Mese: <span>Marzo 2022</span>

COME DISFARSI DELLE REAZIONI AUTOMATICHE – Vivere il tempo anziché lasciarsi vivere dal tempo

Come mai reagiamo spesso nello stesso modo in alcune situazioni? E come mai non riusciamo a smettere di farlo, anche quando le conseguenze sono decisamente negative? Vediamo insieme come possiamo gestire le nostre reazioni emotive in maniera più consapevole e funzionale.

Vediamo qualcosa che non ci piace, una situazione ci fa rizzare i peli… e tutto d’un tratto… reagiamo! Ci infiammiamo, ci lasciamo trasportare dal turbine emotivo…

Ciascuno di noi, nel corso del tempo, ha imparato a rispondere ad alcuni stimoli con delle reazioni automatiche. Solitamente, si tratta di stimoli che attivano in noi un qualche stato emotivo spiacevole: ansia, tristezza, rabbia. La reazione che ne consegue, quindi, è un tentativo di gestire le emozioni negative che si provano in determinate situazioni.

Il fatto è che non siamo quasi mai consapevoli del perché reagiamo proprio con quella modalità, eppure, tendiamo a riproporla in maniera automatica ogni volta che ci troviamo di fronte a uno stimolo scatenante. Si tratta di automatismi appresi nel corso del tempo, soluzioni adottate in passato e che in qualche modo hanno “funzionato”. Si sono cioè rivelate efficaci nell’alleviare o nell’eliminare la sofferenza di quella situazione. Non ci importa che magari la “soluzione” comporti altre conseguenze, a volte persino peggiori della sofferenza che mirano a estinguere. I nostri meccanismi automatici di gestione non si fermano a riflettere ma, sono reazioni “istintive” che non ponderano e non distinguono conseguenze a breve e a lungo termine.

Spezzare il meccanismo della reazione automatica, non significa smettere di avere una opinione, di riflettere sulle cose, di reagire o di essere passivi, significa semplicemente disattivare un automatismo riprendendo il controllo e smettendo così di soffrire. Noi risentiamo della collera, dello stress, dei blocchi esperienziali, che fanno dapprima soffrire noi e che finiscono per intaccare il nostro ambiente.

DEFINIRE COSA CI FA REAGIRE

La prima cosa da fare per non entrare nella spirale infernale del circolo vizioso, è quella di notare quali sono le situazioni che ci fanno reagire in un certo modo. Sono delle situazioni, sovente le stesse, che ci stressano e che ci fanno partire con il pilota automatico. Per esempio, ci si arrabbia ogni volta che si fa la coda in un negozio o ci si infastidisce quando nostro figlio prende un brutto voto.

Osserviamo, poi, cosa scatena in noi quella situazione. Gola serrata, oppressione al petto, nodo allo stomaco, respiro corto… Quello che ci fa reagire, ci fa soffrire fisicamente e psicologicamente. La nostra reazione ci ricorda i nostri valori, cosa conta per noi. Facciamo un esempio: se mio figlio mi porta a casa un brutto voto, ho immediatamente dei pensieri negativi “È sempre il solito”, “Perderà l’anno” e posso provare rabbia o delusione. Ora, questa reazione mi ricorda cosa è importante per me e quindi posso decidere di connettermi a quello, prima di far partire la reazione automatica e, per esempio, invece che criticarlo, posso provare a stargli vicino, perché lo amo, e a soffermarmi sul fatto che, anche se non va bene a scuola, ha delle altre qualità.

TORNARE ALL’INTERNO

I nostri pensieri valutano. I ricordi ci portano indietro. Le emozioni confondono. In quel momento, è importante rallentare perché tutto va troppo veloce e noi non siamo realmente consapevoli di quello che sta succedendo. Se reagiamo in modo automatico, non stiamo scegliendo davvero come reagire e questo può, per esempio, degradare i nostri rapporti con gli altri. Se ci si prende il tempo per guardare sé stessi, di respirare quello che sentiamo, si può reagire alle situazioni in modo diverso. Quando si parte con la propria reazione automatica, non si vede che attraverso i propri schemi. Tornare all’interno permette di allargare il campo di quello che si vede. C’è una parte di noi che è tranquilla, calma e che può farci reagire diversamente, facendoci mettere nei panni dell’altro ed esprimendo le cose in maniera differente. Questo non significa sopprimere il malessere e non esprimerlo davanti all’altro, ma semplicemente farlo in una maniera più cosciente, più pacata, più affine a cosa conta per noi.

Facendo questo, riprendiamo il controllo; anche se automatiche, queste reazioni, non sono inevitabili e anzi, possiamo crearne di nuove. Portando un po’ di attenzione consapevole a quel momento, contattando i nostri valori, possiamo decidere di rispondere in modi diversi, che siano più utili o salutari per noi e chi ci sta attorno. E, saremo noi a decidere come rispondere.

LA PRATICA MEDITATIVA PUO’ AIUTARCI

Meditare regolarmente permette di allenarsi a rallentare, a sganciare il pilota automatico, per essere più presenti. In tal modo, non si impronta più tutto sulla reazione automatica e si fa un passo a fianco alle storie che ci si racconta ogni volta. Durante la pratica di meditazione non si fa nulla, non si cerca nulla, non ci si aspetta nulla, si smette di volere che le cose siano diverse da quelle che sono perché non ci si lotta, al contrario, si accoglie quello che si vive, l’esperienza, momento dopo momento. Questo allena a essere più consapevoli. Questo non vuol dire che dopo non si reagisca. Al contrario, chi è più cosciente, non si lascerà influenzare dai propri pensieri automatici e agirà allineandosi ai suoi valori. La meditazione è dunque al servizio della nostra azione.

CHIAVI PER REAGIRE DIVERSAMENTE

1- Prendi una situazione scomoda che ti genera sofferenza emotiva.
2- Valuta la tua sofferenza sulla tua scala da 1 a 10 dove 1 significa assenza di perturbazione emotiva e 10 massima sofferenza.
3- Nota dove trattieni questa valutazione e dove la senti nel corpo.
4- Osserva che tutta la tua energia, la tua attenzione è assorbita da questo dolore. Ci si focalizza, si gira in tondo, si resiste.
5- Sottolinea che se tu sei consapevole della sofferenza e del linguaggio nella tua testa, se ne sei cosciente, sai che è possibile cambiarla.
6- Scegli allora come vuoi reagire in piena consapevolezza.

ANDARE OLTRE

1- Osserva quello che scatena la tua reazione automatica. Esempio di situazione: la sveglia suona, il mio compagno prende subito il suo telefono e questo mi infastidisce.
2- Vai incontro alle tue sensazioni. Noto cosa sta succedendo nel mio corpo: le tensioni che sono presenti e come evolvono. Può essere, per esempio, che diminuiscano mentre le osservo.
3- Nota cosa c’è di altro in te, altre emozioni, pensieri che valutano, che giudicano e nota che c’è anche pace… puoi connetterti ad essa piuttosto che lasciarti trasportare dal tuo malessere. A partire dal momento in cui sei consapevole di cosa succede, il tuo malessere diminuisce. Ti apri ad altre cose, alla pace, allo spazio da cui osservare la tua reazione automatica.
4- Molla la presa. Non hai bisogno di combattere con i tuoi pensieri, con le tue emozioni o con la situazione presente. Sei ancorato in questo spazio di calma che hai in te e hai fiducia nel fatto che puoi modificare questa energia negativa che ti sta invadendo. Prenditi il tempo di rallentare.
5- Nota cosa si nasconde dietro questa reazione. In questa situazione, ti esasperi perché hai l’impressione di non sentirti amato e vicino all’altro, qualcosa che fa parte dei tuoi valori.
6- Agisci. Prendi il tuo compagno tra le braccia e parlagli di quello che per te è importante. Se aggiungi empatia, è ancora meglio: “Io so che è molto importante per te aggiornarti sulle ultime notizie, ma per me sarebbe prezioso poter stare con te prima che ci si separi per andare a lavoro”.

Ricordiamoci che non siamo destinati a reagire sempre allo stesso modo. Possiamo cambiare. Possiamo scegliere come rispondere. Una volta imparato questo, dopo aver sperimentato le possibilità che un nuovo modo di rispondere può regalarci, potremo scegliere e reagire secondo i nostri valori. Vivere è inevitabilmente essere costantemente sottoposti a stimoli, alcuni positivi e altri negativi. Ciò che non è inevitabile è come decidiamo di rispondere. E questo, è nelle nostre mani.

Dott.ssa Giulia Giacone

Psicologa – Psicoterapeuta

Per saperne di più…

Hayes, S.C., Strosahl, K.D., Wilson, K.G. (2013). ACT. Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy. Raffaello Cortina, Milano.
Kabat-Zinn, J. (2019). Dovunque tu vada ci sei già. In cammino verso la consapevolezza. Corbaccio, Milano.
Kang, J., Gruber, J., & Gray, J. R. (2013). Mindfulness and De-Automatization. Emotion Review, 5(2), 192–201.

 

Social Network e Sessualità

Gli scambi sui social network hanno il loro corso in un’intimità che non ha più confini.

Chi risponde sui social ad una richiesta di amicizia da parte di un utente sconosciuto, o parzialmente conosciuto, già compie un primo abbattimento di una barriera emotiva e convenzionale.

Le distanze tra individui diventano sempre meno ampie quando, prima di scambiarsi dei messaggi, si appongono delle reazioni, emoticon che identificano con quale stato d’animo la persona reagisce agli stimoli pubblici di un “amico” virtuale. Sono segnali importanti, che possono apparire nel loro ripetersi come sintomi inequivocabili di un’attenzione, carichi di sottointesi, proprio per il loro essere espliciti e sotto l’occhio di molti.

Lasciarsi contaminare dal social network produce l’immersione in un ambiente mentale ed emotivamente allettante, contiguo alla vita reale. Secondo uno studio condotto nell’Università di Chapel Hill in Nord Carolina, ogni volta che riceviamo un mi piace, il nostro organismo rilascerebbe una piccola scarica di dopamina, neurotrasmettitore che viene coinvolto nei fenomeni di ricompensa ma anche di dipendenza. Il bisogno di gratificazione da social crescerebbe nel tempo, proprio come accade ad un dipendente da sostanze e come accade in una relazione amorosa.

I social diventano così, un farmaco immersivo che dilata emotivamente chi lo usa per rappresentarsi, è un palliativo dell’ansia collettiva di allontanarsi anche momentaneamente dal quotidiano. Non è frequentato solo dai giovanissimi, ma anche da adulti che hanno sperimentato nel cambio di status un’efficace maniera per lanciare messaggi. Il potenziale seduttivo dei social network avviene sulla capacità di prolungare la propria “ombra digitale” attraverso frasi e foto postate. A creare intimità condivisa sono le immagini proprie, delle abitudini alimentari, delle ricorrenze. Ogni utente ambisce ad esporre un’immagine il più appetibile possibile di se stesso.

Se da un punto di vista esteriore il social network possa apparire “casto”, ciò che si osserva soprattutto negli ultimi anni è il sexting.

Per sexting intendiamo l’atto di inviare materiale sessualmente esplicito su dispositivi mobili o in generale nella rete. E’ un fenomeno che può trovare terreno fertile nei nuovi strumenti di social media, la cui funzione di videochiamata rappresenta una delle modalità privilegiate, soprattutto tra gli adolescenti, per esplorare le proprie fantasie e impulsi sessuali.

Il fenomeno del sexting, non risparmia nemmeno applicazioni “neutre”  come ad esempio WhatsApp. Per condividere materiale intimo o sessualmente esplicito, sempre più persone ricorrono ad applicazioni che utilizzano modalità di conversazione “end-to-end”, per le quali i messaggi scambiati hanno una visibilità ridotta nel tempo evitando il timore di eventuali ritorsioni qualora il rapporto con l’altro dovesse degenerare. Come ad esempio Telegramm e Snapchet.

L’ultimo fenomeno che lega il mondo dei social alla sessulaità è quello legato al social cruising e alle hook-up apps. In questo mondo le più famose app sono Tinder e Grindr, entrambe permettono attraverso un sistema di geolocalizzazione di individuare persone disponibili garantendo in pochissimo tempo la possibilità di mettersi in contatto con tanti potenziali partners sessuali e incontrarli di persona.

E’ importante soffermarsi e interrogarsi sugli effetti di questo mondo virtuale, potenziando la formazione, l’educazione e la prevenzione sociale, partendo dai più giovani, a volte ignari dei pericoli che si celano dietro l’utilizzo di queste app.

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo, Psicoterapeuta

Dovremo tutti essere femministi?

 

La parola femminismo è più antica di quanto si possa pensare. Anche se la nostra memoria la lega al secolo scorso essa è stata coniata nel 1882 da Hubertine Auclair.

Ancora prima nel 1792  Olympia de Gouges scrisse la dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina.

Le prime femministe si batterono in Francia per poter ottenere il diritto al divorzio.

Successivamente le donne, con il movimento delle suffragette, si batterono per il diritto di voto.

E’ stato a partire dagli anni sessanta del XX secolo che il femminismo si è organizzato come movimento per modificare la divisione sociale dei ruoli tra donne e uomini e mettere in discussione questa gerarchizzazione umana. I temi sono nuovi: sessualità, aborto, violenza domestica, contraccezione, parità sul posto di lavoro, abolizione del delitto d’onore.

Negli anni novanta il tema principale è l’abolizione del divario salariale ed una legislazione che protegga le donne dalle molestie sessuali sul lavoro.

Cominciano ad aderire al movimento le prime femministe islamiche e di colore.

La storia del femminismo è la storia della lotta contro uno stereotipo: che la donna è inferiore all’uomo, ma intorno ad esso ruotano tanti stereotipi. Una femminista è una che non si depila, che brucia i reggiseni, che è sempre arrabbiata, che vuole comandare lei. Stereotipi che guardano ad aspetti manifesti, perdendosi il significato dietro quegli aspetti: avere gli stessi diritti degli uomini.

Come ci ricorda la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie mille anni fa era normale che fossero gli uomini a dirigere gruppi sociali, perché il requisito per farlo era la forza e la struttura fisica. Uomini e donne hanno strutture fisiche differenti, questo è ovvio, ma al giorno d’oggi dove per dirigere dei gruppi lavorativi i requisiti sono di tipo intellettuale, creativo, e legati alle capacità di innovazione. Questi requisiti non sono legati alla forza fisica, non sono legati al genere sessuale di appartenenza, ma al fatto di essere esseri umani.

“Ci siamo evoluti, ma le nostre idee sul genere non si sono evolute molto”.

Per cambiare queste idee si deve partire dall’educazione, già in famiglia. Insegnare ai maschi che si è virili se si hanno soldi, muscoli, se non si mostrano emozioni di paura e dolore, significa ingabbiarli in uno stereotipo che renderà fragile la loro autostima.

Scrive ancora Chimamanda nel suo Dovremmo tutti essere femministi, che di riflesso educhiamo le femmine ad occuparsi dell’ego fragile degli uomini insegnando loro a non essere una minaccia per i maschi. “Sii ambiziosa, ma non troppo. Occupa la stessa posizione ma guadagna di meno.[…]  Siccome sei una donna devi aspirare al matrimonio. […] Non essere sposata è un fallimento personale”

Il problema del genere, ci ricorda Chimamanda, è che prescrive come dovremmo essere, invece di riconoscere come siamo. Saremmo più liberi senza il peso delle aspettative legate al genere.

Le femmine e i maschi sono diversi sul piano biologico, ma le altre differenze sono create a livello sociale.

Educhiamo i figli concentrandosi sulle capacità e sugli interessi, invece che sul genere.

Ma se il femminismo si occupa di diritti umani, perché chiamarlo femminismo? Si domanda questa scrittrice. La risposta è che scegliere di usare una definizione vaga come “diritti umani”, significa non tenere conto della specificità del problema del genere.

Femminista, conclude l’autrice, dovrebbe essere un uomo o una donna che riconosce che c’è un problema culturale legato al genere e che vuole fare meglio. Tutti noi, donne o uomini, dovremmo essere femministi.

Dr.ssa Luigina Pugno

Ghosting: Ovvero quando l’altr* sparisce

Ghosting è un termine che deriva dall’inglese (to ghost) e significa muoversi di soppiatto, come un fantasma appunto. Viene utilizzato da pochi anni per descrivere una strategia per concludere una relazione (sentimentale o amicale che sia).

In quale modo viene praticato?

Fare ghosting vuol dire letteralmente sparire all’improvviso da una relazione significativa. Ad esempio, per porre fine ad una frequentazione il ghoster (colui che sparisce) di punto in bianco non solo non si presenta più, ma non risponde più alle chiamate, ai messaggi e blocca qualsiasi possibile contatto su tutti i canali possibili (profili social, email, chat etc).

Non fornisce spiegazioni per questa improvvisa sparizione e lascia l’altra persona abbandonata.

Chi pratica ghosting?

Sparire, abbandonare l’altr* senza nessuna parola è un modo per tagliare la relazione che si sta vivendo ed evitare la sofferenza legata alla perdita di questa. In sostanza evaporare dalle vite degli altri consente al ghoster di non accedere ai propri aspetti emotivi connessi all’abbandono ed anche non riuscire a collegarsi alla sofferenza dell’altra persona.

Sparisco e quindi (utilizzando un pensiero magico) non affrontando la questione posso sentirmi in pace con me stesso.

La ricerca scientifica, infatti, riconosce che una buona percentuale di ghoster hanno uno stile di attaccamento evitante.

Far perdere le proprie tracce, quindi, non è casuale. Ma ha a che vedere con ciò che il ghoster ha subìto nella propria infanzia.

Una buona parte delle uscite di scena anticipate vengono attuate quando il legame viene sperimentato come troppo intenso ed anche la dipendenza che da esso deriverebbe viene sentito come inaccettabile.

La paura di essere abbandonat* è troppo alta e porta all’unica reazione pensabile: abbandonare per mantenere il controllo emotivo sulla propria sofferenza.

In aggiunta anche chi ha tratti di personalità che rientrano nelle sfere borderline e narcisistiche sono portati ad avere un comportamento che porta a chiudere le relazioni in questo modo.

Chi sparisce si difende dall’abbandono dell’altro, certamente, ma questo evitamento emotivo così massiccio blocca chi subisce questa azione, ma anche chi compie l’azione, resta confinato a ripetere sempre lo stesso schema di fuga senza poter evolvere nel proprio sviluppo individuale.

Perché fare ghosting?

Una risposta univoca probabilmente non c’è e i fattori che portano a questa modalità possono essere diversi.

Proviamo a fare alcune considerazioni.

Sparire, cioè troncare una relazione senza dare spiegazioni è facile, evita la complessità di stare a tu per tu con l’altr* in situazioni difficili e potenzialmente esplosive. E, cosa non di poco impatto, comporta meno dolore.

Inoltre, al giorno d’oggi con tutta la tecnologia a nostra disposizione è più semplice fare tutto quanto descritto. Non solo è a portata di cervello che non vuole soffrire, ma è anche a portata di pollice.

Se, invece, chi agisce questa modalità di chiusura relazionale rientra in quadri psicopatologici sopra citati (disturbo borderline e disturbo narcisistico di personalità) sarà molto frequente trovare una mancanza di sintonizzazione con il dolore dell’altra persona essendo centrati esclusivamente su se stessi, cercando di mantenere la facciata di quell* buon* e non riuscendo ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte e del proprio agire.

Quali sono gli effetti per chi subisce?

Subire un rifiuto fa male, essere lasciati (con tutte le dovizie di particolari del perché e per come) fa ancora più male. Subire ghosting ancora di più.

Perché?

Perchè è una scelta unilaterale e, tendenzialmente, inappellabile. Inoltre, la scelta di non comunicare con l’altra persona, essendo una modalità molto aggressiva mette nelle mani di chi subisce tutta la responsabilità.

Inoltre, una possibile interpretazione di questo agito sia “tu non esisti e nemmeno la nostra relazione è mai esistita, tanto che non puoi comunicare con me”.

Chi viene lasciat* in questo modo (che è una pratica piuttosto violenta) vive per diverso tempo reazioni emotive contrastanti e confondenti:

– senso di colpa (aver fatto o detto qualcosa che abbia fatto scatenare l’altr*);

– rabbia;

– restare in sospeso (aspettare di avere delle risposte che non verranno mai date);

– disagio generalizzato.

Essere lasciati con questa modalità può facilmente portare ad avere poca fiducia nelle relazioni, verso se stessi e portare a sviluppare comportamenti paranoici e controllanti per paura che succeda nuovamente che il/la partner sparisca all’improvviso.

Sono queste le ragioni per cui subire questa violenza psicologica fa particolarmente male.

Come puoi riconoscerlo e difenderti?

La prime reazioni saranno di confusione, rabbia, incomprensione di ciò che sta accadendo. É normale, fa male, non è piacevole, ma il primo passo è l’accettazione di ciò che sta accadendo.

Prenditi cura di te stess*, scontato, banale forse, ma fondamentale.

Terza prassi vitale: non rimuginare (troppo) e cerca di fermare i pensieri autocritici, non serve a nulla cercare ossessivamente chi, invece, ti ha piantato in asso deliberatamente, come non ha molto senso pensare all’infinito cosa avresti potuto fare e dire o peggio, non fare e non dire per non “provocare” questa sparizione.

Quarto step: frequenta persone che ti facciano sentire più seren* e prenditi cura del tuo tempo per fare qualcosa che ti gratifichi e ti faccia stare bene.

Che tu faccia fatica è normale e comprensibile, attraversa queste sensazioni e vivile. È doloroso ma è questo che ti aiuta.

Non hai il controllo di tutto, anche avendo avuto una sfera magica non avesti potuto evitare ciò che ti è successo. Ciò che ti è, invece, utile è (eventualmente) comprendere che ciò che ti è capitato può essere particolarmente doloroso e potresti avere bisogno di aiuto per tornare a stare bene.

Infine, non è colpa tua quello che ti è successo, prendi contatto con questo.

Ricorda il primo passo per sentirti meglio è il riconoscimento di un problema o difficoltà.

Dott. Gilberto Kalman

Psicologo Psicoterapeuta

Bibliografia

Baxter, L. A. (1984). Trajectories of relationship disengagement. Journal of Social and Personal Relationships,1(1), 29–48.

Collins, T., & Gillath, O. (2012). Attachment, breakup strategies, and associated outcomes: The effects of security enhancement on the selection of breakup strategies. Journal Of Research In Personality,46(2), 210-222. https://doi.org/10.1016/j.jrp.2012.01.008

Freedman, G., Powell, D., Le, B., & Williams, K. (2018). Ghosting and destiny: Implicit theories of relationships predict beliefs about ghosting. Journal Of Social And Personal Relationships,36(3), 905-924.

Koessler, R., Kohut, T., & Campbell, L. (2019). When Your Boo Becomes a Ghost: The Association Between Breakup Strategy and Breakup Role in Experiences of Relationship Dissolution. Collabra: Psychology,5(1).

LeFebvre, L., Allen, M., Rasner, R., Garstad, S., Wilms, A., & Parrish, C. (2019). Ghosting in Emerging Adults’ Romantic Relationships: The Digital Dissolution Disappearance Strategy. Imagination, Cognition And Personality, 39(2), 125-150.

Morris, C. E., & Reiber, C. (2011). Frequency, intensity and expression of post-relationship grief. EvoS Journal: The Journal of the Evolutionary Studies Consortium, 3, 1–11.

Navarro, R., Larrañaga, E., Yubero, S., & Víllora, B. (2020). Psychological Correlates of Ghosting and Breadcrumbing Experiences: A Preliminary Study among Adults. International Journal Of Environmental Research And Public Health, 17(3), 1116.

Sprecher, S., Zimmerman, C., & Abrahams, E. (2010). Choosing Compassionate Strategies to End a Relationship. Social Psychology, 41(2), 66-75.

Timmermans, E., Hermans, A., & Opree, S. (2020). Gone with the wind: Exploring mobile daters’ ghosting experiences. Journal Of Social An