

 

Implicazioni Psicologiche

 

Proprio considerando il grande successo che il true crime sta raccogliendo, dobbiamo essere consapevoli delle possibili implicazioni psicologiche di un’eccessiva esposizione ad esso.

Alcuni studi suggeriscono che guardare o ascoltare troppe storie di crimini violenti può aumentare i livelli di ansia e paura. Potremmo iniziare a vedere il mondo come un luogo più pericoloso di quanto non sia realmente. Questo fenomeno è noto come la “sindrome del mondo cattivo”, espressione coniata dal ricercatore di comunicazione George Gerbner.

Il concetto è parte della sua “teoria della coltivazione”, che esplora gli effetti a lungo termine dell’esposizione ai media, in particolare alla televisione. La sindrome del mondo cattivo si riferisce alla percezione distorta della realtà che può svilupparsi in persone che sono esposte a un alto volume di contenuti violenti nei media.

Secondo Gerbner, le persone che guardano molta televisione tendono a vedere il mondo come più pericoloso e violento di quanto non sia realmente. La costante esposizione a contenuti violenti, sia attraverso notizie, serie TV o film, può portarci a sovrastimare la prevalenza della criminalità e della violenza nella vita reale. Questo fenomeno influisce sul nostro comportamento e sulle nostre decisioni quotidiane, rendendoci più diffidenti, timorosi e inclini a percepire situazioni innocue come potenzialmente pericolose.

Ma fin dove possono arrivare i sintomi di una sovraesposizione al true crime?

Alcuni dei sintomi includono:

Ansia aumentata: la costante esposizione a storie di violenza e crimine può farci sentire più ansiosi riguardo alla nostra sicurezza personale e a quella dei nostri cari.
Disturbi del sonno: pensare continuamente a storie di crimini violenti può interferire con la nostra capacità di rilassarci e dormire bene.
Desensibilizzazione: con il tempo, potremmo diventare meno sensibili alla violenza e alla sofferenza delle vittime, vedendo la violenza come qualcosa di normale o inevitabile.
Ossessione: potremmo sviluppare un interesse ossessivo per i dettagli di casi criminali, dedicando un tempo eccessivo alla ricerca di informazioni, arrivando a trascurare altre attività importanti della nostra vita.
Paura generalizzata: un’esposizione prolungata può portarci a vedere pericoli ovunque, limitando la nostra capacità di godere delle attività quotidiane e riducendo la nostra qualità di vita.

Allora, come possiamo bilanciare il nostro interesse per il truecrime con la nostra salute mentale? La chiave è il consumo consapevole. Dobbiamo essere attenti ai segnali del nostro corpo e della nostra mente. Se ci sentiamo sopraffatti o ansiosi, potrebbe essere il momento di fare una pausa. È utile alternare i contenuti di true crime con altri generi che possono rilassarci o ispirarci, come commedie, documentari sulla natura o programmi di auto-aiuto.

In conclusione, il nostro interesse per il true crime può dirci molto su noi stessi: sulla nostra curiosità, sul nostro desiderio di capire il mondo e sulla nostra ricerca di storie che ci affascinano e ci coinvolgono. Ma, come per tutte le cose, è essenziale consumare questi contenuti in modo responsabile, prestando attenzione alla nostra salute mentale e benessere emotivo.

 

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

 

 

NOMOFOBIA: LA PAURA DI ESSERE “DISCONNESSI”

Nel corso degli ultimi 20 anni i telefoni cellulari sono diventati una presenza sempre più importante nella vita di ciascuno di noi. Se negli anni 2000 i cellulari ci permettevano unicamente di telefonare e scambiare qualche sms, ad oggi sono dei veri e propri computer in cui ognuno di noi racchiude la propria vita. Sullo smartphone abbiamo l’agenda, la carta di credito, la mail e, non ultimi i social, tanto che sembra diventato impossibile farne a meno. Per tutti i motivi sopraelencati, sarà capitato a chiunque di sentire una vena di paura all’idea di non trovare il cellulare, con conseguente apertura di scenari sulla perdita, o magari il furto, di dati, contatti, account, ecc.

Quando però questa paura diventa qualcosa di più profondo, prende il nome di nomofobia (No Mobile Phobia). Recentemente questo termine è stato aggiunto anche al dizionario della lingua italiana Zingarelli, ad indicare che tale fenomeno è in grande espansione.

Ma come si riconosce la nomofobia? Questo termine indica una vera e propria dipendenza da smartphone e si caratterizza con sintomi simili a quelli dell’attacco di panico ogni qualvolta il soggetto non ha a disposizione il cellulare, oppure non ha credito o la possibilità di accedere ad internet. Le manifestazioni sintomatiche possono comprendere:

tachicardia

affanno

mancanza di respiro

sudorazione

tremori

nausea

dolore toracico.

Le persone affette da nomofobia vivono in uno stato di costante allerta e, per evitare di non avere il telefono a disposizione, mettono in atto una serie di comportamenti compensativi, come controllare continuamente lo stato della batteria, il credito e la disponibilità di dati, portare con sé caricabatterie o powerbank o girare con un telefono “di scorta”; se ci pensiamo questo atteggiamento ricorda ad esempio quello di un fumatore incallito, che farà sempre attenzione a non restare senza sigarette onde evitare di sperimentare una forte ansia.

In chi soffre di nomofobia si possono inoltre riscontrare le seguenti caratteristiche comportamentali:

Utilizzo dello smartphone in luoghi o momenti poco appropriati;
Passare una quantità eccessiva di tempo al telefono (social, video, giochi, ecc.);
Monitoraggio costante del telefono per controllare l’arrivo di eventuali notifiche;
Andare a dormire col telefono o il tablet;
Tenere lo smartphone acceso 24/24 h;
Tenere sempre sotto controllo il credito e lo stato della batteria.

In definitiva, la nomofobia si caratterizza per il terrore di essere disconnessi.

Per quanto tale fenomeno possa sembrare recentissimo, già nel 2008 uno studio commissionato dal governo britannico tra i cittadini in possesso di un telefono cellulare rilevava dati allarmanti: circa il 58% degli uomini e il 47% delle donne manifestavano una forte ansia all’idea di essere “disconnessi” dai propri dispositivi.

Nonostante tale dipendenza sia ormai dilagante, attualmente non esistono molti trattamenti specifici e i pochi a disposizione comprendono la psicoterapia ad orientamento cognitivo comportamentale e, in casi gravi, il ricorso a terapie farmacologiche.

L’obiettivo dei trattamenti è specificamente il riavvicinare il soggetto alla vita reale e ai contatti faccia a faccia, distogliendo per quanto possibile l’attenzione dalla realtà virtuale in cui il soggetto è costantemente immerso.

Le persone affette da nomofobia dovrebbero dedicare tempo, ogni giorno, ad attività che non richiedano l’uso di supporti tecnologici, come leggere un libro o fare attività fisica. E’ importante che ci siano dei momenti della giornata in cui non è concesso l’uso del cellulare, come l’orario dei pasti o prima di andare a dormire.

Può essere utile disattivare le notifiche delle applicazioni meno importanti, così da limitare lo stato di allerta e l’ansia da mancata risposta.

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta