Mese: <span>Dicembre 2020</span>

Gender non conformity: una guida ai nuovi termini dell’identità di genere

Sta diventando sempre più frequente sentire o leggere su media di vario tipo nuovi termini utilizzati per parlare di genere o sessualità. E non è facilissimo restare al passo e capire di che cosa si stia parlando senza farsi delle gaffe o rischiare di urtare la sensibilità di qualcuno.

È sempre più chiaro che l’identità sessuale, la percezione che le persone hanno di sé come individui sessuati, sta diventando un concetto più complesso di un tempo. In effetti, si tratta di un costrutto multidimensionale composto da sesso biologico, ruolo di genere, identità di genere, orientamento sessuale e affettivo e fare confusione è facile.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza e a scoprire il significato di parole come “cisgender”, “agender”, “non-binary”, ecc., che stanno diventando molto comuni.

Nel vocabolario, il sesso biologico è “la categoria anatomo-biologica di appartenenza in base alla quale si può essere femmina, maschio, o intersessuali (cioè con caratteri maschili e femminili). Il sesso è determinato dall’interazione tra cromosomi e ormoni”.

Pertanto, il sesso è un carattere biologico che viene determinato alla nascita, ma non è solo binario. Oltre a maschile e femminile, ci sono decine di condizioni anatomiche per cui i genitali interni e esterni si presentano ambigui. Le persone intersessuali presentano questa condizione alla nascita: sono dotati di alcuni caratteri maschili o femminili non concordanti tra loro. L’intersessualità interessa l’1,9 % della popolazione ed una volta veniva identificata col termine ermafroditismo. Tuttavia, un ermafrodita dovrebbe possedere entrambi gli organi sessuali, maschili e femminili, perfettamente funzionanti e tale condizione è impossibile per gli umani. Il termine è stato dunque rivisto come pseudo-ermafroditismo e poi sostituito con intersessualità. Ad oggi, si sta ancora cercando un vocabolo migliore.

L’intersessualità talvolta comporta dei rischi per la salute del bambino, dunque si procede chirurgicamente ad assegnare un sesso cercando di mantenere lo sviluppo congruente al genere assegnato.

Anche in questi casi, pertanto, quando parliamo del sesso di una persona, intendiamo la categoria che gli è stata assegnata alla nascita dai medici rispetto ai genitali esterni.

Non sempre, però, il sesso assegnato corrisponde al genere a cui la persona sente di appartenere.

Recentemente, gli attivisti intersessuali combattono per richiedere che non si intervenga chirurgicamente quando non necessario e che si lasci alla persona la possibilità di autodeterminarsi in età adulta.

Il ruolo di genere viene definito come “il ruolo pubblico vissuto e generalmente riconosciuto dal punto di vista legale come bambina o bambino, ragazza o ragazzo, uomo o donna, frutto dell’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali”.
In pratica è l’esternalizzazione della propria identità di genere (modo di vestire e atteggiarsi, ecc.) ed è un costrutto socioculturale: ogni società individua dei comportamenti, dei ruoli e delle attività che ritiene appropriati per maschi e femmine.

Al giorno d’oggi, si tenta di superare gli stereotipi sociali legati al genere maschile e femminile, affermando che entrambi vanno trattati allo stesso modo senza creare rigidità (ad esempio, vestire di rosa le femmine o vietare ai bambini maschi di giocare con le bambole) e si considera che alcuni si sentono una via di mezzo tra queste due categorie o non si identificano con nessuna delle due.

Solitamente, come dicevamo, viene dato per scontato che il senso interno e privato del genere esperito sia coerente al sesso biologico (condizione detta cisgender). Eppure, non è automatico che l’identità di genere sia cisgender, essa potrebbe, ad esempio, essere anche transgender o non-binary.

L’identità di genere è proprio la percezione profonda del proprio genere e risponde alla domanda: “Chi sono?” È il senso soggettivo di appartenenza alle categorie di maschile o di femminile o altro.
Esempi: sono una donna, sono un uomo, sono transgender, non-binary, ecc.

Dunque, se il ruolo di genere identifica un insieme di aspettative sociali e culturali rispetto a ciò che chi appartiene ad un determinato sesso biologico deve fare, l’identità di genere indica un modo di percepire sé stessi nel profondo che non può essere modificato da interventi esterni.

Parlando di identità di genere, è utile introdurre anche il concetto di disforia di genere. Il manuale diagnostico psichiatrico DSM-V la definisce come “la sofferenza che deriva dall’incongruenza tra il genere percepito e quello assegnato alla nascita”.

La disforia porta a vivere con un senso di estraneità e sofferenza la propria appartenenza sessuale anatomica e il ruolo di genere ad essa associato. La sensazione è quella di essere imprigionati in un corpo che non risponde al proprio sentire.

È da sottolineare che la disforia di genere, benché sia inserita nel DSM-V, non è considerata una malattia, bensì, appunto, una condizione di grande sofferenza conseguente ad una varianza di genere. Pertanto, le persone colpite dalla disforia, non vanno curate ma aiutate a modificare ciò che crea la loro sofferenza.

Le persone che hanno cominciato e non ancora portato a termine il loro percorso di transizione (ormonale/chirurgico), che le condurrà ad acquisire l’identità sociale/sessuale del proprio genere, si chiamano transessuali.

L’orientamento sessuale e affettivo si riferisce all’attrazione affettivo-sessuale di una persona nei confronti di un’altra. Gli orientamenti sessuali sono diversi e sono ad oggi considerati come normali varianti della sessualità.  Tra i più conosciuti troviamo l’orientamento eterosessuale, omosessuale e bisessuale ma ci sono anche persone asessuali e polisessuali, ecc.

Risponde alla domanda “Chi mi piace?” e viene definito come ciò che “indica il genere e le caratteristiche sessuali dell’oggetto dell’attrazione erotico-affettiva”.
È un concetto che non ha niente a che vedere con l’identità di genere e non si può quindi dare per scontato l’orientamento in base al genere (chi si identifica come donna, non è necessariamente eterosessuale; chi si identifica come transgender non è necessariamente omosessuale e così via).

A partire da questi concetti, si sono create nel tempo tutta una serie di parole per indicare l’esperienza multiforme e sfaccettata di ognuno.

Cerchiamo di spiegarne alcune.

Eterosessuale

L’individuo che sessualmente si sente attratto esclusivamente dall’altro sesso.

Omosessuale

L’individuo che sessualmente si sente attratto esclusivamente dal proprio stesso sesso.

Bisessuale

L’individuo che prova attrazione per persone di entrambi i sessi.

Asessuale

L’individuo che non prova attrazione verso nessun genere e/o verso la sessualità. L’asessualità viene definita anche come mancanza di orientamento sessuale. Gli individui asessuali possono o meno avvertire il desiderio sessuale e possono o meno attuare pratiche sessuali.

Polisessuale

La persona polisessuale può provare attrazione per più generi oltre a quello maschile e femminile, dunque anche generi non-binary, ma non per tutti.

Pansessuale

Persona che prova attrazione verso un altro individuo senza dare importanza al suo sesso o genere di appartenenza.

LGBT(QI)

È una sigla “cappello” che riunisce sotto di sé lesbiche, gay, bisessuali e transgender. Ultimamente è facile trovarla con in coda una q per queer (tutti coloro che non si riconoscono nell’identità “straight”, che indica gli eterosessuali) o una i per intersessuali (come abbiamo visto sopra, persone con alcuni caratteri sia maschili che femminili)

Cisgender

Indica le persone che si identificano nel loro genere di nascita: nei cisgender identità di genere e sesso biologico e ruolo sociale (come gli altri individui li considerano) corrispondono.

Transgender

Una persona che assume un’identità di genere diversa da quella attribuita alla nascita (è un concetto più ampio che include quello di transessuale).
Si oppone a cisgender.

Transessuale

Una persona che altera il proprio corpo chirurgicamente e sul piano ormonale per allinearlo alla sua identità di genere più profonda.

Ci si rivolge alle persone transgender e transessuali utilizzando il pronome corrispondente alla loro identità di genere e non al loro sesso biologico.

Inoltre, una transizione dal genere maschile a quello femminile si indica con MTF (male to female) e, viceversa, la transizione dal genere maschile a quello femminile si indica con FTM (female to male).

Non-binary

Indica una persona che non si riconosce nell’idea che esistano solo due generi, maschile o femminile. Le persone non-binary non si sentono nate nel corpo sbagliato (anche se potrebbero voler modificare alcuni aspetti), anzi, spesso armonizzano caratteri legati al genere maschile o femminile. Gender queer è un altro modo di indicare le persone non-binary e rende l’idea di un’identità di genere dinamica e in continua evoluzione. La comprensione che le persone maturano del proprio genere è complessa, può variare nel tempo e può includere infinite possibilità oltre al maschile e femminile.

Genderfluid

È un concetto che sta sotto al cappello non-binary e indica una persona che percepisce il suo genere in modo fluido, accettando che possa cambiare nel tempo o a seconda delle situazioni.

Una persona genderfluid può, in qualsiasi momento, identificarsi come maschio, femmina, genere neutro o qualsiasi altra identità non binaria.

Di solito, per indicare persone genderfluid si usano pronomi neutrali come they/them in inglese. In italiano non esiste il neutro e la questione è molto dibattuta. La cosa più comune per ora è che la persona interessata proponga da sé i pronomi dai quali si sente più rappresentata.

Agender

Indica una persona che non si identifica in nessun genere. Letteralmente, “senza genere”.

Fonte: pasionaria.it

Non ci ancora molti studi psicologici sulle persone non-binary ma, quelli che ci sono, indicano più alti livelli di sintomatologia ansiosa e depressiva, rispetto alle persone transessuali o cisgender.

Queste persone riportano più alti tassi di discriminazione e di molestie e anche un rischio suicidario molto più elevato rispetto alla popolazione generale.

Il disagio psicologico è dovuto proprio allo stress di subire lo stigma sociale ed esperienze di violenza, molestie o rifiuto che possono intaccare la sintonia con la propria identità e portare a nasconderla. Il rifiuto, percepito o temuto, da parte della famiglia è quello che ha il peso maggiore e può aumentare notevolmente il rischio suicidario.

A questo si aggiunge la difficoltà di trovare un riconoscimento all’interno di una società che fatica a lasciare spazio anche ad identità non binarie. Dai negozi, ai servizi pubblici, al linguaggio, la società odierna è impostata su una visione cisgender.
Sarà interessante notare che, nel mondo, ci sono sempre state altre culture che hanno abbracciato il non-binarismo (alcuni indigeni americani, i Chuckchi in Siberia, i Bakla nelle Filippine, i Hijra in India e i Quariwarmi in Perù).

La situazione tra gli adolescenti oggi è, però, in mutamento. Una ricerca condotta dal J. Walter Thompson Innovation Group ha rilevato che solo il 48% degli americani appartenenti alla Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010) si identifica come esclusivamente eterosessuale (comparato al 65% dei Millennials, cioè i nati tra gli anni ’80 e la metà degli anni ‘90). Più di un terzo afferma, invece, che le differenze di genere non siano in grado di definire una persona.

Sempre più studi e sondaggi concordano nel sostenere che i giovani d’oggi sono più portati a interrogarsi sulla propria identità, si identificano come LGBTQI più frequentemente che in passato, accettano di meno una rigida dicotomia binary (eterosessuale/omosessuale, uomo/donna) e sono più sensibili e attenti verso le persone non-binary e la loro discriminazione.
Sicuramente, il fatto che queste tematiche vengano affrontate anche a livello mediatico, o a scuola, favorisce il dibattito e l’introspezione.

In parallelo si sta spostando anche il linguaggio, perché il rispetto e l’inclusione spesso passano anche di lì.

Se quando ci occupiamo di persone cisgender, il linguaggio da adottare risulta facilitato dalla presenza di nomi e pronomi altamente definiti in senso maschile o femminile, quando ci occupiamo di persone non-binary la situazione si complica.

Nei paesi anglofoni, come abbiamo visto, c’è l’opzione dei pronomi they/them che risolve in parte il problema essendo utilizzati come neutro, anche singolare. In italiano, come in altre lingue, questo non è praticabile.

Tra le soluzioni adottate nella lingua scritta c’è quella di troncare la parola terminandola con l’asterisco (“ieri sei uscit*?”) o con la lettera u (“ieri sei uscitu?”).

Per risolvere la resa del suono nel parlato, però, sta prendendo piede la proposta di utilizzare la schwa, un simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale che è rappresentato da una “e” minuscola rovesciata: “ə”. È un simbolo usato per indicare un suono neutro, senza accento o tono che ben si presta allo scopo (“ieri sei uscitǝ?”).

I promotori di un linguaggio inclusivo sostengono che non avere una parola per descriversi significhi, di fatto, essere discriminati.

Al di là di quale sia l’opinione di ciascuno in merito, va senz’altro considerato che come esseri umani fatichiamo a comprendere ciò a cui non diamo un nome. Inoltre, seppur con dei limiti, un nome che sia rappresentativo crea una categoria, un gruppo, e sentirci parte di un gruppo ci fa sentire meno soli e rafforza il senso di comunità. Questo, oltre ad aumentare il benessere dell’individuo, perpetua la coesione sociale e, dunque, va a beneficio della società stessa.
A convalida di quanto detto, si rileva che sono notevolmente aumentate anche le ricerche in rete sui termini che abbiamo descritto in questo articolo, così come il numero di adolescenti che si rivolgono ai consultori o alle associazioni del territorio per comprendere e per comprendersi meglio.

Se avete bisogno di trovare le parole per capirvi e sentirvi rappresentati o vi sentite confusi rispetto alla vostra identità di genere o orientamento sessuale, l’Associazione Eco può aiutarvi a rispondere alla domanda “Chi sono?”.

Dr.ssa Valeria Lussiana

SIBLINGS: DIFFICOLTA’ E POTENZIALITA’ DI PERSONE CON FRATELLI AFFETTI DA DISABILITA’

“La fratria, in effetti, può essere: un mezzo,

nel processo di costruzione e di sviluppo del

soggetto, un aiuto, nel confronto con situazioni

traumatiche, un rimedio, ad esempio di fronte alla

  solitudine.” (R. Scelles)   

 

 

 

Il tema della disabilità è  al centro dell’interesse della comunità scientifica da molti anni.

Esistono moltissimi gruppi di supporto e, anche in ambito pubblico, si trova ormai una grande varietà di attività rivolte a persone con bisogni speciali.

Solo nel corso degli ultimi anni la ricerca ha iniziato ad interessarsi ai sibligs, ma chi sono?

Il termine sibling significa letteralmente “fratello”, ma viene anche utilizzato per indicare una particolare categoria, ovvero i fratelli di persone con disabilità.

Per lungo tempo lo studio degli effetti della disabilità si è concentrato sui genitori e, in particolare, sulle madri, in quanto caregiver principali. Solo a partire dagli anni Ottanta la ricerca scientifica si è rivolta ai fratelli, individuando alcune caratteristiche comuni che prescindono dalla situazione specifica della persona affetta da disabilità.

E’ facile immaginare come, in una famiglia in cui è presente un figlio con disabilità, la maggior parte delle attenzioni  e delle risorse siano dedicate a lui, proprio in ragione dei suoi bisogni speciali. Cosa comporta però questo nella crescita e nel percorso di vita dei fratelli a sviluppo tipico? Sicuramente quello tra siblings e fratelli con disabilità è un rapporto complesso e ricco di difficoltà, ma sarebbe sbagliato e poco esaustivo, oltre che dannoso, considerarlo solo in termini negativi, in quanto tale rapporto può far emergere anche numerose risorse e potenzialità.

Essere fratelli significa confrontarsi, imparare ad entrare in relazione, litigare, fare pace, creare e rompere alleanze, essere amici e, talvolta, nemici. In famiglie con figli a sviluppo tipico, la relazione fraterna è qualcosa che si gestisce in autonomia, senza troppa interferenza da parte degli adulti. Ma cosa succede se uno dei fratelli è affetto da disabilità? Spesso il figlio vulnerabile viene descritto dai genitori come fragile, da proteggere in ogni caso, anche all’interno della relazione fraterna. Capita spesso che ai siblings venga passato il messaggio, da parte dei genitori, che il fratello con disabilità non possa e non debba essere trattato come “tutti gli altri”, e questo, in molti casi, limita l’interazione fraterna. L’iper-responsabilizzazione del fratello a sviluppo tipico potrebbe limitare e inibire l’interazione, e dunque anche l’esperienza positiva di essere fratelli. E’ certamente giusto e legittimo che i genitori proteggano il figlio più fragile, ma bisognerebbe fare attenzione a non limitare troppo o definire eccessivamente il rapporto fraterno.

In alcuni casi potrebbe capitare che il sibling, in virtù del ruolo da caregiver di cui viene investito, possa non sentirsi autorizzato ad esprimere dubbi, sofferenza e difficoltà esperite nella relazione con il fratello vulnerabile. Questo, oltre a limitare l’interazione fraterna, potrebbe portare il fratello a sviluppo tipico a non comprendere alcune dinamiche familiari e a sviluppare ostilità nei riguardi del fratello con disabilità. In molti casi i genitori chiedono ai figli di amare  il fratello fragile in virtù della sua condizione di disabilità e ciò non può che limitare e imbrigliare  l’esperienza emotiva, non consentendo di farne reale esperienza. Quando i timori dei genitori rispetto al futuro del figlio disabile sono troppo grandi, potrebbe capitare che il figlio a sviluppo tipico si dedichi alla cura del fratello vulnerabile per alleviare la loro preoccupazione e la loro sofferenza. L’accettazione di tale ruolo di adulto responsabile ha inevitabilmente dei costi psicologici e relazionali su entrambi i fratelli. Lasciare i fratelli liberi di scegliere il tipo di rapporto che vogliono avere ha un ruolo fondamentale nella costruzione della personalità degli individui.

La vita delle famiglie nelle quali è presente un figlio con disabilità comporta inevitabilmente problematiche, sia di ordine pratico sia di ordine emotivo. La vita del nucleo familiare ruoterà,  comprensibilmente, attorno ai bisogni speciali del membro più fragile e questo può, in molti casi, non lasciare troppo spazio all’esperienza del figlio con sviluppo tipico, che si troverà a confrontarsi con dubbi ed emozioni, talvolta molto complessi da gestire, in particolare nelle prime fasi della crescita.

Potrebbe accadere che, a causa delle poche informazioni sull’effettiva condizione del fratello vulnerabile, il sibling si identifichi con il fratello con disabilità, iniziando a credere di avere anche lui le stesse problematiche. Questo accade spesso nei fratelli minori o quando il fratello più fragile è affetto da patologie “invisibili”, come ad esempio un ritardo cognitivo. Tale preoccupazione può essere arginata fornendo informazioni chiare e precise sulla condizione del fratello con disabilità.

Un’emozione piuttosto comune è l’imbarazzo verso il fratello con disabilità. E’ importante riconoscere che, in particolare in alcune fasi della vita, come l’adolescenza, l’imbarazzo nello stare accanto ai membri della famiglia, come i genitori, è assolutamente normale e più che comune. Accade spesso che tale vissuto sia amplificato da alcuni comportamenti del fratello con disabilità ed è importante che il sibling abbia la possibilità, soprattutto nel contesto familiare, di potersi esprimere. Se i comportamenti della persona vulnerabile sono effettivamente inopportuni, potrebbe essere utile al sibling che i genitori lo riconoscano e condividano anche loro l’imbarazzo che provano, così da evitare che il figlio con sviluppo tipico possa sentirsi cattivo o sbagliato per quello che prova.

Altro vissuto comune nei siblings, soprattutto in età infantile, è il senso di colpa per aver causato la disabilità del fratello oppure il “senso di colpa del sopravvissuto” per non avere le stesse problematiche del fratello vulnerabile. Altre volte il senso di colpa nasce dall’aver litigato o essersi comportati in maniera aggressiva con il fratello con disabilità, cose che capitano in qualunque rapporto tra fratelli. E’ importante che i genitori accolgano anche la possibilità che i loro figli possano litigare: il confronto è un importante momento di crescita e negarlo sarebbe dannoso per entrambi i fratelli.

La vergogna è un altro vissuto che spesso caratterizza l’esperienza dei sibligs. Alcuni studi mostrano che tale sentimento è in qualche modo limitato in famiglie con più figli.

Capita di frequente che i sibligs di persone con disabilità di sentano soli o isolati o, talvolta, che si isolino volontariamente dal gruppo dei pari. Questo può accadere per diverse motivazioni, come la preoccupazione di condividere vissuti e problematiche legati al contesto familiare con il gruppo di pari o la  volontà di non creare ulteriore disturbo ai genitori. In quest’ultimo caso, è anche possibile che il figlio con sviluppo tipico possa cercare di arginare o alleviare il vissuto dei genitori legato alla disabilità iper-compensando con altissime prestazioni scolastiche e lavorative. In molti casi questo atteggiamento viene spiegato dai siblings come il desiderio di non arrecare ulteriori preoccupazioni oppure come un modo per essere riconosciuti e “visti” all’interno del contesto familiare.

Altro vissuto che spesso accomuna i siblings è il risentimento verso il fratello fragile o nei confronti dei genitori. E’ indubbio che, nella famiglie con un figlio con disabilità, molte risorse economiche, di tempo ma anche emotive vengano dedicate a quest’ultimo, e questo può essere fonte di rabbia nel figlio con sviluppo tipico. Un buon livello di comunicazione all’interno della famiglia e la possibilità di esprimere emozioni e vissuti negativi possono aiutare arginare e ad elaborare tale esperienza.

Abbiamo più volte spiegato come, in famiglie con un figlio affetto da disabilità, il carico dei genitori sia molto pesante. Non di rado ai figli con sviluppo tipico viene affidato il ruolo di genitore vicario; ciò comporta una precoce responsabilizzazione e, in molti casi, l’impossibilità a seguire le fasi normali di sviluppo, bruciando le tappe. Tale comportamento non può che avere delle ripercussioni come, ad esempio, un non riconoscimento nel gruppo dei pari: l’esperienza di essere un ragazzo adultizzato può portare ad avere la sensazione di non essere compreso dai coetanei, in quanto troppo maturo o con  priorità differenti rispetto agli altri.

 

Nell’affrontare il tema dei siblings di fratelli con disabilità è certamente doveroso parlare delle difficoltà con le quali queste persone si confrontano lungo il loro percorso di vita, ma è altrettanto importante mettere in risalto le possibilità che emergono dal vivere in un contesto familiare tanto particolare.

Numerosi sono gli studi che hanno ribaltato il paradigma per il quale le famiglie, e di conseguenza i fratelli, di persone con disabilità vivrebbero una realtà patogena e negativa e hanno puntato l’attenzione sulle potenzialità che possono derivare da tale contesto.

I fratelli di persone con disabilità risultano spesso più maturi dei coetanei, in particolare nelle varie fasi di sviluppo. Ciò è dato dal fatto che le loro esperienze di vita li hanno condotti a confrontarsi, sin dall’infanzia, con tematiche da adulti, dando loro la possibilità di avere un’idea della realtà più ricca e sfaccettata. Imparano fin da piccoli che la vita non sempre è giusta e sviluppano tendenzialmente una maggiore resilienza e una grande flessibilità, che consente loro di approcciarsi alle situazioni più disparate con una migliore capacità di adattamento.

Alcuni autori e ricercatori hanno notato come crescere in contesti familiari in cui è presente un membro con disabilità sia un fattore predittivo di maggiori competenze sociali. Tali studi dimostrano come i siblings abbiano atteggiamenti più accomodanti e meno aggressivi nei riguardi del prossimo, mostrino sensibilità e capacità di accoglimento verso l’altro e abbiano un buon grado di tolleranza. Tali caratteristiche sono il risultato del confronto con tematiche importanti come l’esclusione e la percezione negativa della diversità; aver vissuto sulla propria pelle queste esperienze, certamente spiacevoli, può favorire una maggiore accettazione dell’altro.

E’ stato inoltre dimostrato che i fratelli  di persone con disabilità hanno un forte senso di giustizia. In numerosi studi ed interviste emerge come queste persone, nel corso della loro vita, si siano purtroppo trovate a difendere il fratello fragile; questo, in molti casi, porta a valutare le persone e la possibilità di intraprendere con loro rapporti di amicizia o amorosi in base al senso morale e alla sensibilità dimostrate.

 

Da quando la comunità scientifica ha iniziato ad interessarsi al tema dei siblings è emersa la necessità di dare risalto ai loro bisogni e ai loro vissuti emotivi. Nel corso degli ultimi anni sono nati, anche sul territorio italiano, molti gruppi e interventi mirati a tale categoria, in modo da garantire uno spazio di espressione e crescita personale e individuale per aiutare i siblings a definirsi in quanto soggetti, e non come “fratelli di..”.

La psicoterapia può essere una grande risorsa per affrontare le difficoltà legate alla particolare condizione di queste persone, ma anche per evidenziare le risorse che li caratterizzano, in primis come individui.

Questo articolo, lungi dal voler essere esaustivo, ha come intento il fornire una panoramica sulla tematica dei siblings. E’ importante sottolineare che non tutte le situazioni sono uguali, che  l’esperienza di ogni individuo è influenzata da moltissimi fattori e che non tutti i fratelli di persone con disabilità avranno le stesse problematiche o svilupperanno le stesse risorse.

 

Dottoressa Rossella Totaro

 

BIBLIOGRAFIA:

 

  • Dondi A. (2018), Crescere fratelli e sorelle di bambini con disabilità, Cinisello Balsamo (Milano), Edizioni San Paolo
  • Farinella A. (2015), Essere fratelli di ragazzi con disabilità, Trento, Edizioni Centro Studi Erikson

                                          

TRAINING AUTOGENO SOMATICO O INFERIORE

Il training autogeno (d’ora in poi TA), tanto in voga nel XX secolo oggi sconta un po’ quel clamore che, se da un lato l’ha fatto conoscere a molti, dall’altro ha indotto qualche confusione.

Il TA nasce dall’intuito di uno psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz nella prima metà del secolo scorso. Schultz si interessò sin da subito alla vita psichica, agli stati modificati di coscienza, accostandosi al metodo psicoanalitico prima e elaborando successivamente quella che chiamerà psicoterapia autogena. Il TA diventa quindi, nel pensiero di Schultz sia una tecnica di rilassamento, in grado di alleviare stati di ansia o tensione, che un vero e proprio modo di accedere a contenuti inconsci, attraverso le sensazioni che arrivano dal corpo.

Il TA prende il nome da due presupposti fondamentali: il “principio allenativo”, il training e quello di autogenicità. Con il principio allenativo si evidenzia come sia la ripetizione quotidiana degli esercizi, la base per un effettivo e reale cambiamento. Il concetto di autogenicità (letteralmente significa qualcosa che si genera da sé) ha a che vedere col fatto che attraverso la pratica del TA, i contenuti emergono e i cambiamenti si verificano spontaneamente, indipendentemente dalla volontà intenzionale del soggetto. Questo permette alla persona che pratica TA anche di sperimentarne gli effetti e i benefici senza la presenza costante di qualcuno che lo “alleni” e accompagni.

A livello neurofisiologico il training autogeno produce un’attivazione del sistema parasimpatico inducendo uno stato di trance superficiale detto stato autogeno. Contemporaneamente sul piano fisico si osservano una riduzione della frequenza cardiaca e respiratoria, l’abbassamento del tono muscolare, la diminuzione della pressione arteriosa e l’aumento di succhi gastrici e la secrezione di insulina.

Lo stato di rilassamento che viene quindi a crearsi, ha non solo l’effetto di scaricare le tensioni in eccesso e di recuperare lo stato di benessere, ma soprattutto di attivare la capacità di autoregolazione dell’organismo, sia rispetto alle funzioni psichiche che somatiche, migliorandone quindi lo stato generale.

La tecnica di cui si avvale è apparentemente semplice: la ripetuta rappresentazione mentale di alcune specifiche frasi, definite “formule standard” in una determinata sequenza.

Le formule standard, ed in particolare quelle del cosiddetto ciclo inferiore, mirano alla capacità di abbandonarsi all’ascolto passivo del corpo, fanno riferimento a sensazioni corporee come la pesantezza, il calore, il respiro regolare… E’ proprio attraverso il raggiungimento di uno stato di “concentrazione passiva”, “nell’aspettare qualche cosa, senza aspettarsi nulla” (Widman, 2005) che contenuti emotivi possono fluire e si attivano processi distensivi e rigenerativi.

I campi di applicazione del TA sono davvero molteplici, dall’ambito sportivo dove viene impiegato con successo da tempo a quello più strettamente clinico. In ambito sportivo si è visto che il TA può migliorare la resistenza fisica agli sforzi, il recupero delle energie psicofisiche, contrasta l’ansia da prestazione, i sentimenti di svalutazione e inferiorità. Favorendo poi il rilassamento muscolare riduce il rischio di contratture (Peresson, 1977 e 1990; Hoffmann 1980).

In ambito clinico si sono evidenziati benefici nel caso di emicrania (Seo, 2018), gastrite, balbuzie, asma, tachicardia (Wallnöfer, 1993; Linden, 1994; Sutera, 2002), nell’ansia e nel distress legati ad ospedalizzazione (Neeru, 2015), o alle prestazioni scolastiche (Holland, 2017), nella depressione lieve e moderata, in alcuni tipi di disturbi sessuali (Zuliani, 2003; Stanton, 2018) ed nei disturbi del sonno (Kim ML, 2009).

Infine, per dirla con Schultz il TA non è di per sé una tecnica per “guarire le persone”, ma per “aiutare le persone ad evolvere, così come fa il giardiniere quando scosta pietre e arbusti perché le piante possano crescere meglio”

Dr.ssa Chiara Delia