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IL LUTTO COME ESPERIENZA DI VITA

Tutti noi nella vita, prima o poi, ci troviamo a fare i conti con il terribile dolore per la morte di una persona cara, a noi vicina.

Leonardo Sciascia, il celebre scrittore del Novecento, annunciava:

“La morte è terribile, non per il non esserci più, ma al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, di mutevoli pensieri che restano”.

La tristezza, il dispiacere, il dolore per la perdita apre molti interrogativi a cui non riusciamo, sempre, a trovare una risposta: “Riuscirò a sopportare la sua assenza?”, “Mi dimenticherò di lui/lei?”, “Quanto durerà tutto questo?”, “Tornerò ad essere di nuovo felice?”.

La morte di una persona cara ci fa cadere nel triste vortice del lutto (dal latino lugere = piangere, dolersi) e non sempre sentiamo di avere i mezzi per superare un evento della vita che ci accomuna.

In cosa consiste il lutto?

 

Perdere una persona, inevitabilmente innesca un processo di cambiamento che crea una temporanea disorganizzazione dell’individuo e del sistema familiare. Chi lo vive si trova ad attraversare diverse fasi che la psichiatra Elisabeth Kubler Ross, nel 1970, ha individuato in 5.

Si parla di fasi e non di stadi proprio perché le fasi possono ripresentarsi più volte e alternarsi con varia intensità e senza un ordine preciso.

– Negazione o rifiuto —> di solito caratterizza i primi giorni, quando vengono messi in atto meccanismi di difesa di negazione. In questa fase le frasi più frequenti sono “non ci credo”, “non è possibile”.

– Rabbia —>. in questa fase si manifestano emozioni forti quali rabbia, paura che vengono orientati indistintamente a tutti (familiari, se stessi, medici, la persona cara scomparsa).

– Contrattazione o patteggiamento —> si crea una sorta di negoziazione con amici, familiari, figure religiose, o se stessi “prometto che…” “ Oh mio Dio se starò meglio farò…”. La persona inizia a riprendere il controllo della sua vita, a rivalutare le proprie risorse e a riacquistare l’esame di realtà.

– Depressione —> è la fase della disperazione e spesso coincide con il momento in cui si cerca un aiuto, anche psicologico per superare questo lutto.

– Accettazione —> quando il paziente elabora quanto è accaduto intorno a lui, avviene

un’accettazione della propria nuova condizione.

Per quanto la morte sia una certezza nelle nostre fugaci vite, non sempre l’elaborazione di essa è così naturale e serena, non sempre la rassegnazione è possibile e non sempre siamo in grado di abbracciarla con facilità.

Esistono elaborazioni del lutto complicate, definiti lutti patologici, dove il lavoro verso l’accettazione e la rassegnazione, che ci conduce a “lasciar andare” la persona cara, non è sempre così immediata.

In che modo una psicoterapia può essere d’aiuto?

In psicoterapia si usano le parole, e proprio le parole permettono di trasferire le esperienze vissute in linguaggio e consentono di rendere possibile l’integrazione di sentimenti e di pensieri. E’con le parole che diamo un senso al mondo e, di conseguenza, al nostro mondo interiore.

  

Attraverso una narrazione guidata da un professionista è possibile esprimere la perdita, mettere a fuoco le emozioni che pervadono le nostre giornate (rabbia, colpa, ansia, impotenza, tristezza).

Ovviamente perché questo possa avvenire bisognerà parlare della morte, un termine che spesso non utilizziamo, un concetto che vogliamo tenere lontano da noi perché è forte, fa paura, è un tabù sociale.

Si parlerà del passato, quando la persona defunta era ancora in vita, si scaverà nel legame che era presente tra i due, si riattiveranno i ricordi per giungere ad esplorare le proprie risorse interne come risposta a tutto ciò, come risposta alla morte.

Una condizione di lutto non deve essere subita, non siamo passivi a questo, ma deve venir “attraversata”, magari lasciandoci guidare da un professionista, ma con la consapevolezza che si può andare oltre.

 

Dott.ssa Sonia Allegro 

Psicologa – Psicoterapeuta

ANCHE LA TRISTEZZA È INDISPENSABILE

Il sole, le vacanze, il dolce far niente… in estate ci si sente come obbligati ad essere felici. E anche il resto dell’anno, soprattutto condizionati dai mass media, dagli influencers, si vive una certa imposizione alla felicità.

E se, invece, essere infelici di tanto in tanto desse un senso alla vita? Se contribuisse a legarci agli altri, a renderci “più umani”? L’arte di vivere consiste anche nel fare spazio alla sventura e al dolore, divenuti tabù e indesiderabili nelle nostre società. Perché, subordinatamente al diktat dell’efficienza, i disturbi della felicità e le loro processioni di lacrime non fanno parte della dinamica dei vincitori.

E se, paradossalmente, le prove della vita, creando significato e connessione, potessero essere anche fonte di felicità?

FELICITA’ MATERIALE VS FELICITA’ AUTENTICA

Vacanze, feste, progetti da sogno… la società ha la tendenza a volerci far credere che tutti siano perfettamente felici. E invece, gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri non hanno mai avuto così tanto lavoro. Il fatto è che noi siamo preoccupati da una definizione di felicità che è piuttosto materiale, che a che fare con il successo e la perfezione, mentre la felicità autentica è più profonda, più duraturacreare una vita ricca, piena e significativa… con l’altro.

ESSERE CON L’ALTRO

Viviamo in una società individualista, intrisa dall’ossessione della ricerca della felicità. Ma la felicità è legata agli altri, all’essere insieme. E che la tristezza ha la sua importanza. Senza riferirci ai grandi traumi che possiamo attraversare, tutti i giorni della nostra vita viviamo piccole cose imperfette che ci rendono tristi. Allora se ne parla agli altri, ai familiari, agli amici. Ed è che si crea la felicità, questo legame profondo con gli altri, vero e autentico. Ci si sente ascoltati dall’altro, compresi. L’altro sente di aiutarci. E così, entrambi, ci sentiamo più felici.

IL SENSO DELLA VITA

Si corre, a volte, tutta la vita incontro all’idea che la felicità si costruisca facendo cose, raggiungendo obiettivi (lavoro, matrimonio, figli, la pensione...). Ora, il punto non è di cercare la felicità a tutti i costi, ma di trovare un senso alla vita. Prendersi cura degli altri, dividere la felicità con l’altro, solo questo genera una felicità vera, durevole e autentica. E sono proprio le cose sgradevoli o tristi che ci incitano a legarci agli altri.

LA TRISTEZZA È NORMALE

L’essere umano non ha voglia di vivere le emozioni sgradevoli, le vede subito come dei problemi, le evita, eppure sono emozioni normali, naturali e hanno una funzione biologica ed evolutiva. La tristezza ci lega agli altri. Senza questa relazione profonda e vera con l’altro, non si può essere felici. Si ha tutto materialmente ma si ha una sensazione di vuoto, di niente. Prendersi cura dell’altro dona senso, la relazione è alla base della nostra vita terrena.

PIU’ FORTI INSIEME

Si ha la tendenza a pensare che essere tristi o mostrarsi infelici di fronte agli altri renda vulnerabili. La nostra cultura, spesso, ci porta a considerare la tristezza come un qualcosa che è meglio nascondere, non mostrare. Questo perché si ha in mente un ideale di “uomo che si fa da sé” che è totalmente illusorio. Tutto quello che l’uomo ha costruito nella storia dell’umanità, l’ha fatto insieme a qualcuno. Sfortunatamente, nel corso di questi ultimi due anni, non abbiamo potuto essere insieme e con la morte che bussava alle nostre finestre con il Covid… ci si è allontanati dagli altri. Ma anche la morte partecipa a dare un senso alla nostra vita, perché ci permette di legarci agli altri, di fare dei rituali insieme, di condividere, di raccontarsi cose, di connettersi. Quindi di creare felicità. Si ha bisogno dell’altro quando si è felici, certo, ma soprattutto quando si è tristi.

Dott.ssa Giulia Giacone

Psicologa-psicoterapeuta

Per approfondire:

De Wachter, D., Cyrulnik, B., Michel, N. (2021). L’Art d’êtremalheureux. La Martinière editore.
Harris, R. (2010). La trappola della felicità. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere. Erikson editore, Trento.