Mese: <span>Settembre 2022</span>

LA SINDROME DA BURNOUT

Il burnout è una sindrome legata ad un processo stressogeno che colpisce maggiormente tutte quelle professioni che prevedono una relazione d’aiuto in una sfera psicologica e sociale.

Per burnout intendiamo quel fenomeno che in un primo momento investe dall’interno l’individuo per poi “esplodere” e manifestarsi all’esterno. I professionisti della relazione d’aiuto sono sottoposte ad una duplice fonte di stresss: lo stress personale e quello del cliente, se non trattate cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” psicofisico.

Nell’ambito delle professioni socio-assistenziali la risoluzione dei problemi dell’utente non è affatto semplice e molto spesso non ottenibile, motivazioni per cui la condizione lavorativa diviene sempre più ambigua e frustrante e lo stress cronico può logorare emotivamente l’operatore.

Pian piano può divenire uno stato di malessere e di disagio che consegue una situazione lavorativa percepita come stressante e che conduce gli operatori a divenire apatici, cinici con i proprio utenti, indifferenti e distaccati dell’ambiente di lavoro. In casi estremi tale sindrome può comportare gravi danni psicopatologici (insonnia, problemi coniugali e familiari, incremento dell’uso di alcol o farmaci), cui consegue un deterioramento della qualità delle cure o del servizio prestato e spesso assenteismo e alto turnover.

Recenti studi dimostrano il legame tra burnout lavorativo e manifestazioni sintomatologiche quali l’ansia e delle sue espressioni somatiche e modificazioni del tono dell’umore, questi sono indicatori di un disagio che tende a coinvolgere gli aspetti più generali della personalità. Ciò avviene quando la persona percepisce una discrepanza tra aspirazioni e performance effettiva.

Vengono, inoltre descritte alterazioni emozionali, comportamentali, psicosomatiche e sociali, perdita dell’efficacia lavorativa ed alterazioni lievi della vita familiare. Inoltre l’alto livello di assenteismo lavorativo si giustificherebbe inoltre tanto per problemi di salute fisica quanto psicologica, a causa della frequente insorgenza di situazioni depressive.

La dimensione psico-sociale del burnout consente di individuare alcune variabili responsabili dell’insorgenza nell’esperienza lavorativa di aspetti di affaticamento e frustrazione che a lungo andare possono dare luogo a distonie e disagi comportamentali, espresse in una gamma che si snoda dall’apatia al disturbo del controllo degli impulsi, fino ad arrivare a una vera e propria compromissione psichiatrica.

La sindrome da bornout non si manifesta in modo improvviso, è un processo graduale che si sviluppa in un tempo prolungato. Molto spesso i primi segnali vengono ignorati, considerandoli “normali”.

Troviamo 3 caratteristiche principali:

1- Distacco mentale e cinismo rispetto al proprio lavoro;

2- Sensazioni di sfinimento e mancato recupero;

3- Calo dell’efficienza lavorativa.

A queste 3 caratteristiche si associano inoltre:

Mal di testa;
disturbi del sonno
disturbi gastrointestinali;
tachicardia;
tensioni;
Stanchezza;
sfiducia in sé stessi;
maggior vulnerabilità
Elevata sensibilità allo stress;
Difficoltà relazionali;
Depressione;
Agitazione, irritabilità, nervosismo;

Cosa causa la sindrome da burnout:

Le cause sono di natura diversa e variano da individuo a individuo. Solitamente è la conseguenza di uno stress cronico e presenta fattori di rischio, quali:

Sovraccarico lavorativo;
Mobbing;
mancato riconoscimento;
Ambiente di lavoro non favorevole;
Conflitti;
Obiettivi poco chiari;
Scarsa comunicazione;
Tendenza a porsi ibiettivi irrealistici;
Abnegazione al lavoro;
Aspettative elevate;
Personalità autoritaria;
Incapacità a collaborare.

Per prevenire il burnout è importante ridurre tutte le situazioni di stress, riconoscersi come persona riconoscendo e rispettando i propri bisogni fondamentali quali sonno, cibo, attività fisica. E’ opportuno fissarsi degli obiettivi ragionevoli, non pretendendo troppo da sé stessi. Inoltre è importante un automonitoraggio rispetto ai propri sintomi, rivolgendosi ad un professionista. La tempestività nel riconoscere i primi segnali favorisce l’efficacia della psicoterapia.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo- Psicoterapeuta

 

Bibliografia:

-Corrente A. La sindrome del burnout. Una condizione soggettiva che si trasforma in malattia professionale. Pavia: Atti della Giornata di Studio Fondazione Salvatore Maugeri, 2003.

-Ferdinando Pellegrino F. La sindrome del Burn-out Nuova edizione.  Centro Scientifico Editore. Torino, 2009

-Ripamonti, C. A., & Clerici.Psicologia e salute: introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Il mulino 2008.

 

L’OMBRA INVISIBILE: LA VERGOGNA

Quando pensiamo alle emozioni, la nostra mente volge in automatico alla felicità, tristezza, paura, rabbia o disgusto. Questo accade perché esse rappresentano le cosiddette emozioni primarie (o di base). Si tratta di emozioni innate che in quanto tali, non hanno bisogno di accedere alla consapevolezza per essere provate. Forniscono importanti ed utili informazioni di ciò che accade dentro di noi e di ciò che accade agli altri e ci permettono di dirigere il nostro comportamento e le nostre azioni all’interno delle relazioni. Esistono tuttavia, una serie di altre emozioni definite come emozioni secondarie. Si tratta di apprendimenti di tipo sociale o di comportamenti e pensieri che derivano dalle emozioni primarie. Tra queste, esiste un particolare tipo di emozione che molto spesso viene trascurata e sottovalutata: la vergogna.

La vergogna è un’emozione sociale complessa che emerge principalmente in una dimensione interpersonale. È associata al timore che gli altri, solitamente ritenuti superiori (più intelligenti, più belli, più forti, più bravi…semplicemente “più”), possano giudicarci o avere un’idea negativa di noi. È inoltre, un’emozione che si attiva non solo quando si ha il timore che l’altro possa giudicarci ma anche quando, il giudizio negativo di essere imperfetti, difettosi, quindi, inferiori parte direttamente da noi stessi.

Da un punto di vista evoluzionistico, la vergogna rappresenta una strategia difensiva di sottomissione. Se pensiamo al regno animale, e per un attimo immaginiamo una scena di lotta, è possibile che ad un certo punto, la preda possa decidere di gettarsi a terra con le zampe in aria, scoprendo la parte addominale. Nell’ottica di un sistema agonistico, quale la lotta, questo tipo di atteggiamento fa sì che la preda possa inviare al suo predatore, un messaggio di non-sfida, mostrandosi vulnerabile (la parte addominale visibile ed esposta rappresenta infatti, la zona in cui sono contenuti gli organi vitali e quindi, quella più importante da proteggere), per porre fine all’attacco subito (Price e Sloman 1987; Gilbert 1992) e quindi, sopravvivere. In questo modo, avrà riconosciuto la superiorità del suo aggressore per potersi salvare, ponendosi, in automatico, in una condizione di inferiorità. Tuttavia, se per la maggior parte degli animali la minaccia è rappresentata dall’aggressione fisica, per gli uomini il timore è legato anche alla perdita di accettazione e approvazione sociale, che può innescare vissuti di vergogna fino a diventare veri e propri stati depressivi che possono indurre a forme estreme di evitamento come, il ritiro sociale, isolamento o il suicidio. Sappiamo tutti quanto sia importante il senso di appartenenza ad un gruppo sociale, proprio in ragione del fatto che, l’essere umano è esso stesso un animale sociale. Ha un bisogno innato di essere in relazione all’Altro. Tuttavia, così come è intrinseco il desiderio di affiliazione e appartenenza, al tempo stesso è difficile e complicato tessere e intrattenere relazioni stabili, durature e funzionali soprattutto se inficiate dalla percezione costante dell’altro come “essere superiore” e quindi, minaccioso al proprio senso di sé. A lungo andare, questa sensazione può incidere in modo significativo, sul benessere dell’individuo andando di conseguenza, a danneggiare il proprio senso di sé e la propria autostima in termini di impotenza e inferiorità (Doran e Lewis 2011).

Chi prova vergogna, sente sopraggiungere, in modo improvviso, sensazioni e pensieri talmente spiacevoli da diventare fonte di ulteriore disagio. A livello fisiologico si caratterizza per la presenza di rossore sul volto, tachicardia, sudorazione eccessiva, sguardo abbassato e una sensazione di caldo/freddo intensi. Queste sensazioni somatiche sono spesso, accompagnate dalla percezione di “rimpicciolire” e voler diventare “trasparenti”, “invisibili”, per sottrarsi al rischio di essere visti dentro per quello che si crede essere realmente: degli individui non degni, malevoli, difettosi. Sempre da un punto di vista fisiologico, recenti studi (Mills et al., 2008) affermano che bambini che hanno sperimentato frequenti e ripetuti vissuti di vergogna mostrano livelli di cortisolo più alti della media. L’ipotesi è che si tratti di un’emozione associata ad alti livelli di stress che vanno ad incidere di conseguenza, in modo disfunzionale, sulle strategie di coping messe in atto per fronteggiare la situazione minacciosa. Così come accade di fronte a situazioni altamente stressanti, in cuisi è sopraffatti da un’intensa emozione di paura, anche quando si prova un’intensa vergogna, il rischio è che le funzioni cognitive, come attenzione, concentrazione, linguaggio, capacità di organizzazione e pianificazione vadano in blackout. Si potrà apparire così, goffi, sconnessi, poco abili nel compiere azioni o trovare le parole per articolare un discorso. La conseguenza sarà che, un qualsiasi tipo di performance intrapresa, dalla più semplice come colloquiare con un amico alla più complessa come parlare di fisica quantistica di fronte ad una platea di luminari, ne sarà inficiata. Questo andrà così, a confermare e alimentare le proprie credenze negative di base. A livello cognitivo, infatti, le convinzioni negative più frequenti sono quelle del tipo, “sono imperfetto, sbagliato, brutto, incompetente, inadeguato, rifiutato, debole”. Infine, le risposte comportamentali che spesso si manifestano sono quelle tipiche della paura come attacco, fuga o paralisi. Non a caso, quello di cui si ha più paura ed è vissuto come minaccioso, è il possibile giudizio negativo dell’altro. Ci sono inoltre, alcuni comportamenti di compensazione che vengono messi in atto, al solo scopo di proteggersi, come essere compiacenti, biasimare e criticare l’altro per cercare di ribaltare la posizione di inferiorità in cui ci si sente o credere che solo se si è perfetti non si avrà più nulla di cui vergognarsi (Potter-Efron 1998; Rossi et al. 2011).

Nel corso degli ultimi decenni, sono stati identificati differenti sottotipi di vergogna. Nel 1997, Gilbert ha effettuato una prima distinzione tra vergogna interna ed esterna. La prima è legata alle esperienze di autovalutazione e a un senso di sé percepito come inadeguato e inferiore. Nella seconda, invece, la persona è focalizzata sul timore di essere criticata e vista come imperfetta, sbagliata (Goss e Allan 2009) e, quindi, di poter essere rifiutata (Kim et al. 2011). Secondo Greenberg e collaboratori (2000) invece, la vergogna può essere definita “primaria” quando associata al timore di ledere la propria immagine o autostima e “secondaria”, quando emerge in relazione all’esperire il proprio stato emotivo (ci si può vergognare di avere paura, di essere tristi, arrabbiati o felici). La vergogna poi, può essere intesa in termini adattivi e disadattivi. Come tutte le emozioni, ha un carattere adattivo e funzionale, se legata ad una situazione specifica e non è cronica. Diventa, invece, disadattiva quando è connessa ad un’idea profonda di sé come inaccettabile, indegna e manchevole derivata non solo da valutazioni esplicite e accessibili alla consapevolezza, ma anche da processi impliciti, automatici e inconsapevoli (Castelfranchi, 2005). Infine, vi è un tipo di vergogna definita meta-vergogna. L’oggetto che crea imbarazzo è la vergogna stessa. Si prova quindi, vergogna della propria stessa vergogna. In questi casi, si teme di essere giudicati negativamente per il fatto stesso di vergognarsi (Orazi e Mancini 2011). Con la meta-vergogna, la vergogna diventa ancora più intensa, e spesso innesca circoli viziosi in cui, vergogna e meta-vergogna si autoalimentano a vicenda e diventano difficili da disinnescare.

Ma come si sviluppa tutto questo?

Secondo Lee e collaboratori (2001), lo stile di attaccamento, l’aver vissuto eventi di vita traumatici come ripetute esperienze di umiliazione, critica o derisione e fenomeni di bullismo, possono essere considerati fattori di rischio all’origine dello sviluppo di una particolare sensibilità all’emozione della vergogna. Questo tipo di esperienze possono infatti, contribuire allo sviluppo di schemi, rappresentazioni e credenze di sé negative.

Recenti ricerche hanno dimostrato che bambini con esperienze di abbandono, trascuratezza, maltrattamenti e abusi quindi, con storie di sviluppo traumatiche (PTSDc), presentano un rischio maggiore di sviluppare schemi di sé caratterizzati da elevati vissuti di vergogna (Alessandri e Lewis 1996; Kelley et al. 2000; Mills 2003; Stuewig e McCloskey 2005). Infatti, sembrerebbe che il tipo di cure genitoriali sia un fattore predittivo nello sviluppo di emozioni come la vergogna cronica. Aver fatto esperienza continua di un genitore ipercritico, rifiutante, maltrattante, negligente o iperprotettivo può innescare vissuti di inadeguatezza,incapacità, debolezza, inferiorità, facilitando così, l’emergere dellavergogna. A tal proposito, Schore (1994, 1996, 1997) suggerisce che una mancata “connessione emotiva” del genitore nei confronti del bambino, possa essere all’origine di tali vissuti. L’assenza di riparazione di questo fallimento comunicativo fa sì che il bambino sperimenti profondi vissuti di umiliazione e non amabilitàcontribuendo ad amplificare e radicare in sé, il senso di inferiorità.

Matos e Gouveia (2010) inoltre, hanno mostrato che precoci ricordi di esperienze di vergogna possono avere lo stesso impatto degli eventi traumatici, essendo caratterizzati da intrusività, presenza di flashback, risposte di evitamento e stati di dissociazione. Inoltre, gli stessi autori sostengono che gli episodi di vergogna possono diventare parte centrale e integrante dell’identità stessa del soggetto. Questo indurrà a compiere continue e stancanti inferenze negative su se stessi e su se stessi nella mente dell’altro. Una persona che nel corso dello sviluppo ha maturato credenze di sé come inadeguato, difettoso, non degno o inferiore, tenderà a costruire schemi fondati sulla vergogna, che si consolideranno nel tempo e spingeranno ad interpretare le informazioni provenienti dall’ambiente circostante, in base a queste stesse convinzioni. Il risultato è un circolo vizioso che si autoalimenta e che va nella direzione di una maggiore predisposizione ad una vulnerabilità alla vergogna sempre crescente. La sensibilità al giudizio sociale diventa così, fonte di stress e allerta in quanto, minaccia “letale” alla propria identità. Secondo Gilbert (2004) infatti, le credenze negative hanno un ruolo cruciale nel mantenimento dell’immagine di sé come vergognosa. Esisterebbero tre differenti modalità attraverso cui la persona tende a giudicarsi e ad alimentare la propria immagine di sé negativa: inadeguate self, ovvero una forma di autocritica in cui prevale il senso di inadeguatezza che impedisce di vedere ipotesi alternative e ostacola il processo di auto-rassicurazione; hated self, dove l’autocritica è caratterizzata da un desiderio di ferirsi e un sentimento di disgusto verso se stessi; ed infine, la self reassurance, una modalità di auto-rassicurazione che permette all’individuo di mantenere un atteggiamento benevolo nei riguardi del sé.

Concludendo possiamo dire che la vergogna soprattutto quando cronica e invalidante, è un’emozione che porta con sé un mondo sommerso da acque scure e profonde che spesso, inghiottiscono totalmente e diventano un ostacolo alla possibilità di tornare a galla. L’unica possibilità per sopravvivere, quando non ci sono altre vie d’uscita, diventa rendersi invisibili o soccombere.

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

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