Categoria: <span>salute psicologica</span>

IL LUTTO NON E’ UN EVENTO PRIVATO. I compiti della famiglia nell’elaborazione del lutto

Quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui”

Alessandro Baricco

Malgrado sia la famiglia il luogo naturale dove si vive una perdita e si elabora il lutto, da sempre l’esperienza della perdita è stata affrontata dalla psicoanalisi in termini individuali, per la risonanza emotiva che assume nella vita più intima del soggetto colpito dal dolore per la perdita di un affetto. Tuttavia non possiamo fermarci alla dimensione individuale, ma è necessario indagare anche gli effetti che il lutto produce nella dimensione più ampia della famiglia.

Il lutto costituisce, come affermano Andolfi e D’Elia (2007), “un affare di famiglia” ed è quindi nel contesto familiare che vanno ricercate le risorse per la sua elaborazione o per la sua mancata elaborazione. Risulta quindi necessario coinvolgere il mondo interno della persona, le sue relazioni familiari e sociali, i suoi valori, la sua cultura (Onnis, 1988).

Per la famiglia di oggi è molto più difficile affrontare il lutto rispetto al passato. In passato, la perdita di un affetto attivava un processo di condivisione del dolore a cui tutti i membri della famiglia stretta e dell’intera comunità partecipavano attivamente. Generalmente la persona moriva in casa, tutta la famiglia era coinvolta in uno specifico cerimoniale che iniziava con la cerimonia funebre e si concludeva generalmente dopo un anno, con il rito dell’anniversario di morte, momento in cui la famiglia stretta si legittimava a non indossare più abiti neri in segno di lutto.

Negli ultimi anni invece, si è assistito ad un incremento dei contesti assistenziali istituzionali, così la morte, da un momento di saluto condiviso del proprio caro, è diventato qualcosa da evitare e da vivere in solitudine, rimanendo a tutti gli effetti  un tabù da cui bisogna proteggersi. Il risultato è che spesso manca l’appoggio reciproco e il rischio è che tutti si sentano soli, trovandosi improvvisamente di fronte ad una morte che avevano previsto, ma che non hanno potuto preparare. Le famiglie di oggi così poco numerose  e così diverse dal passato, hanno più difficoltà a contenere in un gruppo solidale un evento particolarmente doloroso e traumatico come la perdita di uno dei suoi membri. Riuscire ad accettare ed elaborare la morte di un familiare dipende, ancora una volta da diversi fattori quali l’età del defunto, la natura della morte, la posizione occupata in vita nella famiglia e le implicazioni emotive, ma anche dalle caratteristiche del sistema familiare e dal suo grado di “apertura e flessibilità”.

La famiglia funziona come un sistema unitario, la perdita di uno dei suoi membri è un evento stressante per tutto il sistema familiare, soprattutto per i cambiamenti e i riadattamenti che essa impone. Al pari delle relazioni individuali, anche la famiglia vive la stessa sequenza di reazioni: shock, negazione e rifiuto, disperazione, rielaborazione, fase di accettazione e fase di lutto. In ciascuna di queste fasi p verificarsi una sorta di blocco o di irrigidimento che non consentirà al sistema di procedere oltre nelle tappe successive del lutto né di giungere alla sua completa elaborazione, spesso per una reciproca protezione dal dolore. Ad esempio potrà generarsi un tacito accordo secondo il quale non si può far riferimento all’evento luttuoso in nessuna situazione, oppure porterà i singoli a svolgere compiti e funzioni sempre uguali a loro stesse, con lo scopo di consolare e proteggere il familiare che secondo tutti, è stato quello più danneggiato dalla perdita. In entrambi i casi viene bloccata l’elaborazione del lutto e la possibilità di una ripresa della vita familiare. Secondo Minuchin (1982), la famiglia che ha sperimentato una morte o un abbandono può avere delle difficoltà nella riattribuzione dei compiti del membro che manca. Spesso si fisserà in un atteggiamento tipo: se la mamma fosse ancora viva, saprebbe cosa fare. Ciò significa che subentrare alla madre nelle sue funzioni sarebbe un atto di infedeltà alla sua memoria. Minuchin individua le morti prenatali o perinatali, gli aborti (volontari o involontari), le morti di bambini a pochi giorni, come le perdite più rilevanti che modificano la struttura emotiva della coppia e della famiglia. Per esempio l’aborto anche se è un evento programmato “scelto” e non accidentale è un lutto particolarmente difficile da elaborare proprio perché viene vissuto intimamente come qualcosa di cui vergognarsi e raramente viene condiviso. Sempre secondo Minuchin i “tempi” di elaborazione del lutto rientrano tra i 9-12 mesi, entro questo “tempo” la famiglia e l’individuo si evolverà verso una nuova situazione (sviluppo del processo di elaborazione) oppure si cristalizzeràsulla struttura organizzativa presente (blocco del processo di elaborazione). Alcune persone affrontano il lutto nascondendolo a loro stesse, spesso in terapia accade che la persona arrivi a parlare del lutto quasi accidentalmente, in questi casi parliamo di “negazione dell’evento doloroso”. Tra i diversi meccanismi di difesa che consentono alla persona di non entrare in contatto con una realtà troppo dolorosa e con i sentimenti ad essa legati, c’è appunto la “negazione” quella modalità per cui i contenuti dolorosi possono accedere alla coscienza alla sola condizione di essere negati. Ne risulterà un’accettazione esclusivamente razionale, negando tutto l’impatto emotivo che l’evento porta con sé.

Un altro elemento che può facilitare o bloccare l’elaborazione del lutto è l‘ambiguità dei confini familiari. I confini familiari sono intesi come l’insieme di norme che regolano i rapporti tra i vari sottosistemi (Minuchin, 1977). Come la membrana attorno alla cellula, i confini devono essere “solidi” al fine di assicurare l’integrità dell’individuo e “permeabili” per assicurare la comunicazione tra i membri della famiglia. In questo modo si definiscono i ruoli familiari, si marcano le differenze evolutive fra i membri della famiglia, venendo incontro ai bisogni emotivi di ciascun membro. Si individuano due tipologie di famiglie: famiglie invischiate (confini deboli) caratterizzate da un elevato livello di coesione, eccessiva vicinanza e indebolimento dei ruoli familiari; famiglie disimpegnate (confini rigidi) caratterizzate da uno scarso livello di coesione, marcata differenziazione e scarsa connessione tra i sottosistemi.

La tipologia di confini, dopo un primo momento in cui l’ambiguità dei confini sembra essere fisiologica, influenzerà la modalità con cui la famiglia reagirà al lutto.

Byng-Hall (1998), sostiene che chi subisce una perdita deve necessariamente assolvere a due compiti: piangere la persona scomparsa e dover rinunciare alle speranze e alle aspettative per ciò che sarebbe successo nel futuro con la persona che è venuta a mancare. In sostanza, la famiglia si ritrova a piangere il “copione” familiare che la famiglia aveva scritto per il futuro e dover riscrivere un “nuovo copione” che preveda l’assenza della persona defunta. Byng-Hall (1988) definisce i copioni familiari come le aspettative condivise dalla famiglia su come i ruoli familiari debbano essere rispettati all’interno di contesti diversi e su cosa deve essere detto o fatto all’interno delle relazioni familiari. Di fronte ad una perdita, la famiglia deve elaborare il lutto per quel copione familiare che prevedeva la presenza di tutti i suoi componenti. L’esempio più significativo è quello di genitori che perdono un figlio, insieme al lutto per il figlio dovranno elaborare il lutto per le speranze e le aspettative che avevano per il futuro del loro figlio, trovando la forza per piangere il vecchio copione e allo stesso tempo la forza per riscriverne uno nuovo.

Murray Bowen, nel saggio dal titolo “La reazione della famiglia alla morte” definisce la morte come un’onda d’urto emotiva che si diffonde intergenerazionalmente, generando disturbi psicopatologici nei suoi membri che spesso ne ignorano l’eziologia. L’onda d’urto emotiva non è direttamente correlata alle reazioni di dolore ma è piuttosto espressione del livello di fusione emotiva e di indifferenziazione presente tra i componenti della famiglia. La si può paragonare ad una sorta di contagio emozionale dove la sofferenza si diffonde dall’uno all’altro membro della famiglia sulla base della dipendenza emozionale esistente, di mancata differenziazione e di ipercoinvolgimento.

Due caratteristiche del sistema familiare possono facilitare oppure ostacolare l’elaborazione del lutto: un “sistema relazionale aperto” e un “sistema relazionale chiuso”. Nel sistema relazionale aperto, i sentimenti possono essere espressi liberamente senza timore di contagiare gli altri. La differenziazione tra i membri permette uno scambio comunicativo ampio e significativo e di conseguenza, una più semplice elaborazione del lutto per la persona che sente di poter condividere con i membri della sua famiglia i contenuti emozionali. Un sistema relazionale chiuso, invece, è rappresentato da quella famiglia in cui un individuo non è libero di comunicare pensieri, sentimenti e fantasie a causa della dipendenza emotiva dall’altro, non tutte le emozioni hanno l’autorizzazione ad essere espresse, ed è per questo meccanismo che spesso il lutto si trasforma in un argomento tabù di cui non si può assolutamente parlare.

La capacità comunicativa rispetto alla profondità del dolore, è una risorsa della famiglia, quando questa capacità viene meno, si manifesteranno modalità protettive e collusive, l’elaborazione del lutto sarà complicata e rallentata. Norman Paul (1965), evidenzia come eventuali lutti non risolti nel passato familiare possano avere un impatto significativo sugli scambi trigenerazionali, questo punto di vista pone l’accento su come il lutto non risolto possa tramandarsi di generazione in generazione. Per Canevaro (2005), lo scenario naturale del lutto non è solo la famiglia nucleare , bensì l’intero sistema trigenerazionale, che costituisce la rate allargata e che, insieme agli amici, si trasforma nel supporto più importante del sistema familiare nucleare e del singolo soggetto.

A seguito della perdita di uno dei suoi membri, sia il singolo che la famiglia, si trovano a dover svolgere una serie di compiti. I compiti che spettano all’individuo sono di natura intrapsichica, quelli invece, che spettano alla famiglia hanno una matrice relazionale che si fonda sullo scambio comunicativo e sulla capacità di riorganizzazione della struttura familiare.

Goldberg (1973), Gilbert (1996) e Pereira (1999), hanno individuato i compiti che la famiglia dovrà affrontare per una buona elaborazione del lutto:

riconoscere la perdita e che ciascuno dei membri della famiglia vive il proprio dolore
permettere a ciascun membro di esprimere sentimenti di tristezza, vuoto e dolore
rinunciare alla presenza della persona scomparsa
favorire la condivisione della sofferenza e del dolore tra i vari membri della famiglia
riallineare i ruoli, per permettere alla famiglia di riorganizzarsi  al proprio interno
riallineare i ruoli e i confini extrafamiliari, la famiglia si occuperà di riorganizzare la sua relazione con il mondo esterno
riaffermare il sentimento di appartenenza al nuovo sistema familiare

In conclusione affinché il lutto possa essere elaborato è necessario che la persona colpita possa dare libero sfogo alle proprie emozioni (paura, struggimento, collera, tristezza, senso di colpa), ovvero che attraversi tutte le fasi di elaborazione del lutto. Quando questa possibilità viene negata (dal soggetto stesso o dal sistema familiare), il lutto si blocca ed i vissuti emozionali che non hanno trovato il giusto ed adeguato sfogo, determineranno una pressione costante e duratura sul singolo fino ad arrivare ad un tipo di funzionamento patologico.

Dott.ssa Angela Pia Giampalmo

Psicologa-Psicoterapeuta

Bibliografia

Andolfi, M.- D’Elia, A. (2007), Le perdite e le risorse della famiglia, Raffaello Cortina, Milano.

Bowen, M. (1979), Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma.

Byng-Hall, J. (1998), Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico. Raffaello Cortina, Milano.

Canevaro, A. (2005), Approccio trigenerazionale al lutto familiare. In saggi, Child development and disabilities, Vol. XXXI, Associazione la nostra famiglia, Bosisio Parini.

Goldberg, S.b. (1973), Family Tasks and reactionsin the crisis of death, Family Service Association.

Haley, J. (1976), Terapie non comuni, Astrolabio, Roma.

Minuchin, S. (1977), Famiglie e terapia della famiglia, Astrolabio, Roma

Minuchin,S., Fishman, H.C. (1982), Guida alle tecniche della terapia della famiglia, Astrolabio, Roma.

Onnis, L. (1988), Famiglia e malattia psicosomatica, NIS, Roma.

Pereira, R. (2006), Un approccio sistemico al lutto, in Psicobiettivo, Fascicolo 1, Franco Angeli, Milano.

BALBUZIE E AGGRESSIVITA’: una lettura psicoanalitica

Quante volte ci siamo imbattuti in una di quelle giornate estenuanti dove risulta faticoso anche articolare le parole? Come ci sentiamo in quella situazione? Cosa percepisce il nostro interlocutore? Immaginiamo che questo avvenga quotidianamente e che non sia influenzato dalla stanchezza. Immaginiamo che possa accompagnare le giornate di una persona fin dall’infanzia con ripercussioni in ambito sociale, sull’interazione e sull’autostima.

Stiamo parlando di balbuzie, ma di cosa si tratta?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera la balbuzie un disordine del ritmo della parola, un disturbo di fluenza del linguaggio.

Si tratta di un disturbo universale, cioè si riscontra in tutta la popolazione e nei diversi ambiti sociali. Diversi personaggi celebri erano balbuzienti e nonostante la loro difficoltà sono stati capaci di fare della comunicazione il loro mestiere, basti pensare tra i tanti ad Aristotele, Virgilio, Wittgenstein, re Giorgio VI (meravigliosamente ritratto nell’affrontare la sua difficoltà nella pellicola Il discorso del re), Churchill e Marilyn Monroe.

In genere la balbuzie insorge più facilmente durante la prima infanzia, all’inizio della scuola primaria e con la pubertà, mentre l’insorgenza in età adulta è legata a traumi o patologie neurologiche. La maggiore frequenza è nella fascia di età 3-6 anni ed è considerata fisiologica, poi la frequenza diminuisce e si attesta sotto l’1% oltre la maggiore età. La maggiore incidenza è presente nel sesso maschile con un rapporto 3-6:1 rispetto alle femmine. Vengono riconosciute tre forme di balbuzie: la tonica, che prevede blocchi improvvisi durante l’emissione; la clonica, che vede la ripetizione di una lettera, una sillaba o una parola all’inizio della produzione; una forma mista delle due precedenti. Un’ulteriore distinzione è tra balbuzie primaria e secondaria, dove la prima si riscontra nei primi anni di vita e il bambino non ne è consapevole, mentre nella seconda vi è coscienza del disturbo e si manifesta in età scolare.

Che ruolo ha la psiche in tutto ciò?

Nell’eziologia della balbuzie vengono riconosciuti fattori organici ma anche funzionali, ovvero la psicologia del soggetto e il funzionamento dell’ambiente. Viene riconosciuta l’implicazione degli aspetti psicologici e relazionali. L’insorgere del disturbo è spesso correlato a episodi traumatici e l’espressione e l’uso dell’aggressività è uno degli aspetti principali della balbuzie.

Ma oltre agli aspetti psicologici individuali, qual è il ruolo dell’ambiente?

Gli studi sulle dinamiche affettive hanno evidenziato che nella nostra cultura occidentale l’ambiente familiare relazionale del balbuziente pare caratterizzato da alcuni elementi specifici:

– iperinvestimento della parola, dove l’aspetto formale è più importante del contenuto affettivo;

– educazione rigida e formale;

– tensioni e contrasti soprattutto con la figura paterna;

– forte richiesta dei genitori che il figlio soddisfi le loro aspettative narcisistiche di successo, ma quando queste vengono disattese si instaura un clima di tensione e un atteggiamento passivo e dipendente del balbuziente o all’opposto manifestazioni di instabilità emotiva.

L’interesse per la balbuzie e gli studi su di essa risalgono a molto tempo fa e diversi psicoanalisti hanno contribuito al tema con i loro apporti teorici.

Uno dei primi psicoanalisti a occuparsi di balbuzie fu proprio Freud (1892-95), che nell’analisi di Frau Emmy von N. evidenziò il disturbo a seguito di una serie di incidenti traumatici. In seguito, lo stesso Freud (1901), in Psicopatologia della vita quotidiana la considera indice di un conflitto interiore.

Successivamente con la psicoanalista Melanie Klein si apre una riflessione rispetto alla balbuzie come una fissazione a uno stadio di sviluppo specifico e diversi autori apportano i loro contributi.

La Klein (1923) espone il caso di una bambina balbuziente e mette in luce come nel linguaggio ci possa essere la sublimazione delle fissazioni orali, cannibalesche e sadico-anali. Fenichel (1945) considera la balbuzie principalmente un sintomo di fissazione allo stadio sadico-anale, mentre per Wassef (1955) sarebbe associata a problematiche edipiche che non si risolvono a causa di conflitti irrisolti negli stadi precedenti. Da questi tre diversi contributi emerge l’aspetto di aggressività.

Altri autori inseriscono nella riflessione sulla balbuzie il ruolo dell’ambiente e della famiglia, che abbiamo precedentemente detto avere un ruolo importante nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo.

Johnson (1959) sostiene che vi sia una visione negativa del linguaggio da parte del balbuziente tale da inibire la parola, evidenziando l’importanza della famiglia nell’insorgenza del disturbo. Glauber(1943, 1950, 1951) riporta le origini della balbuzie al rapporto madre-bambino e alla fissazione a livello orale-narcisistico, che si traduce in aspetti di dipendenza e passività tipici del balbuziente. In un articolo pubblicato postumo l’autore considera il linguaggio come una funzione dell’Io che opera preconsciamente, ovvero il parlare diventa un automatismo. In tal senso la balbuzie sarebbe una disautomatizzazione, il processo non è più inconscio ma controllato dall’Io (Glauber, 1968). Egli avanza l’ipotesi che la disautomatizzazione, ovvero l’investimento conscio delle funzioni preconsce, possa derivare da un trauma. Questo avviene nella separazione dall’identificazione con la madre e l’aggressività che si genera in seguito colpisce il linguaggio nell’automatismo e nella fluenza.

Una visione che prende in considerazione la regressione o la fissazione a più stadi di sviluppo è quella proposta da Anzieu (1964, 1969, 1980, 1982). Secondo lo psicoanalista francese il sintomo della balbuzie si manifesta contemporaneamente su tre registri – paranoico, ossessivo e isterico – corrispondenti rispettivamente ai tre stadi orale, anale e fallico. Il linguaggio costituisce la conquista del simbolico e rappresenta l’accettazione delle differenze generazionali e del divieto dell’incesto, ovvero il superamento dell’Edipo. Secondo tale visione la balbuzie è il sintomo che esprime il conflitto tra il desiderio inconscio e la sua non ammissione. Come per Glauber, anche per Anzieu la balbuzie si manifesta quando le tematiche edipiche di madre e figlio colludono e il balbuziente non riesce a superare la posizione edipica non potendo accedere alla sessualità genitale e al godimento. Per Anzieu, in accordo con Glauber, il sintomo è ineliminabile per la sua natura arcaica e difensiva.

Sulla scia di una visione più allargata la balbuzie viene interpretata come un sintomo, che può presentarsi in diverse forme nevrotiche che esprimono diverse problematiche, in cui gli organi del linguaggio diventano il luogo più adatto per esprimere il conflitto (Sigurtà, 1955, 1970).

Bion (1967, 1970) sottolinea l’aspetto relazionale del balbettare dove lemozione sottostante alla formulazione verbale con cui viene espressa l’esperienza non può essere contenuta dal contenitore linguaggio e ciò che viene espresso è spogliato del suo significato.

Un’altra visione è quella che avvicina la balbuzie a sintomi psicofisici, come l’asma bronchiale (Gaddini, 1980). Secondo Gaddini De Benedetti (1980) vi è un riferimento al distacco e alla separatezza dall’oggetto primario, che hanno un’influenza sulla mente infantile, la quale connette il parlare e il respirare per riattivare una delle prime esperienze della mente, ovvero succhiare e deglutire mentre si respira. Anche Giannitelli (1976) evidenzia nella balbuzie l’attivazione delle pulsioni aggressive e distruttive sulla base di angosce traumatiche di separazione con la localizzazione somatica sulle vie aree, che rimandano all’iperinvestimento dell’aria della fissazione anale – “a livello del pensiero primitivo l’apparato respiratorio sembra diventare la sede dell’incorporazione degli oggetti alla stessa guisa di quello intestinale: alla stessa guisa si prendono e si ricevono sostanze dal mondo esterno, o si restituiscono, si ridanno ad esso”. La balbuzie e le malattie respiratorie sono per l’autore comunicazione di richiamo al rapporto per via somatica con modalità di espressione non verbali.

Le varie letture proposte mettono in luce diverse sfaccettature e convergono in una visione psicoanalitica che considera la balbuzie un sintomo la cui origine si lega a fasi precoci dello sviluppo affettivo, dove l’aggressività è fondamentale e funzionale nei processi di separazione e differenziazione di sé dall’altro. Viene riconosciuta una stretta connessione tra espressione psichica e substrato organico e la balbuzie è considerata una conversione del conflitto psicologico sull’organo – il sistema respiratorio o l’apparato articolatorio-fonatorio. L’aggressività costituisce un nodo fondamentale, è necessaria per stabilire il confine tra sé e l’altro e la parola può attraversare lo spazio che si genera diventando un segno di separazione ma anche di relazione, ma tutto ciò diventa molto faticoso quando alla base vi è un’angoscia di separazione tale da minare la relazione.

Ma come intervenire?

Quando parliamo di trattamento della balbuzie dobbiamo avere a mente che esistono diverse metodologie e tecniche.

Una di queste è il trattamento logopedico, che si avvale di tecniche di rilassamento, di controllo della respirazione e dell’emissione di parole e si occupa di sviluppare abilità verbali e non verbali e di favorire l’interazione comunicativa. Nella prima infanzia generalmente viene sconsigliato il trattamento logopedico, in quanto affinchè esso abbia effetto il bambino deve avere coscienza della balbuzie e ritenerla disturbante. In tale fase si lavora dando consigli ai genitori per evitare che il sintomo si fissi.

Oltre alla figura professionale dello specialista in logopedia, un contributo importante nel trattamento della balbuzie può essere dato dallo psicoterapeuta. Nello specifico, avendo sottolineato l’importanza della visione del disturbo in un’ottica relazionale secondo la quale la balbuzie è un disturbo della relazione interpersonale, si ritiene elettivo il trattamento psicoterapeutico dove terapeuta e paziente si incontrano all’interno di una relazione sufficientemente buona che potrà tradursi in un’esperienza emozionale correttiva (Alexander, 1946).

Dott.ssa Tatiana Giunta

 

BIBLIOGRAFIA

Alexander, F. et al. (1946). Psychoanalitic Therapy: Principles and Applications. New York, Ronald Press.

Anzieu, A. (1964). Reflexions critiques à propos du bégaiment. Révue de NeuropsychiatrieInfantile, 1-2, 101.

Anzieu, A. (1969). Sur quelques traits de la personnalité du bègue. Bulletin de Psychologie, 21, 1022-1028.

Anzieu, A. (1980). Dalla carne al verbo: mutismo e balbuzie. In Anzieu, D. et al., Psicoanalisi e linguaggio. Roma, Borla.

Anzieu, A. (1982). Essai sur le corps fantasmatique du bègue. Pratiques des mots, 40, 14-18.

Bion, W.R. (1967). Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Roma, Armando Editore, 1970.

Bion, W.R. (1970). Attenzione e interpretazione. Roma, Armando Editore, 1973.

Fenichel, O. (1945). Trattato di Psicoanalisi. Roma, Astrolabio, 1951.

Freud, S. (1892-95). Studi sull’isteria. Opere, vol. 1. Torino, Boringhieri, 1967.

Freud, S. (1901). Psicopatologia della vita quotidiana. Opere, vol. 4. Torino, Boringhieri, 1973.

Gaddini, E. (1980). Note sul problema mente-corpo. Rivista di Psicoanalisi, 1, 1981.

Gaddini De Benedetti, R. (1980). Patologia psicosomatica come difetto maturativo. Rivista di Psicoanalisi, 3, 1980.

Giannitelli, S. (1976). Sé ed espressione: condizioni, sviluppo della regolazione energetica e partecipazione somatica. Rivista di Psicoanalisi, 3, 1976.

Glauber, I.P. (1943). Psychoanalytic concepts of the stutterer. The Nervous Child, 2, 172.

Glauber, I.P. (1950). Ego development and the character of the stutterer. Psychoanalytic Quarterly, 19, 142.

Glauber, I.P. (1951). The mother and the etiology of stuttering. Psychoanalytic Quarterly, 20, 160.

Glauber, I.P. (1968). Dysautomatization: a disorder of preconscious ego functioning. The International Journal of Psychoanalysis, 49, I, 89-99, 1968.

Johnson, W. et al. (1959). The onset of stuttering: research, findings and implications. Minneapolis, University of Minnesota Press.

Klein, M. (1923). Analisi Infantile. In Scritti 1921-1958. Torino, Boringhieri, 1978.

Sigurtà, R. (1970). Balbuzie e psicoanalisi (articolo non pubblicato). Istituto di Psicoanalisi, Milano.

Sigurtà, R., De Benedetti Barbieri, M. (1955). La balbuzie. Milano, Minerva Medica, 1956.

Wassef, H.W. (1955). Étude clinique de différentes modalités structurales au cours de psychanalyses de bègues. Revue Française de Psychanalyse, 19, 440-472.

SCUSA una parola tanto semplice quanto difficile da pronunciare

 

Elton John citava “Sorry seems to be the hardest world / Scusa sembra la parola più dificile del mondo”. Ebbene sì, scusa è davvero una parola così tanto difficile da pronunciare. Ma come mai è così difficile chiedere scusa?

Come essere umani ed esseri imperfetti, capita sovente di inciampare, di sbagliare sia con chi ci sta più a cuore che con chi non si conosce. Chiedere scusa, per quanto possa essere una parola così corta e semplice da pronunciare, è in realtà, per alcune persone, la più difficile e temuta. La difficoltà spesso risiede nell’ammettere di aver commesso un errore. Questo comporta in alcuni casi, ammettere di non essere infallibili e questa dura verità può suscitare un profondo senso di vergogna che si cerca con tutte le proprie forze di nascondere. In altri casi invece, comporta ammettere che il proprio comportamento può aver ferito l’altro; entrare in contatto con il dolore dell’altro e sentirsene responsabili può diventare spaventoso da gestire dentro di sé. 

Chiedere scusa tuttavia, ha un profondo effetto riparativo. Quando le scuse sono sincere e autentiche, chi le riceve si sente compreso e confortato. La rabbia lascia il posto ad una sensazione di sollievo che permetterà di non radicarsi dentro di sé trasformandosi poi, in risentimento e rancore. Anche chi le porge sente nascere dentro di sé una sensazione di benessere e sollievo. È il potere della riconciliazione, della riparazione che segue ad una possibile frattura relazionale che si può inevitabilmente creare tra due o più persone.

Ci sono casi in cui è semplice porgere le scuse e altre in cui, è più difficile. Nel primo caso, ci troviamo di fronte a tutte quelle situazioni in cui nessuno è responsabile di qualcosa come per esempio, quando ci si scusa per essere arrivati in ritardo ad un appuntamento a causa di un incidente che ha bloccato il traffico. Ci sono situazioni invece, in cui è davvero difficile. Si tratta di tutte quelle volte che a pagare le conseguenze di una negligenza è una relazione significativamente importante; il non porgere le scuse può diventare il deterrente per lo sfilacciarsi di quel legame così speciale. Ci sono poi, situazioni in cui si procrastina quel fatidico momento perché non si ha il coraggio, non si vuole essere intrusivi o ancora, perché si teme quella che possa essere la reazione dell’altro perché, chiedere scusa significa anche far vedere all’altro la propria vulnerabilità. Così come, diventa difficile farlo, quando si è quasi “obbligati”, quando l’altro le pretende perché vuole che ci si assuma la responsabilità della sua sofferenza. Certo, chiedere scusa richiede anche il compito gravoso non solo di gestire la propria vulnerabilità ma di dover gestire quello che la rabbia e dolore dell’altro possono suscitare dentro di sé.

Ad ogni modo, sta di fatto che il bisogno di scuse e di riparazione resta una prerogativa tipicamente umana. Cerchiamo giustizia e riparazione per i torti subiti. A volte questi torti siamo noi a riceverli, altre volte siamo noi a causarli. Di sicuro, è rassicurante sapere che nella maggior parte dei casi, abbiamo la possibilità di rimediare o perlomeno di provarci perché non è mai troppo tardi.

Vediamo ora cinque aspetti da tener a mente quando dobbiamo chiedere scusa.

 

  1. La consapevolezza del “ma” e del “se”

I “ma” e i “se” sono degli intrusi che spesso susseguono rapidamente le scuse. Introdurre questi piccoli avverbi può minare l’autenticità e la sincerità dell’offerta di pace che si sta porgendo in quanto, rappresentano un tentativo di giustificare le proprie azioni o di mostrarsi accondiscendenti verso la persona che si è sentita ferita. 

Non serve aggiungere molto ad una parola così semplice quanto complessa come “Scusa”. È il primo passo per la riparazione, successivamente si possono creare ulteriori situazioni in cui spiegare le ragioni del proprio comportamento all’interno di un clima più disteso.

 

  1. “Mi dispiace che tu l’abbia presa così”

“Mi dispiace che tu l’abbia presa così” è una frase molto comune che appartiene alla categoria delle pseudo-scuse. In questo caso, quello che avviene è che ci si focalizza non tanto sulle proprie azioni quanto sulla risposta dell’altro, rischiando così di non assumersi la propria responsabilità in merito all’accaduto.

 

3.Le scuse mistificanti

A volte capita che ci si possa ritrovare in situazioni in cui venga chiesto di assumersi la responsabilità per le reazioni dell’altro. “Chiedi scusa a tuo fratello per avergli fatto venire mal di testa con la tua musica assordante”.; si tratta di un chiaro esempio di scuse mistificanti. Maggiore saranno ansia e sensi di colpa, maggiore sarà la tendenza ad assecondare questo tipo di scuse.

 

  1. “Perdonami – e subito!”

Alcune persone sono convinte che ricevere delle scuse sia l’unica e solo strada percorribile per il perdono. Ritenere di dover essere subito perdonati per aver leso l’altro corrisponde in realtà, ad un bisogno personale di rassicurazione per alleviare il proprio dolore e senso di colpa.

Quando le scuse sono considerate una merce di scambio, per esempio con il perdono, il loro reale scopo riparatore rischia di far sentire l’altro nuovamente ferito e non rispettato in quelli che possono essere i suoi tempi per gestire eventuali emozioni come rabbia e tristezza.

Le scuse spesso hanno bisogno di tempo e spazio per arrivare a destinazione.

 

  1. Le scuse intrusive

A volte, può capitare che le scuse che arrivano frettolosamente fanno sentire nuovamente non rispettati e feriti. Seguire l’impulso di entrare in contatto il prima possibile con chi è stato ferito, per cercare di rimediare ai propri errori e attenuare i propri sensi di colpa, può essere percepito come intrusivo e poco attento allo stato emotivo dell’altro.

Ricordiamoci che lo scopo delle scuse è alleviare la sofferenza che le nostre azioni o parole hanno suscitato nell’altro e non alimentare il disagio.

 

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia e sitografia

Harriet Lerner (2018) “Scusa. Il magico potere di ammettere i propri sbagli”. Feltrinelli

Winch Guy (2021) “We all know people who just can’t apologize – here’s why” ed.ted.com

 

SINDROME DEL NIDO VUOTO. Riscoprirsi come individui e coppia

 


L’uscita dei figli da casa, spesso nel ciclo di vita di una famiglia rappresenta un momento di paure e difficoltà, è una fase evolutiva in cui il nucleo originario diventa un trampolino di lancio per i figli e allo stesso tempo dà alla coppia la possibilità di reinvestire nel loro progetto di vita insieme.
E se è vero che in Italia oggi l’uscita da casa è sempre più spesso rimandata dai giovani adulti a causa di condizioni di lavoro precarie che non portano immediatamente a rivendicare l’indipendenza, allora è anche vero che quando finalmente arriverà questa indipendenza, potrà risultare un momento di crisi per gli stessi genitori: sembra che dopo averli spronati, non siano così
disposti a lasciarli andare.
Ogni famiglia si sviluppa e si evolve continuamente. Per le famiglie con bambini, questo inizia con la formazione di una coppia, in seguito con la nascita e la crescita del bambino, continua con l’uscita di quest’ultimo dalla casa di origine e in un’età più matura termina con il ritorno della coppia. Pertanto,la necessità d’indipendenza, che incoraggia i giovani adulti a lasciare gradualmente
la famiglia d’origine, rappresenta uno stadio fisiologico familiare.
La famiglia è, infatti, un trampolino naturale per il ragazzo verso il mondo esterno. Ma anche se questa è una fase perfettamente normale nel ciclo di vita di ogni unità familiare, alcuni genitori lottano più di altri per separarsi dai loro figli, e il “nido vuoto” non è un problema.
Quella che viene comunemente chiamata sindrome del nido vuoto può riguardare sia le mamma e che i papà, ma sembra che siano più predisposte le donne a trovarsi in questa spiacevole situazione presentando sentimenti di tristezza e solitudine, accompagnati da una sensazione di vuoto e perdita di significato. A volte possono verificarsi difficoltà di concentrazione, stanchezza, fatica e una sensazione di preoccupazione eccessiva e diffusa.
Per meglio prevenire e affrontare questo momento di transizione, è importante guardarlo da una diversa prospettiva, comprese le dimensioni individuali, le relazioni coniugali e la genitorialità. Le persone più vulnerabili rispetto alla sindrome del nido vuoto, sono persone che si sono identificate
principalmente nel loro ruolo di genitori nel corso degli anni e vivendo per la maggior parte secondo i bisogni della loro prole e non riconoscendo il proprio bisogno di uno spazio individuale.
Questo non significa certamente interruzione dei rapporti familiari, ma la loro riorganizzazione con un ruolo più paritario mantendo i genitori sempre come punto di riferimento con la possibilità di
sperimentarsi e responsabilizzaresi. L’allontanamento da casa produce un vuoto che, nei casi più gravi, può portare a una perdita di significato nella vita e assumere il significato di lutto reale.

Questa condizione è caratterizzata da reazioni disadattive che si estendono nel tempo e si traducono in alcune costellazioni sintomatiche che affliggono i genitori.
I sintomi più frequenti associati alla sindrome del nido vuoto sono tristezza, ansia, senso di colpa, rabbia,irritabilità,solitudine,che possono causare gravi psicopatologie in termini di depressione maggiore, disturbi d’ansia e,in rari casi, scompenso psicotico.
È importante chiarire che non tutte le coppie sviluppano sintomi negativi della sindrome del nido vuoto. Alcuni studi hanno anche rilevato la presenza di emozioni positive associate ad un aumento dei livelli di intimità, soddisfazione coniugale e libertà. Il fattore protettivo per lo sviluppo della sindrome del nido vuoto è la capacità di svolgere un ruolo diverso.Alcuni studi hanno evidenziato
che le donne che,infatti,costruiscono la propria identità principalmente nel ruolo della madre e dedicano tuttala loro esistenza alla cura del figlio tendono a sviluppare la sindrome perché a seguito del distacco sperimentano una crisi d’identità causata da una mancanza di capacità di adattarsi al nuovo ruolo.
Oltre a questo, è utile anche rinvigorire il rapporto con il proprio partner, che è un punto di riferimento immutabile, individuando nuovi momenti di intimità e condivisione. Inoltre, è necessario cambiareil rapporto con il figlio, riconoscendolo come adulto, costruendo legami più maturi, cos’ come concordare dei confini che renderanno la relazione stabile e funzionale.
Questo potrebbe essere il momento per riprendere possesso della propria dimensione, prendendosi più cura di se stesso e dare voce ai propri desideri. Rivolgere l’attenzione a sé stessi che in precedenza era dedicata maggiormente ai propri figli, magari sentendo vecchi amici o riscomprendo e scoprendo nuovi hobby e passioni.
I partner, che da tempo si sono riconosciuti quasi esclusivamente come genitori, notano che in questa fase è importante ristabilire la dimensione della coppia.
Dopo la prima destabilizzazione, sarà bello riuscire a reinvestire energie emotive e fisiche nella relazione stessa: creare nuovi interessi, dedicarsi ad attività spesso riservate ai figli, poter viaggiare, magari iscriversi a corsi di danza, sviluppare relazioni amichevoli, dedicarsi all’intimità. Pensare di nuovo insieme, in modo che possa riscoprire la coppia, fare progetti, pensarsi ancora insieme e
divertirsi come quando non c’era la responsabilità dei figli. E’ importante saper ridefinire il rapporto tra genitori e figli,”rinnovandolo”ad una nuova fase della vita, pur potendo riconoscere ed accettare l’autonomia dei propri figli e le loro scelte, magari non sempre pienamente condivise ma percepirsi con legati ma con la possibilità di entrare e uscire con la propria individualità.
Dott. Mirco Carbonetti
Psicologo – Psicoterapeuta

Il suicidio negli anziani

Dagli ultimi 50 anni l’età media si è allungata di una ventina d’anni. E continuiamo a guadagnare circa tre mesi ogni anno. Dagli anni Ottanta abbiamo guardato sempre solo al successo, al fascino della gioventù e del benessere, trascurando che siamo diventati il Paese più vecchio del mondo insieme al Giappone: oggi un italiano su quattro ha più di 65 anni.

Quando un quarto della popolazione è anziana entrano in gioco cambiamenti di natura demografica, sociale ed economica che interagiscono in modo complesso con la sfera individuale del soggetto.

All’aumentare dell’età, aumentano le difficoltà di carattere fisico e cognitivo, mentre si restringono le possibilità di interazione sociale.

L’aumento dei problemi di salute e della solitudine possono portare la persona a sviluppare pensieri suicidi.

Spesso quando si pensa al suicidio e a far prevenzione su questo tema ci si rivolge agli adolescenti e giovani adulti, come se fosse questa la fascia d’età più a rischio, ma secondo la rilevazione Istat “Decessi e cause di morte”, nell’anno 2010 tra i residenti in Italia si sono tolte la vita 3876 persone, di queste il 78% erano uomini. Gli over 65enni rappresentano circa un terzo di tutte le vittime di suicidio.

Sia per gli uomini che per le donne la mortalità per suicidio cresce con l’aumentare dell’età ma, mentre per le donne questo aumento è piuttosto costante, per gli uomini si evidenzia un incremento esponenziale a partire dai 65 anni. Tra gli uomini nella classe di età 65-69 anni si registra un tasso pari a circa 14 suicidi ogni 100.000 abitanti della stessa età, che aumenta progressivamente fino a raggiungere, tra gli over 95enni, un picco di circa 46 suicidi ogni 100.000.

Per gli uomini la mortalità per suicidio comincia ad aumentare in modo esponenziale proprio in coincidenza con l’età al pensionamento, che frequentemente coincide anche con la fuoriuscita dei figli dalla famiglia di origine, eventi questi che spesso si associano a una riduzione dei ruoli sociali e a un restringimento dell’ampiezza e densità delle reti di relazione. Tutto ciò, contestualmente al peggioramento dello stato di salute generale legato al naturale processo di invecchiamento, può aumentare il rischio di isolamento sociale che a sua volta concorre ad aumentare il rischio di suicidio. Tra i fattori che contribuiscono ad amplificare il rischio di isolamento sociale c’è anche la perdita del coniuge ed è stato evidenziato come l’essere vedovo sia associato a un rischio cinque volte maggiore di suicidio rispetto alla condizione di

coniugato e che l’impatto della vedovanza sul rischio di suicidio è maggiore per gli uomini che non per le donne.

Sono cifre importanti che rivelano un fenomeno di cui nessuno parla, ma il suicidio nell’anziano è un problema di sanità pubblica in quanto gli anziani rappresentano il gruppo con la più elevata prevalenza di suicidio, soprattutto se di sesso maschile.

Il 75% degli anziani muoiono al loro primo tentativo di suicidio in quanto l’atto è stato pianificato da tempo e non si configura quindi come un atto impulsivo.

Gli anziani non riportano frequentemente pensieri suicidi e non utilizzano servizi preposti quando disponibili. Quindi il suicidio è evento molto frequente, ma poco se ne parla.

Le cause sono legate alla solitudine, alla fragilità fisica e a bisogni esistenziali non soddisfatti. Il suicidio nell’anziano non sempre si verifica in presenza di un disordine mentale o psichiatrico, perché causato dal sommarsi di malattie somatiche o da eventi di vita stressanti.

Il suicidio viene compiuto prevalentemente in solitudine, e in luoghi in cui altre persone non possano intervenire; raramente è una protesta contro l’ambiente, l’aggressività è rivolta contro l’interno, al fine di eliminare le difficoltà ad accettare le tante perdite e i cambiamenti che la vecchiaia comporta.

Diventa possibile, pur nel rispetto della libertà e della autonomia dell’individuo, pensare anche un intervento di prevenzione e di aiuto, tanto più se la suicidarietà è correlata a una condizione psicopatologica o, comunque, a una sofferenza grave che ha molteplici cause e che può essere affrontata.

I farmaci soprattutto quelli antidepressivi potrebbero ridurre i pensieri suicidari e il suicidio. La depressione nell’ anziano si manifesta nel contesto di altre malattie, in associazione alla disabilità, a mutate situazioni sociali. Non deve essere confusa con la tristezza; ma non raramente la depressione è sottosoglia.

La riduzione del supporto sociale per lutto famigliare, il pensionamento, il cambio di abitazione o di setting curativo-assistenziale sono fattori di rischio da valutare adeguatamente; anche l’ insonnia è segno rilevante di depressione e richiede attenzione anche per il possibile impiego di farmaci che riducono l’ attenzione e l’equilibrio (cadute) dell’ anziano. Gli eventi stressanti devono essere rilevati durante l’ anamnesi così come la presenza di malattie come il

cancro, ictus, diabete, cardiopatia con scompenso, politerapia, dolore cronico, lutto recente, storia di ideazione suicida, ipotiroidismo, carenza di vitamina B12 e acido folico.

La prevenzione del suicidio: è possibile?

 

Si dovrebbe cercare di aumentare la resilienza delle persone anziane con esercizi di mindfulness che si contrappone a “mindlessness”, ovvero chiusura mentale, cioè essere incastrati in schemi cognitivi passati, non più funzionali nel presente; l’ obiettivo è il benessere psicofisico della persona, soprattutto anziana.

Sarebbe importante, conoscendo i fattori di rischio, fare prevenzione delle malattie croniche, attivare palestre cognitive, intervenire su situazioni di disagio sociale (solitudine) e psicologico (depressione).

E poi si dovrà aiutare ad elaborare il lutto di chi sopravvive al suicidio di un congiunto anziano.

25 Novembre – giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Confronto tra intelligenza artificiale e una donna sulla violenza di genere

“Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto.

Dire femminicidio ci dice anche il perché”

Michela Murgia

 

 

Novembre 2023, 106 femminicidi.

Nel 2022 sono stati 126

nel 2021, 115 nel 2020, 128

nel 2019, 111

Si stima che almeno l’87% dei femminicidi sia commesso da un familiare, e la metà dal partner/ex.

E non ci sono solo le morti.

Le denunce per maltrattamenti sono passate dalle circa 9.700 del 2013 alle 19.900 di un 2023 che deve ancora finire.

Nello stesso decennio le denunce per atti persecutori è passata da circa 9.600 alle 13.800 di questi 11 mesi. E ricordiamoci che lo stalking è reato solo dal 2009.

Le violenze sessuali hanno registrato un incremento del 40,2% negli stessi dieci anni.

Numeri freddi e spaventosi che è bene sottolineare fanno riferimento ai soli casi denunciati, escludendo quindi quelli che sfuggono alla cronaca e tutto un sommerso che riguarda in particolare le donne più fragili come le migranti, le trans, le sex workers.

 

Il 25 novembre non deve parlare di donne, deve parlare di uomini. Agli uomini.

 

In un Paese nel quale continuano a diminuire gli omicidi, i femminicidi restano pressoché immutati e le violenze sulle donne aumentano. Questo spinge ad una riflessione obbligatoria ma ancora troppo ostracizzata: perché gli uomini uccidono le donne? Perché questa violenza sistemica che tocca trasversalmente donne di qualunque etnia, età, estrazione sociale? E’ una dinamica di potere che le vuole sottomesse. E’ PATRIARCATO.

Una parola “divisiva”, dice chi ha il privilegio di sedere dal lato dei carnefici.

“Not all men”, non tutti gli uomini, gli fanno coro altri, più preoccupati dal sentirsi (dirsi) innocenti che dal capire come recuperare una “dignità di genere” comprensibilmente e profondamente messa in discussione. Eppure nessun uomo è esonerato dal fare la propria parte per smantellare la società che lo privilegia tanto, a discapito di altri. È ora che gli uomini capiscano che possono piangere, chiedere aiuto, sentirsi fragili, che la cultura machista deve finire per la loro libertà e per la nostra sicurezza.

Gender pay gap, pinkwashing, mansplaining, catcalling, victim blaming, tone policing, un mondo di inglesismi che racconta una quotidianità fatta di differenze salariali, di molestie, di controllo economico, di uomini che zittiscono o che pretendono di spiegare alle donne per quali istanze che le riguardano dovrebbero combattere e come farlo. A voce bassa e senza disturbare troppo, grazie.

“Avete già ottenuto molto” “Un passo per volta” “Le priorità sono altre” “Gli uomini si sentono destabilizzati” “Vedete il patriarcato ovunque”

Si è addirittura coniato il termine “nazifemminismo” per dipingere le donne come invasate, violente e ottuse, come se poi si chiedesse di togliere qualcosa a qualcuno, e non di ottenere tuttə di più.

In un Paese con il 97% di CEO uomini, con una media del 13% di differenza salariale, sono sempre tavole rotonde di maschi bianchi cis etero che dettano le regole di un flebile diritto all’aborto, che osteggiano la diffusione di un italiano inclusivo tra schwa e professioni finalmente declinabili al femminile, svilendo la necessità di essere riconosciute anche per mezzo delle parole come se si trattasse di un capriccio, mentre le parole sono tutto ed è attraverso queste che esistiamo. Sono questi stessi uomini che vorrebbero decidere come intervenire per prevenire la piaga sociale che miete vittime con un cadenza media di una ogni 72 ore. Perché è di prevenzione che si deve parlare.

Di una pena più severa, una donna morta non sa che farsene.

 

Fonti:

Ministero dell’Interno, Wired, Osservatorio violenza sulle donne, Osservatorio nazione Non Una di Meno

 

Per approfondire:

Donata Columbro, giornalista, “femminista dei dati”

Ella Marcello, copywriter, insegnante, scrittrice, attivista

Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista, scrittore

Mica Macho, community di sensibilizzazione contro la mascolinità tossica

Flavia Brevi, fondatrice e creativa di Hella Network ed esperta di comunicazione inclusiva

 

———————————————————————————————————————–

 

 

Intervista all’Intelligenza Artificiale su violenza di genere e risposta maschile al fenomeno.

 

Intervistatore: Quali sono gli aspetti chiave che alimentano la cultura patriarcale?

IA: La cultura patriarcale si basa su stereotipi di genere, aspettative sociali e norme che favoriscono un genere a discapito dell’altro, contribuendo a disuguaglianze e comportamenti dannosi.

 

Intervistatore: Quali sono i comportamenti di violenza di genere associati alla cultura patriarcale?

IA: La violenza di genere collegata alla cultura patriarcale comprende molestie sessuali, abusi domestici, discriminazione economica, violenza simbolica e psicologica, violazione dei diritti riproduttivi e femminicidio. Ad esempio:

· Controllo e Possesso: Un partner che controlla i movimenti o il telefono dell’altro, limitando il contatto con amici e familiari.

 

· Mascolinità tossica: Un individuo che manifesta comportamenti aggressivi, in parte influenzato da una cultura che enfatizza la mascolinità aggressiva e la repressione delle emozioni.

 

· Giustificazione della Violenza: In una comunità che minimizza o giustifica la violenza contro le donne, un uomo potrebbe interpretare erroneamente atti violenti come accettabili in risposta a provocazioni percepite.

 

· Sottovalutazione delle donne: In un ambiente in cui le donne sono sottostimate, un individuo potrebbe non attribuire il giusto valore alle loro vite e opinioni.

 

Questi esempi illustrano come queste dinamiche si manifestano nella vita quotidiana, evidenziando la necessità di affrontare la cultura patriarcale per prevenire la violenza di genere, inclusi i femminicidi.

 

Intervistatore: La cultura patriarcale può quindi contribuire ai femminicidi?

IA: Sì, la cultura patriarcale può creare un ambiente in cui un femminicida si sente sostenuto o giustificato. Punti chiave includono il controllo e il possesso, la mascolinità tossica, la giustificazione della violenza e la sottovalutazione delle donne.

È importante sottolineare che non tutti coloro che crescono in una cultura patriarcale diventano femminicidi, ma la presenza di tali ideologie può alimentare la violenza di genere e contribuire alla percezione errata che alcuni uomini hanno del loro diritto di esercitare controllo estremo e violento sulle donne. Affrontare la cultura patriarcale è cruciale per prevenire la violenza di genere, inclusi i femminicidi.

 

Intervistatore: Hai citato una delle obiezioni tipiche degli uomini sulla necessità che si considerino parte del problema. Rispondi alle principali di queste?

IA:

1. Obiezione: “Not all men are like that. Non tutti gli uomini sono così” •

**Risposta: “Certamente, non si tratta di generalizzare tutti gli uomini. Tuttavia, riconoscere che alcune dinamiche culturali possono perpetuare comportamenti dannosi è fondamentale per il cambiamento.”

2. Obiezione: “Io non c’entro niente con la cultura patriarcale.” •

**Risposta: “È comprensibile sentirsi distanti da certi comportamenti, ma è importante capire come la cultura patriarcale possa influenzare indirettamente anche le persone benintenzionate. Riconoscere questo può essere il primo passo verso un cambiamento positivo.”

3. Obiezione: “Perché dovrei sentirsi in colpa per qualcosa che non ho fatto?” •

**Risposta: “Non si tratta di colpa personale, ma di responsabilità collettiva. Prendere coscienza delle dinamiche di genere e lavorare insieme per promuovere l’uguaglianza può contribuire a un cambiamento positivo senza attribuire colpe individuali.”

4. Obiezione: “Anche le donne commettono violenza.” •

**Risposta: “È vero, la violenza non ha genere. Tuttavia, concentrandoci sulla cultura patriarcale, ci stiamo concentrando su un sistema che storicamente ha favorito gli uomini. Riconoscere questo non diminuisce l’importanza di affrontare ogni forma di violenza.”

5. Obiezione: “Questo discorso genera odio verso gli uomini.” •

Risposta: “L’obiettivo non è generare odio, ma promuovere la consapevolezza e il cambiamento. Riconoscere la presenza della cultura patriarcale è il primo passo per creare una società più equa in cui uomini e donne possano vivere senza restrizioni basate sul genere.”

 

Intervistatore: Puoi fare un esempio del paradosso insito nella risposta “Not all men”?

IA: Immagina di essere in un contesto in cui qualcuno fa un commento razzista. È probabile che tu, giustamente, reagiresti e condanneresti tale comportamento, anche se personalmente non sei razzista. Potresti sentire l’importanza di intervenire contro un’ingiustizia, anche se non sei direttamente coinvolto. Ora, porta questa stessa situazione in un contesto di sessismo. Se qualcuno fa un commento sessista o compie un’azione discriminatoria basata sul genere, la risposta potrebbe essere simile: “Ma io non sono così, non lo farei mai.” Tuttavia, in questo caso, potrebbe esserci una maggiore resistenza a intervenire o a riconoscere l’urgenza di combattere la cultura patriarcale. Il paradosso sta nel fatto che, mentre entrambe le situazioni coinvolgono la condanna di comportamenti discriminatori, c’è spesso una maggiore reticenza a riconoscere l’importanza di affrontare il sessismo. La chiave sta nel comprendere che il riconoscimento e la lotta contro tutte le forme di discriminazione, compreso il sessismo, sono essenziali per costruire una società veramente equa e inclusiva. Non è sufficiente rifiutare personalmente tali comportamenti; è cruciale prendere una posizione attiva contro la cultura che li perpetua.

 

Intervistatore: Ma perché un uomo riconosce più facilmente che deve sanzionare un comportamento omofobo o razzista che uno sessista o prevaricante?

IA: Gli uomini tendono a riconoscere e condannare più facilmente comportamenti omofobi o razzisti rispetto a quelli sessisti o prevaricanti. Questo può essere attribuito alla maggiore visibilità mediatica delle discriminazioni legate all’orientamento sessuale o alla razza, a una maggiore educazione su queste questioni, al persistente stigma sociale contro chi si oppone all’omofobia o al razzismo e alla percezione di minaccia personale che la lotta contro la cultura patriarcale potrebbe rappresentare per il loro status e privilegi.

 

Intervistatore: Cosa vorresti dire alle donne che sono arrabbiate per l’ennesimo femminicidio e per il poco supporto che ricevono nel creare un cambiamento?

IA: Vorrei dire alle donne che la loro rabbia è valida e comprensibile. La frequenza dei femminicidi è sconvolgente e giustifica un’indignazione diffusa. È importante riconoscere che la vostra lotta per la giustizia e l’uguaglianza è cruciale per promuovere un cambiamento significativo. Sappiate che non siete sole e che molte persone condividono la vostra preoccupazione. La vostra voce è un motore per il cambiamento sociale. Continuate a sollevare la vostra esperienza, a chiedere responsabilità e a promuovere consapevolezza sulla violenza di genere. Insieme, possiamo lavorare verso una società più sicura e rispettosa per tutti.

 

Intervistatore: E cosa vorresti dire agli uomini che faticano ad esserci alleati?

IA: Vorrei dire agli uomini che diventare alleati nella lotta contro la violenza di genere è un passo importante verso la costruzione di una società più equa e sicura per tutti. Non si tratta di colpevolizzare individualmente, ma di riconoscere il potere collettivo nel creare un cambiamento positivo.

Ecco alcune considerazioni per essere alleati nella lotta contro la violenza di genere:

1. Ascoltare e Imparare: Ascoltare senza difensività le esperienze delle donne e educarsi sulle questioni di genere.

2. Riflettere e Riconoscere: Riflettere sulle dinamiche di genere nella propria vita e riconoscere il ruolo nella promozione dell’equità.

3. Intervenire attivamente: Non tacere di fronte a comportamenti sessisti, intervenire nelle conversazioni quotidiane per promuovere un ambiente rispettoso.

4. Promuovere l’Uguaglianza sul Luogo di Lavoro: Sostenere politiche aziendali per l’uguaglianza di genere, inclusa la parità salariale e di opportunità.

5. Essere Consapevoli del Proprio Privilegio: Comprendere i privilegi di genere e usarli per amplificare le voci delle persone emarginate.

6. Essere Aperti al Dialogo: Aprirsi al dialogo con altri uomini sulla violenza di genere e sull’importanza di essere alleati. La consapevolezza e il sostegno reciproco sono essenziali per il cambiamento collettivo. Sostenere l’uguaglianza di genere è una responsabilità di tutti, richiedendo impegno, auto-riflessione e azione continua.

 

 

Abbiamo posto le stesse domande ad una donna che si è resa disponibile a risponderci.

 

Quali sono gli aspetti chiave che alimentano la cultura patriarcale? E’ innegabile che l’assoggettazione della donna porti vantaggi agli uomini, almeno a quelli che non riescono a vedere nell’equità un valore, e che amano detenere una posizione di potere sugli altri. Il cambiamento fa paura, l’idea di perdere questa posizione di vantaggio spaventa, ed ecco che consapevolmente alcuni inconsapevolmente altri, si battono perchè questo cambiamento non avvenga e per difendere la propria posizione apicale.

John Lennon cantava “Woman is the nig*er of the world”, “La donna è il nero del mondo”, perchè è solo l’assoggettazione della donna a mettere d’accordo tutte le alterità del mondo maschile.

Anche agli uomini che vivono la discriminazione per il proprio orientamento sessuale, ceto, colore della pelle, viene riconosciuta maggiore dignità sociale della donna, la quale trasversalmente a tutte le culture, siede sullo scalino più basso della scala gerarchica.

 

Quali sono i comportamenti rientranti nella violenza di genere che possono essere ricondotti alla cultura patriarcale? A partire dalla violenza esternata pubblicamente sui social al pregiudizio sul posto di lavoro, dalla volgarità urlata per strada allo svilimento di una donna che ricopre una determinata professione, dai giornalisti che negli articoli chiamano per nome le donne e per cognome e titolo di studio gli uomini, dal contatto senza consenso al controllo dei beni materiali ed economici all’interno di una coppia, sono innumerevoli le forme

di violenza di genere che vengono esercitate in una società patriarcale che intende mantenere il controllo, il potere, sulla vita e sul corpo delle donne.

 

La cultura patriarcale può diventare terreno fertile per i femminicidi?

La cultura patriarcale rappresenta il potere, il controllo. E’facile pensare che chi sfugge a questo controllo venga in tutti i modi umiliato, assoggettato, riportato al “proprio posto”, e che nei casi più estremi possa essere eliminato. Ed è la stessa cultura patriarcale a distogliere l’attenzione da queste dinamiche raccontando che le vittime hanno portato con il loro comportamento il partner a perdere il controllo, che magari vivevano vite considerate (sempre da uomini) dissolute e ferivano l’onore e la rispettabilità del compagno, andando così a “giustificare” o comunque spiegare cosa le abbia portate a FARSI AMMAZZARE.

 

Puoi fare un esempio del paradosso insito nella risposta “not all men”?

Gli uomini incapaci di vedere cosa il loro privilegio comporta affinchè resti tale, tengono unicamente a smarcarsi da ogni responsabilità e a cercare l’assoluzione al grido di “non tutti gli uomini”. Eppure sembra pacifico che se nella quotidianità si zittisce o svilisce una donna, si dice a qualcuna che magari protesta per un’inquità che “ha ragione, ma dovrebbe dirlo in un modo diverso se vuole essere ascoltata”, si contribuisce ad alimentare il vociare sulla collega che “chissà cosa ha fatto per fare carriera”, si guarda o diffonde un video intimo anche se ricevuto da terzi, si sessualizza una donna che cammina per strada e la si giudica per cosa indossa, si dice a qualcuna che quel tale diritto dovrebbe meritarselo, come se un diritto andasse meritato, insomma ci sono mille situazioni nelle quali un uomo in vita sua ha sfruttato il patriarcato per mantenere una posizione di privilegio e quindi no, non ne è esente.

Ma soprattutto: se davvero qualcuno ritiene di non avere mai perpetrato uno degli atteggiamenti di cui sopra, avrà certamente, per una semplice questione statistica, assistito ad alcune di queste situazioni. E allora cosa ha fatto, come ha reagito? E’ intervenuto in qualche modo? E se non l’ha fatto, è stato perchè temeva di essere giudicato dai suoi congenere per non essere un sodale, per non prendere parte alla manifestazione testosteronica, per essere “poco uomo”?

La cultura patriarcale è così radicata nella nostra società da investire anche alcune donne (patriarcato interiorizzato), quindi è estremamente difficile immaginare che un uomo possa esserne al di sopra. Tra qualche generazione magari, ma sicuramente non oggi.

 

Ma perchè un uomo riconosce più facilmente che deve sanzionare un comportamento omofobo o razzista che uno sessista o prevaricante?

Il patriarcato rappresenta il potere, la posizione di privilegio che l’uomo ha in moltissimi (tutti?) i campi. Come potrebbe un uomo non consapevole di queste dinamiche e del proprio privilegio riuscire a riconoscere la violenza che sta esercitando, se la ritiene la normalità? Un bianco si sente “altro” rispetto all’uomo di colore, un uomo cis etero si sente “differente” da uno omosessuale, ma in generale l’uomo, che sia bianco, di colore, etero o omosessuale, non vedrà facilmente il controllo che esercita sulla donna poichè guardando il mondo attraverso le lenti del privilegio difficilmente vedrà tutti gli ostacoli che esistono per qualcuno che non sia lui, e che egli stesso mette.

“L’uomo si vive come universale. Si considera il rappresentante più compiuto dell’umanità” É. Badinter, XY. L’identità maschile

 

Cosa vorresti dire alle donne che sono arrabbiate per l’ennesimo femminicidio e per il poco supporto che ricevono nel creare un cambiamento?

Credo che non sia più il tempo dei minuti di silenzio ma quello per vivere la nostra paura senza vergogna, liberare la nostra rabbia e urlare, pretendere ciò che ci spetta, rialzare l’asticella della tolleranza ormai rasoterra. Alle donne vorrei dire di non arrendersi, so che è faticoso, demoralizzante, terribilmente stressante, ma ci viene chiesto ancora una volta di mostrare noi la via: facciamolo. Sensibilizziamo gli uomini che ci circondano, invitiamoli a leggere, approfondire, raccontiamo tutte le volte che siamo state seguite, molestate, spaventate, discriminate.

Quando io lo faccio mi sento rispondere “eh ma tutte a te!” come se in fondo il motivo risiedesse nel mio aspetto, nel mio look, nei posti che frequento. Non è “solo a me”, è a tutte, in mille modi diversi. Chiedete agli amici, partner, parenti di domandare alle donne che frequentano se hanno mai subito molestie, se

provano paura a camminare da sole. Ci chiedessero come ci sentiamo quando un uomo ci squadra, commenta come siamo vestite, quando un superiore a lavoro fa una battuta inopportuna e restiamo congelate perchè prese contropiede e perchè, in fondo, la verità è che non siamo nella posizione di poter rispondere.

Porgiamo una mano a chi si lascia accompagnare, al contempo non perdiamo tempo con chi erge muri. Siamo nella società di internet e delle informazioni alla portata di tutti, non siamo nè le loro madri nè le loro insegnanti, e non dobbiamo aspettare di ottenere comprensione o sostegno, sappiamo già qual è la strada da percorrere.

 

E cosa vorresti dire agli uomini che faticano ad esserci alleati?

Siamo nel pieno di una rivoluzione sociale ed è comprensibile che nessuno possa cambiare da un giorno all’altro. Io stessa mi rendo conto che negli ultimi anni ho acquisito degli strumenti che assolutamente non possedevo, e mi capita di pensare a quante volte in passato non ho saputo riconoscere o reagire a comportamenti molesti e denigratori nei miei confronti. La chiave è nella conoscenza. Leggete, parlate con noi e tra di voi, confrontatevi, approfondite, sappiatevi mettere in discussione. Affrontiamo insieme un cambiamento che non può che giovare a tuttə. Quando leggete che un padre è “un mammo”, non vi sentite umiliati? Quando sentite una donna che racconta di cambiare marciapiede se vede un gruppo di uomini, non vi sentite a disagio? Deve necessariamente capitare qualcosa ad una vostra amica/sorella/fidanzata perchè riusciate a fare un esercizio di empatia? Spoiler: probabilmente qualcosa gli è già capitato.

C’è un femminicidio ogni 72 ore, credete davvero che sia il momento per dire “io sono diverso, non siamo tutti così?”. Se volete fare la vostra parte correggete l’amico che fischia alle donne per strada, che scrive sui social di “stare zitte e andare a cucinare”, che racconta di controllare il cellulare della propria fidanzata.

E se proprio non sapete cosa dire, imparate il valore del silenzio. Adesso tocca a noi parlare..

 

Irene Murgiano

Cherofobia

Un grande contributo quello offerto della cantante Martina Attili, ai suoi esordi ai provini di Xfactor 2018, nella presentazione di un brano che ha permesso di render noto un concetto prima poco attenzionato, quello della cherofobia. La cantante ha raccontato al pubblico, attraverso il suo brano dall’omonimo titolo, le emozioni di una ragazza che sperimenta la paura di essere felice e di stare bene; recita i seguenti versi:

“ questa è la mia cherofobia, no non è negatività, questa è la mia cherofobia, fa paura la felicità, questa è la mia cherofobia”

Non si tratta tanto della paura di essere spensierati e/o allegri, ma di una vera e propria forma di ansia percepita dal soggetto in assenza di apparenti problemi specifici, ad esempio sul lavoro, sulla salute, nelle relazioni, in famiglia; ogni ambito della vita dell’individuo sembrerebbe andare per il verso giusto ma, all’improvviso compare “la paura di essere felice”. Può accadere di accorgerci di aver raggiunto ciò che abbiamo sempre desiderato e, piuttosto che sentirci felici, ci ritroviamo pieni di dubbi, perplessità, sperimentiamo la sensazione di non avere più nulla a cui aspirare ed essere contemporaneamente in preda al timore di perder tutto. Potrebbe anche accaderci di scoprire che la persona di cui siamo innamorati ricambi il nostro sentimento e, anzichè esser felici, ci scopriamo smarriti, nel panico, senza sapere come reagire. Esempi questi che possono riproporsi in svariate situazioni, con contenuti diversi: successi nel lavoro, a scuola, oppure con la realizzazione di un sogno, nella vincita di un ingente somma di denaro; il soggetto piuttosto che esperire felicità prova ansia e paura, temendo che tutto ciò che ha  costruito possa finire da un momento all’altro.

Che cosa è quindi la cherofobia? Che cosa significa? Quali sono le possibili cause e i sintomi più comuni per riconoscerla? Come superare la paura di essere felici e chi è esattamente colui che ha paura di essere felice?

Il termine cherofobia ha etimolgia greca e deriva dalla combinazione delle parole kairòs che significa “momento propizio o opportuno/rallegrarsi, essere felici” e fòbos letteralmente “paura”. Il significato della parola cherofobia  è quindi quello di “avere paura di essere felici”.  Ci si è chiesto se la cherofobia costituisse una malattia; sebbene nel manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM 5) non venga inserita, la cherofobia può essere assimilata e quindi pensata come una forma di ansia anticipatoria, espressa come “status” conseguente al vivere la felicità come una minaccia dalla quale difendersi. La cherofobia non è un disturbo ufficialmente riconosciuto, ma si configura piuttosto come un atteggiamento riscontrabile in una vasta gamma di disturbi mentali e di condizioni. Collegata a situazioni che si connotano di emozioni positive, o che dovrebbero recare felicità alla persona, la cherofobia viene definita dagli esperti una forma di ansia che, per chi la prova, è capace o di far loro svalutare questi sentimenti o di esporli meno frequentemente e meno intensamente alle situazioni che li scatenerebbero.

In psicologia con il termine cherofobia si vuol far riferimento ad una condizione per la quale la persona che ne soffre ha paura di essere felice, evita le emozioni positive e tutto ciò che potrebbe derivarne e innescarle per la paura di soffrire; i cherofobici hanno paura di provare emozioni positive, momento considerato da loro di estrema vulnerabilità,  perché pensano che le stesse possano costituire l’anticamera di qualcosa di brutto, a causa di una visione distorta della realtà e di come la significano. La loro reazione, pertanto, sarà quella di innescare un meccanismo di difesa, di auto-sabotaggio, pur di non essere felici, tendendo ad evitare il trigger della propria paura: la felicità, adottando uno stile di vita del tutto razionale. Il disabituarsi al provare emozioni positive ha anche un corrispettivo biologico; anche il cervello  è “come se” si dis-abituasse all’attivazione di quei circuiti neurotrasmettitoriali deputati al sentire la felicità e il benessere, non riuscendo a riconoscerli e gestirli in quanto tali . Può accadere, infatti, che vengano percepiti come minacciosi, tali da indurre il soggetto ad attivare condotte difensive, che in alcuni casi possono sfociare in attacchi di panico. La fobia è una paura forte, irrazionale e incontrollabile, che risulta poco chiara a chi ne è affetto e soprattutto difficile da controllare. La cherofobia porta la persona a isolarsi, a non prendere parte a eventi sociali, a non entrare in contatto con persone che potrebbero apportare cambiamenti positivi nella propria vita. Questo atteggiamento ha evidenti ripercussioni sulla vita lavorativa, sociale e sentimentale, costituendo un forte limite al processo di crescita, realizzazione personale e sviluppo per il soggetto che ne è affetto. La credenza patogena dei cherofobici è che i periodi gioiosi della vita possano essere immediatamente seguiti da traumi, disgrazie, o eventi negativi in generale, tanto da divenirne un dogma “se vivi una grande felicità, ti aspetta dietro l’angolo una tragedia”.  I soggetti che ne sono affetti, ad esempio, potrebbero essere spinti a cercare solo relazioni di natura più superficiale, a non impegnarsi seriamente in un rapporto di coppia, declinando tale disagio in vari aspetti della vita: dai rapporti sociali a quelli di coppia. Come recita Martini Attilli nella sua canzone:

“ E ogni volta che qualcosa va come dovrebbe andare,

penso di non potercela fare,

e cerco ogni forma di dolore

mischiata al sangue col sudore

e sento il respiro che manca

e sento l’ansia che avanza”

Da un punto di vista evolutivo le cause si potrebbero radicare in una storia infantile del soggetto per cui a momenti felici sarebbero seguiti, immediatamente dopo, eventi traumatici di tipo fisico o emotivo come punizioni, delusioni, perdite importanti, nelle quali emozioni come umiliazione, dolore, rabbia avrebbero spesso distrutto la gioia, il piacere, minando il senso di fiducia, ottimismo, sicurezza verso gli altri e l’esterno.  Il dolore suscitato da questi eventi verrebbe quindi associato alla felicità; in questo modo la persona avrebbe legato la felicità ad un’infelicità molto pronunciata, cercando di evitare la prima “come se” fosse causa della seconda. Responsabile dell’istaurarsi, in modo inconscio, dell’associazione distorta della relazione causale felicità-punizione/dolore è il frequente ripetersi di esperienze negative e/o traumatiche; associazione che continuerebbe ad essere oggetto di ri-attualizzazione nel presente dal momento che qualsivoglia emozione positiva, esperita dal soggetto, sarebbe responsabile della ri-attivazione e ri-attualizzazione del trauma originale. Tanto è vero che occorrerebbe precisare come la paura del cherofobico non sia tanto quella di essere felice ma piuttosto “in-felice, o di non essere felice”, ovvero la paura che al piacere seguiranno necessariamente conseguenze negative, come accaduto in passato. Ogni volta che il soggetto, pertanto, si trovi nella condizione di provare gioia, quello che accadrà sarà la riattivazione in memoria dell’associazione felicità-punizione/dolore, attivando l’ansia che di li a breve qualcosa di brutto possa accadere, innescando la messa in atto di condotte di evitamento. Si tratta di individui che hanno imparato a controllare le proprie emozioni e a vivere “difendendosi” dalla felicità, perché percepita come pericolosa, impossibile da raggiungere. La persona potrebbe aver sviluppato un locus of control esterno, tanto da aver appreso a pensare che un evento positivo che lo veda protagonista è solo un “colpo di fortuna” e che qualsiasi cosa faccia non si ripeterà, ritenendo erroneamente che le proprie azioni non abbiano alcun tipo di influenza sul corso degli eventi.  Ecco perché la cherofobia è assimilabile ad una sorta di meccanismo di difesa, di compensazione: l’attivarsi dell’ansia avverte il soggetto che, per evitare la sofferenza, deve evitare le situazioni divertenti/positive, per il timore che qualcosa di brutto possa accadere.

Da un punto di vista fenomenologico e /o sintomatologico ciò a cui si assiste è:

-l’attivazione dell’ansia al pensiero di prender parte a qualche evento piacevole/divertente, che pertanto viene conseguentemente rifiutato (concerti, cene, feste, serate etc..)

-il rifiuto di cogliere opportunità che possano apportare cambiamenti positivi nella propria vita per il timore che  possano far seguito conseguenze negative

– l’evitamento di tutti gli eventi sociali per ridurre la portata ansiosa da questi attivata

– il sentirsi in colpa per essere felici

– avere l’idea che essere felici possa causare l’accadere di qualcosa di negativo

-non voler essere felici e credere che provare felicità possa trasformare in persone peggiori

– pensare che perseguire la felicità sia una perdita di tempo, uno sforzo invano, un’attività priva di significato.

– avere la convinzione che mostrare felicità sia negativo di fronte agli amici, alla propria famiglia, o comunque alle persone care.

Si potrebbe ingenuamente confondere la cherofobia con la depressione; il cherofobico non è una persona triste o depressa, ma solo un individuo che ha creato per se stesso una fortezza inespugnabile. Diversamente dal depresso il cherofobico pratica un’attiva condotta di evitamento delle emozioni positive: ha paura di essere infelice perciò evita preventivamente ogni qualsivoglia stimolo che possa renderlo gioioso, temendo che l’artifizio deputato al “provare/portare felicità” possa smettere di funzionare. Non cerca dolore o sensazioni che possano generare tristezza, tenta solo di non provare felicità, cercando di restare in uno stato di costante apatia così da non essere soggetto a sbalzi di umore o repentine modifiche della proprio status quo, rendendo il proprio “ambiente” prevedibile. Questo l’atteggiamento e i pensieri alla base dei soggetti cherofobici, tali da indurli a rimanere passivi, a rifiutare situazioni quotidiane e/o occasioni di socializzazione e benessere, progetti o relazioni significative. Ad esempio la paura di essere felici in amore potrebbe condurre il soggetto a non investire nelle proprie relazioni, inducendolo ad elicitare dinamiche di contro-dipendenza affettiva, che lo portino a creare solo legami di natura superficiale, per la paura di star bene. Tipica l’espressione “Ho paura di essere felice perché ogni volta che lo sono tutto finisce”. Ciò che viene temuto, perciò, è che la felicità, una volta raggiunta, possa svanire lasciando soli, smarriti ed impreparati davanti al vuoto e alla sofferenza. Tipici tra i pensieri di un soggetto cherofobico il “ se adesso sono felice vuol dire che dopo mi accadrà qualcosa di brutto”, “ è troppo bello per essere vero, chissà quanto cara poi la pagherò questa felicità”, “manifestare la felicità è negativo sia per i tuoi amici, che per la tua famiglia”, “la felicità rende le persone peggiori”, “i disastri seguono spesso la fortuna”. La cherofobia sembrerebbe assimilabile al meccanismo definito da alcuni autori (Feldman, Joormann e Johnson 2008) come smorzamento, strumento psicologico che consisterebbe nella “tendenza a rispondere a stati d’animo positivi con strategie mentali per ridurre l’intensità e la durata dello stato d’animo positivo”. Si tratterebbe di una tendenza riscontrabile in molteplici condizioni: nel pessimista convinto che il lieto fine non esista, o nel cinico che teme la felicità per paura della rivalità o dell’invidia di altre persone, nelle personalità evitanti che fuggono dalle situazioni per timore di non sentirsi all’altezza o infine nel perfezionista patologico che vede nel piacere l’espressione di una perdita di tempo. La felicità, inoltre, viene spesso percepita dal cherofobico alla stregua di “un frutto proibito, qualcosa da non condividere, né mostrare agli altri e per cui sentirsi in colpa. Il cherofobico ritiene che l’essere felice possa renderlo un individuo peggiore e che pertanto perseguire la felicità possa essere una perdita di tempo, un’attività priva di significato; più in generale che la felicità di per se stessa sia un male per sé e per gli altri. Se da un lato tale atteggiamento può impedire al cherofobico di andare incontro ad eventuali delusioni, dall’altro però lo induce a precludersi qualunque opportunità di vivere una vita felice.

Da alcuni recenti studi, come quello pubblicato dal Journal of Cross-Cultural Psychology, è emerso come alcuni individui siano più inclini a sperimentare emozioni positive, laddove altri smorzerebbero il loro stato d’animo e gli affetti (eccitazione, felicità, gioia, piacere etc..), impegnandosi questi ultimi in attività che li renderebbero meno felici, tristi. Una delle possibili cause è il timore, per le persone, di perdere il controllo delle proprie emozioni positive o delle loro reazioni comportamentali alle stesse, configurandosi la cherofobia come un meccanismo difensivo di controllo di qualcosa (le emozioni positive) vissuto come terreno di vulnerabilità. Sempre nel medesimo studio è emerso come anche la cultura incida, influenzi il modo, l’atteggiamento con cui gli individui esperiscano le proprie emozioni positive, condizionando la regolazione emotiva e le esperienze emozionali. I risultati empirici hanno dimostrato come la felicità sia in taluni contesti culturali sfavorita o addirittura temuta, soprattutto nelle culture collettiviste in cui viene condannata l’espressione della felicità personale perché ritenuta responsabile di limitare la capacità dell’individuo nell’adempiere ai propri doveri nei confronti della collettività. La possibilità per il soggetto di provare piacere e di coltivarne l’espressione sembra quindi dipendere da una serie di meccanismi psicologici che affondano le proprie radici sia nel vissuto emotivo, sia nella storia di vita dell’individuo, ma anche nella sua cultura di riferimento, nell’educazione ricevuta.

E’ possibile concludere, riassumendo, come la cherofobia trovi espressione nella messa in atto, da parte del soggetto, di attive condotte di evitamento alla partecipazione di eventi che, percepiti come minacciosi per il proprio status quo, potrebbero causargli infelicità, procurandogli forti manifestazioni ansiose, in grado di porre forti limiti all’evoluzione della propria vita sociale, lavorativa, sentimentale. Come per ogni altra fobia, la psicoterapia può risultare molto efficace nel trattamento e, nella fattispecie, nel superamento della “paura di essere felice”. La paura di essere felici altro non è che la paura di essere e/o diventare noi stessi. Caldamente consigliata la possibilità di rivolgersi ad un professionista per l’inizio di una presa in carico di tipo psicologico; ciò  permetterebbe alla persona di riconoscere il disturbo, imparare ad accogliere tutto l’ampio spettro di emozioni, comprese quelle di natura positiva come la gioia e la felicità. Attraverso l’incoraggiamento ad elaborare i propri vissuti emotivi, la propria storia di vita, identificando gli eventi responsivi del problema in una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé, sarà possibile comprendere le ragioni che portino la persona ad evitare le emozioni piacevoli. Il prosieguo del lavoro terapeutico verterà poi sulla costruzione di un nuovo modus operandi circa la modalità di lettura e significazione della realtà. Ciò renderà possibile un nuovo modo di pensare e agire la felicità basata su nuovi significati e interpretazioni attribuibili alle medesime esperienze positive, permettendo al soggetto di fare esperienza nel sentire e vivere autenticamente, scevro dal nutrire sensi di colpa e/o pensieri disfunzionali, il desiderio e il piacere di essere felice.

La felicità viene proposta sempre più come un obiettivo da dover raggiungere a tutti i costi, e per essere persone felici occorre anche adempiere a determinati standard; le aspettative da raggiungere sono: il successo, la carriera, una bella famiglia, un buono stipendio, dei figli perfetti. Crescere e vivere in un mondo così condizionato da elevati standard sociali non è affatto facile, ma soprattutto non è reale. Le emozioni negative, come il fallimento, i momenti di vuoto/tristezza o di solitudine, sembrano non dover più far parte delle nostre vite; in questo modo quello che ci viene propinato è un concetto di felicità che si confonde con quello di apparenza. Essere felici significa creare una condizione serena e reale intorno a sé, non fittizia, proporzionata alle proprie risorse e competenze, che permetta al soggetto di esperire un sentimento di completezza che non escluda lo spettro delle emozioni negative, facente parte dell’esistenza di ciascuno. La psicoterapia, infatti, aiuta ad accompagnare il soggetto a vivere e gestire adeguatamente le emozioni nel momento in cui si presentano, sia quelle positive che quelle negative, insegnandogli che reprimerle e/o evitarle non rappresenti una strategia difensiva funzionale e/o sana, dal momento che spariranno ora per ripresentarsi poi in una modalità ancor diversa e con un’intensità ben maggiore.

Non meno importante, in questo processo, sono l’appoggio e il supporto offerti da amici, familiari, persone care nel fornire spunti e preziosi punti di vista, attraverso i quali sia possibile apprendere come esprimere e comunicare le proprie emozioni. Esperienze ed esempi che accompagnano il soggetto in una graduale e efficace gestione dell’oggetto delle proprie paure. Teniamo a mente come non sia possibile essere sempre felici o esserlo per tutto; possiamo però godere, senza paura, di ogni momento di felicità, imparando ad accogliere, abbracciare ogni emozione per quello che è, vivendo con leggerezza e pienezza la vita.

“Tutto quello che vuoi è dall’altra parte della paura” (Jack Canfiled).

 

Dott.ssa Silvia Longo

Psicologa – Psicoterapeuta

 

SITOGRAFIA:

Cherofobia: come riconoscere e affrontare la paura di essere felici, https://www.my-personaltrainer.it/salute-benessere/cherofobia-cos-e-quali-sono-i-sintomi-e-come-curarla.html

Pastore B., Cherofobia: la paura di essere felici, https://www.unobravo.com/post/cherofobia-la-paura-di-essere-felici

Ribaldone A., Paura di essere felice. Cos’è la cherofobia?, https://www.studio-psyche.it/disturbi/paura-di-essere-felice

Pacei C., La felicità può fare paura, scopri cos’è la cherofobia e come ritornare a goderti la vita, https://style.corriere.it/benessere/salute/cherofobia-significato-origini-sintomi-cura/

Ridolfi C., Cosa vuol dire cherofobia? Ecco cos’è la paura cantata da Martina Attili, https://www.sololibri.net/cherofobia-che-vuol-dire-cos-e-canzone-martina-attili.html

Cherofobia, https://www.psiconline.it/le-parole-della-psicologia/cherofobia-2.html

Spinelli C., La paura di essere felici: descrizione, sintomi, trattamento della cherofobia, https://www.psicologospinelli.it/articoli/cherofobia-descrizione-e-trattamento/

Stentella G., Cherofobia: cos’è, cause, sintomi e cura, https://www.salutarmente.it/malattie/cherofobia

LA REALTA’ IRRAZIONALE DEI SOGNI: PERCHE’ ASCOLTARLI E PRESTARVI ATTENZIONE

Perchè sogniamo? A che cosa serve il sogno nell’economia del funzionamento umano?

Sono secoli che studiosi, filosofi, psicologi e psichiatri si interrogano su questa stessa domanda cercando di attribuire un senso a queste strane “storie” che si fanno spazio dentro di noi quando perdiamo lo stato di veglia. Il loro fascino è dato dalla loro incomprensibilità e dalla difficoltà di coglierne il senso univoco, di comprenderli in tutto e per tutto.

La prima domanda che vorrei pormi parlando dei sogni è, che cosa sono? E a cosa servono?

Prima di tutto, è necessario prendere in considerazione l’esistenza di una parte di noi non consapevole, non contattabile con la coscienza e la consapevolezza, una parte psichica inconscia di cui, non ci rendiamo conto. La gran parte della nostra vita da svegli è quella che affrontiamo attraverso la consapevolezza e la coscienza, quando dormiamo invece la consapevolezza si allenta, perde potere, ed entra in scena l’inconscio. I sogni sono una modalità attraverso la quale l’inconscio si esprime, per mandarci dei messaggi o rielaborare esperienze e vissuti che abbiamo affrontato durante lo stato di veglia.

Possiamo definire il sogno come un “fenomeno soggettivo”, osservabile esclusivamente da colui che sogna, e anche come un fenomeno involontario derivante appunto dalla minore presenza della coscienza. Il sogno è inoltre carico delle emozioni del sognatore e delle sue sensazioni visive ed involontarie, costruite in buona parte da frammenti di memorie recenti e antiche che costruiscono una storia all’interno di uno spazio e un tempo non reali.

Il primo a occuparsi di sogni è stato Sigmund Freud che, nel 1899, ha scritto il testo l’”Interpretazione dei sogni” che ha risposto a molte domande centrali riguardanti questo fenomeno appartenente non solo agli esseri umani ma anche a tutti i mammiferi. In questo testo veniva messa in evidenza la funzione del sogno come un “rebus”, un qualcosa da risolvere e da scoprire attraverso l’interpretazione delle varie immagini che lo compongono. Secondo Freud, “la nostra psiche interviene nel lavoro di formazione dei sogni con specifici meccanismi di elaborazione e camuffamento” tesi a nascondere il vero significato di ciò che stiamo vedendo e rappresentando nel sogno. È come se ciò che è presente nell’inconscio andasse raggiunto, interpretato e reso consapevole prima che faccia danni. Secondo Freud il sogno era la via “regia”, cioè principale e diretta, verso l’inconscio, cioè la parte di noi maggiormente inconsapevole.

Nei secoli, molti altri autori si sono approcciati ai sogni e hanno dato il proprio punto di vista e la propria interpretazione; nello specifico Carl Gustav Jung ha apportato delle importanti modifiche alle teorie freudiane, affermando l’importanza delle immagini e delle figure presenti nei sogni, raffiguranti dei significati e dei vissuti simbolici. Ogni immagine si esprime in modo simbolico, (cioè non esplicito, attraverso immagini) ogni significato ne esprime un altro individuale e trasformativo. “Il simbolo, invece, nella sua essenza e nella sua etimologia, fa da ponte fra i contrari, nutre entrambi i poli senza preferenze e generando così tensione, li costringe comunque a coabitare, opponendosi allo sbilanciamento univoco verso una delle due polarità”.

I sogni rappresentano una delle espressioni più personali che possano esistere, “il sogno è il sognatore, è un concentrato della sua unicità”. Non esistono infatti due sogni considerabili completamente uguali tra loro effettuati da persone diverse, ma allo stesso tempo, talvolta i sogni sembrano provenire da un mondo completamente estraneo al nostro, fuori da noi stessi. Tengono insieme molti aspetti tra loro opposti e apparentemente poco comunicabili tra loro.

Quando parliamo del sogno dobbiamo tenere a mente due parti che si mettono in azione: l’Io onirico (o Io del sogno) e l’Io narrante (o l’Io della veglia). L’Io onirico è il primo soggetto all’interno del sogno, il protagonista del sogno o colui che vi partecipa attivamente. È il primo mediatore tra noi e gli altri attori del sogno e allo stesso tempo è parte del sogno stesso: non si pone domande su ciò che succede all’interno della storia che sta vivendo e ha poca o nessuna consapevolezza di sé. Questa semplicità dell’Io onirico è pero fondamentale: permette infatti di far accadere nel sogno anche cose incredibili, assurde e poco veritiere e di catapultarci all’interno di una realtà fuori dalla realtà.

L’Io narrante (o Io della veglia) è, invece, colui che assiste ai sogni senza poterli cambiare, li riporta come ricordi e li traduce in scritti o racconti. Diventa lui il proprietario del sogno e delle immagini riportate nella narrazione e può agire su di esse dandogli una interpretazione e un senso simbolico.

È proprio l’Io narrante che racconta il sogno e che cerca di attribuirvi un significato, un senso: ha il potere di reinterpretare i significati del sogno all’interno dello stato di veglia, con la giusta distanza e lucidità. L’Io narrante non si attiva subito, non è consapevole mentre stiamo sognando, lo sarà al risveglio, o durante la reminescenza del sogno. Il suo ruolo è fondamentale per dare valore, senso e significato ai contenuti del sogno: l’interpretazione e la revisione, in chiave simbolica, delle immagini e dei contenuti del sogno gli può permettere di conoscere molte parti di sé, difficilmente contattabili in altro modo.

Perché i sogni vengono spesso raccontati in psicoterapia?

Una delle caratteristiche principali che emergono quando si tratta di sogni è che questi, specie in alcuni casi, possano essere raccontati e quindi ascoltati da un interlocutore. Lasciarne traccia scritta o avere qualcuno che possa ascoltarli e accoglierli diventa fondamentale per cercarvi un senso. Nello specifico, nel contesto psicoterapico, i sogni possono essere fondamentali per “l’incontro con ciò che veramente siamo e sono un’ottima palestra per migliorare il funzionamento della mente”.

Se consideriamo i sogni come prodotto della nostra mente sul quale interrogarci con curiosità, possiamo trovarvi dei significati ed utilizzarli come “ponti” fra la consapevolezza e l’inconscio, utili a sviluppare strumenti per pensare. Ognuno di noi sogna ogni notte e ogni sogno attinge dalle esperienze della nostra vita e dalla specificità del momento che stiamo vivendo: questo, con una adeguata interpretazione delle immagini dei sogni in chiave simbolica, ci può permettere di “oggettivare” delle emozioni autentiche attive dentro di noi, espresse nel sogno in forma immaginativa. Ci permette, inoltre, di avvicinarci a delle emozioni complesse e poco descrivibili attraverso immagini oniriche alle quali, nel contesto terapeutico, può essere dato un nome ed un significato.

La figura del terapeuta assume un ruolo centrale: “Due sono i principali soggetti ai quali dobbiamo collegare i sogni: il sognatore stesso e, nel caso si stia sottoponendo ad un trattamento psicologico, la coppia analitica. Il sogno appartiene alla vita del paziente e alla coppia analitica e per questo occorre sapersi posizionare alternativamente in entrambi questi punti di osservazione”. Il sogno infatti, spesse volte, ci parla della relazione di transfert, cioè della vita interna del paziente all’interno delle sue relazioni più importanti rivissuta e riattualizzata all’interno della relazione con lo psicologo, fondamentale strumento per il lavoro psicologico. Interpretare questa relazione all’interno dei sogni e provare a comprenderla attraverso delle domande e delle risposte fa si che si possano comprendere molte cose sul funzionamento profondo del paziente e sulla sua storia. Nella storia del sogno possono essere trovate anche delle indicazioni, della alternative, delle possibilità, per il paziente di stare meglio e di ricevere sollievo dalla condizione nella quale si trova: la giusta interpretazione, proveniente dalla condivisione con lo psicologo all’interno di una relazione significativa, consente al sognatore non solo di accedere al mondo delle proprie immagini inconsce, ma anche di approdare a nuovi significati che riguardano la propria storia e il proprio vissuto emotivo, concedendo un valore nuovo e ricco di importanti risorse individuali.

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa-Psicoterapeuta

LA SENSIBILITÀ: UNA RISORSA SOTTOVALUTATA

Il termine sensibile è uno dei termini che più spesso viene utilizzato con una connotazione negativa. Dietro all’uso di questa parola aleggiano due forti pregiudizi, che culturalmente ci portiamo dietro:
– “Se sei sensibile, sei debole” – “Se sei sensibile, sei strano”
Nella mia pratica psicoterapeutica sto scoprendo, con estrema sorpresa, come al mondo ci siano molte persone sensibili, anche se non si delineano mai in questi termini, ma vivono comunque un senso di inadeguatezza rispetto al mondo perchè per loro è “tutto, tanto e sempre”.
In breve, questa modalità di funzionamento, prevede la tendenza di sentire ogni cosa, di viverlo alla massima potenza e di essere continuamente attivati finchè non si va a dormire.
Ritengo che sia importante provare a fare un piccolo chiarimento quando abbiamo davanti una persona sensibile, cioè “che sente tutto”. Ma per la precisione, cosa sente?

Tutto, le cose belle e le cose brutte. Anche episodi piacevoli, come un giro al centro commerciale, un pomeriggio al lunapark, un Natale in famiglia, invitare a casa amici e cucinare per loro… tutti eventi piacevoli, per la grande maggior parte delle persone, ma che possono trasformarsi, per le persone altamente sensibili, in una fonte di stress.

Le persone altamente sensibili hanno una soglia di stress più bassa e superare questa soglia vuol dire andare in tilt più facilmente rispetto alla media e di avere, conseguentemente, bisogno di più tempo per recuperare forze e integrità, sia fisica che psichica.
Il rischio, quando si conosce questo aspetto di sè, e arrivare a proteggersi troppo: ci si isola, ci si rifugia nei nostri pensieri, ci si chiude in casa. Avere una soglia di stimolazione eccessivamente bassa per il sistema nervoso, genera di cadere nella noia o peggio nella depressione.

N. Travaini definisce questo “effetto a pendolo”: proprio come un pendolo, si oscilla tra un estremo fatto di tutto, troppo (iperattivazione neurologica) e l’altro estremo di estremamente poco (ipoattivazione).
Bisogna allenarsi a tenere questo pendolo in una zona intermedia, e con un’oscillazione media e lenta, evitando gli estremi ma rendendo le oscillazioni, tra stimolazione e ritiro, in armonia.

Ricapitolando, le persone altamente sensibili:
– reagiscono alle esperienze in modo più intenso rispetto alla media;
– tendono a passare da eccessi di attività al vuoto totale (da tutto a niente). Riuscire a gestire queste altalene emotive inciderà moltissimo sul benessere mentale;
– prediligono la strategia introspettiva e riflessiva quando sono in ambienti sociali più allargati, dove ci si sente meno a proprio agio, mentre sanno essere più reattivi e a volte esplosivi, quando si trovano in situazioni più familiari, più intime;
– in contesti in cui si sentono osservati e giudicati non riescono a dare il meglio di sè;
– sono vulnerabili a sovrastimolazioni sensoriali e sovraccarico percettivo: forti suoni, luci, odori, sapori e sensazioni fisiche possono determinare disagio e irritabilità;
– gli ambienti caotici o sovrastimolanti possono attivare in loro una sensazione di sopraffazione e di perdita di controllo;

– sono abili ad elaborare informazioni a vari livelli e amano i dettagli;
– hanno una modalità di pensiero “ramificato” e non amano seguire i pensieri logici comuni;
– tendono ad usare maggiormente l’emisfero destro, parte del cervello che viene definito analogico, corporeo, emotivo e creativo;
– percepiscono immediatamente il clima emotivo di un ambiente, riuscendo a cogliere anche tensioni o conflitti che rimangono sul fondo;
– sono fortemente empatici e sono abili ad analizzare il linguaggio non verbale, canale comunicativo attraverso il quale arrivano più informazioni emotive;
– sono emotivi e si commuovono spesso;
– vivono stress e fatica quando si trovano ad affrontare i cambiamenti;
– fin da piccoli si portano dietro la sensazione di inadeguatezza perchè ci si sente diversi dagli altri;
– fanno molta fatica a delineare dei confini e a dire di no;
– non amano i conflitti;
– hanno aspettative molto alte sugli altri e su se stessi, tendendo alla perfezione;
– hanno un’immaginazione molto spiccata;
– sono molto coscienziosi, e questo permette loro di prevedere causa-effetto di eventi;
– percepiscono molto il senso di responsabilità;
– non sono spaventati dalla solitudine, anzi viene spesso ricercata;
– prediligono gli ambienti naturali;
– sono attratti da tutto ciò che è spiritualità e crescita personale;
– hanno una propensione artistica e sono molto creativi in tutte le forme possibili;
– non tollerano le ingiustizie, arrivando anche a non proteggersi per sostenere una battaglia in cui credono.

Tutte questi tratti elencati, se non vengono allenati nella giusta direzione, possono portare le persone altamente sensibili a non vivere serenamente, subendo la sensibilità, come fardello invece di percepirla come una preziosa risorsa.
La psicoterapia con un professionista che conosce la tematica, permetterà di imparare strategie adattive che consentiranno, alla persona altamente sensibile, di vivere serenamente.

Accenniamone qualcuna:
Contenimento. È importante per le persone altamente sensibili riuscire ad apprendere questa capacità per contenere le emozioni quando diventano eccessivamente intense, fuori controllo, quando invece di guidarci ne siamo completamente in balìa. Bisogna imparare a contenere le sensazioni, quando minano completamente l’attenzione distraendo continuamente dalle azioni e contenere i pensieri quando diventano rimuginanti e non permettono di essere lucidi, comportando comportamenti inappropriati. Per apprendere questa strategia può essere d’aiuto ricordarsi che emozioni, sensazioni e pensieri fanno parte di noi, ma non sono noi.

N. Travaini scrive “Io ho un pensiero, non sono un pensiero. Io ho un’emozione, non sono quell’emozione. Io ho un dolore fisico, ma non sono totalmente invaso da quel dolore”.

Imparare a dire di NO. Nel corso dei secoli è cresciuta l’immagine sociale che dire di no è negativo, egoista e distruttivo. Iniziamo ad apprendere le modalità per dire dei No gentili: ad esempio “grazie per aver pensato a me, ma non mi è proprio possibile/ oggi ho bisogno di fare altro/ possiamo riprogrammarono per un’altra volta in cui sentirò di avere l’energia per poterlo fare”.
Le parole di Satir in questo sono significative: “dire di no significa soltanto che ciò che ti viene proposto non rientra nelle tue opzioni al momento o va contro i tuoi bisogni”.

Non evitare i conflitti. Non temiamo i conflitti, rivalutiamo l’immagine che di essi abbiamo. I conflitti non distruggono, in molti casi attivano un confronto maggiore tra le parti che porta a creare più vicinanza e comprensione invece che distanza e rottura come spesso pensiamo.

Connettiti con il tuo corpo. Quietare il corpo porta a rallentare anche il flusso di pensieri, e questo ci fa bene. Per le persone altamente sensibili, imparare a focalizzarsi sul respiro può essere utile in tutte quelle situazioni di vita quotidiana in cui ci si sente sovrastimolati da fattori ambientali che assorbono le energie.

Se nel leggere questo articolo ti sei riconosciuto per molti (o tutti!) gli aspetti fin qui citati, provo a rispondere ad una domanda che può sorgere spontanea. Ma è davvero necessario per una persona altamente sensibile, intraprendere un percorso di psicoterapia?

Si pensa erroneamente che fare psicoterapia porti a pensare di avere qualcosa di sbagliato da correggere. Non è così! E ancora di più la sensibilità non deve essere vista come una malattia o un tratto invalidante.

Psicoterapia significa prendersi cura dell’anima”.

Si fa psicoterapia per conoscersi, per ri-scoprirsi, per crescere ed evolvere. Una persona altamente sensibile, in psicoterapia, potrebbe trovare utile:
– lavorare sulle ferite di non riconoscimento del passato,
– rinforzare l’autostima,
– allenarsi per riconoscere i pensieri disturbanti,
– imparare a contenere e gestire le emozioni, sensazioni e pensieri,
– comprendere quale sia per lui/lei la soglia limite che genererebbe il crollo, – riuscire a costruire la propria zona di benessere.

Dott.ssa Sonia Allegro Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia:

N. Travaini “Il dono delle persone sensibili”, Red edizioni;
D. Goleman “Intelligenza emotiva”, BUR, Milano;
C. Petitcollin “Il opere nascosto degli ipersensibili2, Sperling&Kupfler, Milano; I. Sand “Troppo sensibili”, edizioni centro studi Erickson, Trento.