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SE MI LASCI, MI CANCELLI!

Circa una ventina di anni fa arrivò nelle sale una pellicola che riscosse un grande successo con Jim Carrey e Kate Winslet come attori protagonisti e con un titolo italiano che destò non poche polemiche per via della traduzione poco coerente, ovvero Se mi lasci ti cancello (vs l’originale Eternal Sunshine of the Spotless Mind). I due protagonisti, Joel e Clementine, si incontrano su una spiaggia senza sapere di essere stati coinvolti in una relazione fino a qualche giorno prima quando, a seguito dell’ennesimo litigio, Clementine aveva deciso di rivolgersi a una clinica privata per cancellare dalla sua mente tutti i ricordi della loro storia d’amore, compreso il ricordo stesso di Joel.

Il dolore per la fine di una relazione può essere tanto forte da non poter essere tollerato. Questo evento è considerabile un lutto a tutti gli effetti, che da un lato implica la separazione, dall’altro introduce il concetto di limite come finitezza, impotenza. Ma perché alcune persone sembrano essere più forti e più capaci di attraversare la tempesta e altre rimangono intrappolate nell’eterno ricordo di ciò che non c’è più? Perché alcuni, come Clementine, non attraversano il dolore elaborando la fine della relazione, ma percorrono altre strade spesso con esiti patologici? Tollerare il limite e la frustrazione e attraversare il lutto è possibile se si contiene l’angoscia di separazione.

Di cosa si tratta?

L’angoscia di separazione è un evento centrale di ogni relazione a partire da quella tra madre/caregiver e bambino e si manifesta quando vi è una dipendenza dall’altro, come nel caso del neonato verso la madre/caregiver. La separazione da essa potrebbe essere vissuta come un evento drammatico che potrebbe ripercuotersi sulle future separazioni adulte (Rank, 1924). Le separazioni sono inevitabili nel corso della vita e le conosciamo fin dal primo momento in cui iniziamo la nostra esistenza con la nascita e con lo svezzamento. Il raggiungimento di una posizione depressiva, ovvero il superamento dell’onnipotenza e lo sperimentare l’impotenza e il senso del limite, è ciò che permette a bambini e adulti l’elaborazione della perdita (Klein, 1935). Nel tollerare tale evento la madre/caregiver ha un ruolo fondamentale, infatti è la figura che potrà aiutare il bambino a trasformare e tollerare l’angoscia di morte che si accompagna alla frustrazione, oppure può fallire e creare le premesse della sua patologia relazionale adulta (Bion, 1962). Il bambino nella relazione sviluppa una capacità considerata come una delle conquiste evolutive più difficili, ma necessaria per il raggiungimento della maturità affettiva: la capacità di essere solo, interiorizzando la presenza della madre/caregiver e poi la sua rappresentazione (Winnicott, 1965).

Dunque la capacità di essere solo, maturata nelle relazioni primarie, è ciò che rende tollerabile la separazione. Ma cosa succede quando tale capacità non si è sviluppata?

I fatti di cronaca ci parlano della difficoltà di alcuni di elaborare il lutto della separazione e la fine della storia d’amore, tanto da compiere gesti folli contro di sé e/o contro l’ex partner. Nel film il dolore di Clementine è tale da non poter continuare a vivere con il ricordo di ciò che è stato e di ciò che Joel rappresenta per lei e ad essere eliminato dalla mente è quindi il ricordo dell’Altro (per l’appunto, se mi lasci ti cancello). Nel film come nella realtà quando non è possibile recuperare la relazione si ricorre all’annientamento della rappresentazione dell’altro o, in casi peggiori, all’eliminazione dell’oggetto del dolore.

Quando termina una relazione, oltre all’angoscia di separazione, a entrare in gioco è il nostro senso di identità. Quello che siamo si costruisce nella relazione con l’Altro a partire dalle relazioni primarie, dove attraverso il riconoscimento e lo sguardo della madre/caregiver costruiamo noi stessi e così il sentimento d’identità. Nella relazione con una madre sufficientemente buona il bambino sperimenta di esistere e sviluppa un senso di Sé separato (Winnicott, 1971). Dunque il senso di identità per costruirsi necessita di una relazione e di un Altro da sé, ma successivamente deve essere in grado di sviluppare un Sé separato che possa esistere anche in assenza dell’Altro.

Lo stabilirsi del sentimento d’identità comporta il fatto che l’individuo reagisca con angoscia per la nuova situazione e con sentimenti depressivi relativi al lutto per l’oggetto perduto e anche alla perdita di aspetti del proprio Sé, lutto per il Sé (Grinberg e Grinberg, 1975). I momenti di cambiamento (come la fine di una relazione) pongono al centro il processo di elaborazione del lutto e se tale elaborazione non avviene ciò rappresenta una resistenza al cambiamento stesso.

In una celebre canzone di Riccardo Cocciante, Quando finisce un amore, oltre al lutto per l’oggetto perduto ritroviamo il bisogno di recuperare aspetti di Sé e ricostruirli, come esito della crisi che porta al cambiamento:

E vorresti cambiare faccia

E vorresti cambiare nome

E vorresti cambiare aria

E vorresti cambiare vita

E vorresti cambiare il mondo

[…]

Però, se potessi ragionarci sopra

Saprei perfettamente che domani sarà diverso

Lei non sarà più lei

Io non sarò lo stesso uomo

Chi invece sembra non avvicinarsi al cambiamento, non tollerare l’angoscia di separazione e non accettare la perdita è Clementine, che decide di non voler più pensare a Joel, rifiuta di averlo conosciuto e di aver condiviso insieme due anni della sua vita tanto da rivolgersi a una clinica per farsi cancellare i ricordi.

Ma proviamo ora a osservare la fine dell’amore da un altro punto di vista.

E se la decisione di cancellare la memoria non fosse tanto legata alla perdita di Joel quanto al proteggere se stessa? Ovvero, se il dolore non scaturisse tanto dalla perdita dell’oggetto d’amore quanto più dallo smarrimento di se stessi e dall’urgenza di rimettere insieme i brandelli lacerati del senso di identità, che in parte è andato perduto con la fine della relazione? Per usare i termini dei coniugi Grinber (1975) la reazione potrebbe quindi essere spiegata non tanto dal lutto per l’oggetto perduto quanto più dal lutto per il Sé. Il senso di identità viene dunque “cancellato” dall’Altro che con la fine della relazione porta via con sé pezzi di noi (da qui l’idea del titolo dell’articolo Se mi lasci, mi cancelli!).

Ecco quindi che giungiamo a una riflessione che mette in luce il senso narcisistico di alcune reazioni conseguenti alla fine della relazione. A essere intaccato è il senso di identità, l’essere riconosciuti e amati. E cosa accade se questo dipende dall’Altro? Un senso di sé non separato, un’incapacità di superare l’onnipotenza e di fare i conti con la propria impotenza e con il senso del limite, lo sperimentare la perdita di sé nella relazione con l’Altro, l’impossibilità di possedere l’Altro sono lo sfondo di molti omicidi e della non accettazione che l’Altro non ci voglia più, non ci ami più e rivolga ora lo sguardo altrove.

Prendo in prestito alcune parole dal web attribuite a Umberto Galimberti (tuttavia non vi sono riferimenti bibliografici che lo accertino), che sono state illuminanti su questo tema così attuale.

Quando finisce un amore non soffriamo tanto del congedo dell’altro, quanto del fatto che congedandosi da noi l’altro ci comunica che non siamo un granché. In gioco non è tanto la relazione, quanto la nostra identità. L’amore è uno stato ove per il tempo in cui siamo innamorati non affermiamo la nostra identità, ma la riceviamo dal riconoscimento dell’altroe quando l’altro se ne va restiamo senza identità. Ma è nostra la colpa di esserci disimpegnati da noi stessi, di aver fatto dipendere la nostra identità dall’amore dell’altro. E allora, dopo il congedo, il lavoro non è di cercare di recuperare la relazione dell’altro, ma di recuperare quel noi stessi che avevamo affidato all’altro, al suo amore, al suo apprezzamento.

È chiaro quindi quanto sia importante sviluppare e proteggere il proprio senso di identità e quanto la relazione psicoterapeutica possa essere un aiuto. Oggi più che mai la psicoterapia è un’interessata osservatrice di ciò che è la società e del funzionamento narcisistico che la contraddistingue ed è chiamata a lavorare sullo sviluppo della persona e dell’amore sano verso di sé quale generatore di relazioni basate su condivisione e reciprocità e non di autoaffermazione e dominio dell’Altro.

E tu, quanto ti senti persƏ dopo la fine di una relazione? Hai mai pensato di iniziare un viaggio terapeutico alla ricerca di te stessƏ?

Dott.ssa Tatiana Giunta

Psicologa – Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.

Grinberg, L. e Grinberg, R. (1975). Identità e cambiamento. Roma, Armando, 1976.

Klein M. (1935). Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In Scritti 1921-1958, Torino, Boringhieri, 1978.

Rank O. (1924). Il trauma della nascita. Firenze, Guaraldi, 1972.

Winnicott D.W. (1965). La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1974.

Winnicott D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma, Armando, 1974.

IL LUTTO COME ESPERIENZA DI VITA

Tutti noi nella vita, prima o poi, ci troviamo a fare i conti con il terribile dolore per la morte di una persona cara, a noi vicina.

Leonardo Sciascia, il celebre scrittore del Novecento, annunciava:

“La morte è terribile, non per il non esserci più, ma al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, di mutevoli pensieri che restano”.

La tristezza, il dispiacere, il dolore per la perdita apre molti interrogativi a cui non riusciamo, sempre, a trovare una risposta: “Riuscirò a sopportare la sua assenza?”, “Mi dimenticherò di lui/lei?”, “Quanto durerà tutto questo?”, “Tornerò ad essere di nuovo felice?”.

La morte di una persona cara ci fa cadere nel triste vortice del lutto (dal latino lugere = piangere, dolersi) e non sempre sentiamo di avere i mezzi per superare un evento della vita che ci accomuna.

In cosa consiste il lutto?

 

Perdere una persona, inevitabilmente innesca un processo di cambiamento che crea una temporanea disorganizzazione dell’individuo e del sistema familiare. Chi lo vive si trova ad attraversare diverse fasi che la psichiatra Elisabeth Kubler Ross, nel 1970, ha individuato in 5.

Si parla di fasi e non di stadi proprio perché le fasi possono ripresentarsi più volte e alternarsi con varia intensità e senza un ordine preciso.

– Negazione o rifiuto —> di solito caratterizza i primi giorni, quando vengono messi in atto meccanismi di difesa di negazione. In questa fase le frasi più frequenti sono “non ci credo”, “non è possibile”.

– Rabbia —>. in questa fase si manifestano emozioni forti quali rabbia, paura che vengono orientati indistintamente a tutti (familiari, se stessi, medici, la persona cara scomparsa).

– Contrattazione o patteggiamento —> si crea una sorta di negoziazione con amici, familiari, figure religiose, o se stessi “prometto che…” “ Oh mio Dio se starò meglio farò…”. La persona inizia a riprendere il controllo della sua vita, a rivalutare le proprie risorse e a riacquistare l’esame di realtà.

– Depressione —> è la fase della disperazione e spesso coincide con il momento in cui si cerca un aiuto, anche psicologico per superare questo lutto.

– Accettazione —> quando il paziente elabora quanto è accaduto intorno a lui, avviene

un’accettazione della propria nuova condizione.

Per quanto la morte sia una certezza nelle nostre fugaci vite, non sempre l’elaborazione di essa è così naturale e serena, non sempre la rassegnazione è possibile e non sempre siamo in grado di abbracciarla con facilità.

Esistono elaborazioni del lutto complicate, definiti lutti patologici, dove il lavoro verso l’accettazione e la rassegnazione, che ci conduce a “lasciar andare” la persona cara, non è sempre così immediata.

In che modo una psicoterapia può essere d’aiuto?

In psicoterapia si usano le parole, e proprio le parole permettono di trasferire le esperienze vissute in linguaggio e consentono di rendere possibile l’integrazione di sentimenti e di pensieri. E’con le parole che diamo un senso al mondo e, di conseguenza, al nostro mondo interiore.

  

Attraverso una narrazione guidata da un professionista è possibile esprimere la perdita, mettere a fuoco le emozioni che pervadono le nostre giornate (rabbia, colpa, ansia, impotenza, tristezza).

Ovviamente perché questo possa avvenire bisognerà parlare della morte, un termine che spesso non utilizziamo, un concetto che vogliamo tenere lontano da noi perché è forte, fa paura, è un tabù sociale.

Si parlerà del passato, quando la persona defunta era ancora in vita, si scaverà nel legame che era presente tra i due, si riattiveranno i ricordi per giungere ad esplorare le proprie risorse interne come risposta a tutto ciò, come risposta alla morte.

Una condizione di lutto non deve essere subita, non siamo passivi a questo, ma deve venir “attraversata”, magari lasciandoci guidare da un professionista, ma con la consapevolezza che si può andare oltre.

 

Dott.ssa Sonia Allegro 

Psicologa – Psicoterapeuta