Mese: <span>Luglio 2023</span>

“COME CHI VOGLIO ESSERE?” LA FUNZIONE DELL’IDENTIFICAZIONE E L’USO DELLA FIABA IN PSICOTERAPIA

L’IDENTIFICAZIONE  

Nello sviluppo del bambino e dell’adolescente il processo identificativo è fondamentale perché consente al giovane di proiettare sull’oggetto parti di sé che ancora non hanno una forma definita e che egli deve ancora comprendere.  La parola Identificare deriva, infatti, dal latino “idem-fieri”,  e significa “divenire il medesimo”; nella sua forma riflessiva significa “Divenire una cosa stessa, Immedesimarsi”.

Nell’epoca moderna sono soprattutto i personaggi delle serie tv, dei cartoni di animazione, degli anime o dei manga ad essere utilizzati a questo scopo, come fulcro della possibilità di proiettare e vedere rispecchiate delle parti interne; in passato la stessa funzione che oggi hanno serie tv, film d’animazione e anime l’avevano le fiabe.

La fiaba è un racconto popolare fantastico all’interno del quale possono essere messe in scena argomentazioni tipiche del comportamento umano, da parte di personaggi vari, appartenenti sia al mondo naturale che a quello sovrannaturale. Possiamo dire che all’interno del mondo della fiaba vengono rappresentate e messe in scena tematiche appartenenti alle principali fasi evolutive dell’essere umano, interpretate da personaggi specifici.

Esse hanno una lunga tradizione orale e, prima di essere state trascritte, sono state raccontate per generazioni, dunque modificate e trasformate.

I racconti popolari rappresentano dei modelli, delle “soluzioni”, individuati per risolvere conflitti interni, di personalità, di consapevolezza e integrazione di sé stessi, attraverso la trasmissione tra generazioni. La fiaba può essere definita come una “soluzione collettiva” volta a risolvere i problemi tipici dei vari periodi di sviluppo ed evoluzione dell’uomo, tesa a favorire la coscienza e l’integrazione di parti interne di sé. È proprio per questo motivo che le fiabe sono destinate primariamente a bambini, fanciulli e adolescenti.

I PERSONAGGI

A rendere i personaggi delle fiabe (e spesso anche di molti anime e manga) così facilmente “attaccabili” dalle proiezioni dei bambini vi è sicuramente il fatto che essi non sono ambivalenti: di solito o sono buoni o sono cattivi e non possiedono caratteristiche intermedie. Ciò favorisce la polarizzazione della identificazione che domina la mente del bambino/adolescente. Caratteri opposti non vengono mai interpretati dallo stesso personaggio ma da diversi, così da mettere in risalto caratteristiche tipiche dell’essere umano in modo assolutistico; tale polarità e riduttività del comportamento umano rende maggiormente intuitiva la comprensione delle differenze tra dueatteggiamenti. Per cogliere l’ambiguità del comportamento infatti bisogna prima capire che esistono differenze individuali tra le persone e che non ogni comportamento è coerente con un altro; in seguito è poi forse possibile decidere in che modo sia, per noi, meglio comportarsi.

La polarizzazione dei personaggi della fiaba favorisce questa distinzione ed ha, in questo senso, un ruolo educativo nei confronti del giovane, perché è tesa a spiegare la complessità della psiche umana.

L’identificazione dipende, inoltre, dalla sensazione di simpatia o antipatia che quel personaggio è in grado di suscitare: Bettelheim scrive “Più un personaggio buono è semplice e schietto, più è facile per il bambino identificarsi con lui e respingere quello cattivo”.

Possiamo dunque dire che il personaggio nei confronti del quale avviene una proiezione è connotato di caratteristiche che appartengono anche al soggetto che proietta, ma che dentro di lui non sono ancora chiare: è come se l’osservazione della “messa in scena” (nella fiaba o nel cartone animato) di quello stesso vissuto emotivo o comportamentale permettesse al soggetto di comprenderne gli effetti, le conseguenze e le caratteristiche principali su sé stesso e sugli altri.

I personaggi principali diventato i rappresentati di un modo generico di essere (quindi “il buono”, il “cattivo”, il “coraggioso”…) che non prevede integrazioni di parti differenti o ambivalenze; csuccede perchè il loro intento è quello di rappresentare, in modo generico, tematiche tipiche di alcuni periodi dello sviluppo dell’essere umano. Bettelheim scrive: “Dove si parla di Hansel e Gretel, per esempio, i tentativi del bambino di continuare ad aggrapparsi ai suoi genitori benchè sia venuto il momento di affrontare il mondo da solo vengono posti in evidenza, insieme alla necessità di trascendere una primitiva oralità, simboleggiata dall’infatuazione dei bambini per la casa di marzapane. Parrebbe così che questa fiaba abbia molto da offrire al bambino pronto a muovere i primi passi nel mondo.” In questo senso, la funzione educativa della fiaba propone delle soluzioni collettive, una possibilità di svincolo e di direzione, attraversando fasi più o meno complicate che presuppongono la sconfitta di un antagonista attraverso l’utilizzo di strumenti, il più delle volte magici. La funzione e il senso simbolico che queste direzioni e strumenti possiedono possono essere utilizzati e interpretati nello spazio terapeutico, attualizzandoli all’esperienza del paziente e ricercandone il significato individuale.

LA FIABA IN TERAPIA

Per poter lavorare con la fiaba, in terapia,  è necessario stare sul significato simbolico della trama e del singolo avvenimento. È importante infatti riconoscere il tema centrale della fiaba e che questa tocchi il paziente da un punto di vista emotivo perché le immagini che le rappresentano e le compongano possano agire in modo terapeutico.

La fiaba, anche attraverso l’articolazione di ruoli e personaggi, riesce infatti ad offrire una lettura integrata degli eventi, contrapponendosi alla frammentarietà dell’esperienza. Secondo Hillman la narrazione in chiave fiabesca corrisponde all’obiettivo di costruire processi di crescita che favoriscano l’adattamento dell’individuo alla realtà esterna. Ecco perché l’identificazione con un certo personaggio, che abbia caratteristiche che ci rappresentano, permette al bambino di sperimentare una certa esperienza di vita, e di favorire il proprio personale processo di adattamento. È proprio per questo motivo che la fiaba “non si occupa tanto delle intenzioni dei singoli personaggi, o delle loro emozioni, e degli eventi reali, quanto della definizione delle loro sfere d’azione”.

Uno degli strumenti centrali della fiaba, che rende contemporaneamente il significato comprensibile o sconosciuto, è l’utilizzo della simbolizzazione. Il linguaggio in chiave simbolica ci permette di affrontare alcune tematiche che concrete e contemporaneamente affrontarne altre più profonde in chiave psicologica ed emotiva. È come se avvenisse un intreccio tra elementi figurativi e l’esperienza emotiva del soggetto. Verena Kast scrive: “i simboli che incontriamo nella fiaba rappresentano i processi evolutivi più vicini all’uomo. Ma anch’essi occupano il medesimo spazio intermedio: parlano della nostra esistenza in quanto singoli e al tempo stesso ci fanno capire che il nostro problema individuale è anche un problema collettivo […]. Questo spazio intermedio è il regno della fantasia, della creatività, dell’arte, della vita simbolica e pertanto anche della fiaba. Nel simbolo sono condensati esperienze e contenuti psichici (soprattutto emozioni) che non sono esprimibili per altra via”.

In questo senso, una delle funzioni principali della fiaba, è la “funzione schermo”, inteso come specchio sul quale si proietta la parte inquietante e poco comprensibile anche di noi stessi, contemporaneamente decentrandola da sé. Soprattutto nel periodo della pre adolescenza e della adolescenza tutto ciò che riguarda la sfera dell’eros viene allontanato dalla coscienza e riproiettato su elementi esterni, come quello della fiaba o della serie tv.

Un’altra funzione fondamentale, nelle prime fasi del racconto della fiaba, è quella del “patto narrativo” ovvero la qualità e la tipologia di contatto che vi è tra chi ascolta e chi racconta la fiaba; di solito i bambini pendono dalle labbra del narratore e, proprio per questo motivo, è importante osservare come reagiscono alla comparsa dei vari personaggi e quali sono le loro reazioni. Ciò ci permette di poter individuare le tematiche su cui poter lavorare e di intervenire in modo mirato.

Il lavoro con le fiabe nel contesto terapeutico può favorire una intensificazione del processo o una sua riattivazione in caso di stallo, ma è necessario che essa venga presentata al momento giusto e che sia adeguata alla situazione presente del paziente. In ogni caso, quando la fiaba viene introdotta in seduta, modifica sempre la situazione terapeutica perché muta il ruolo e il punto di vista dei due attori. All’interno della terapia, infatti, la fiaba assume la funzione di uno spazio di transizione (Winnicott) tra la realtà personale dell’individuo e quella del racconto popolare. Gli elementi simbolici presenti nella fiaba possono rimanere nella mente del paziente anche all’infuori della seduta e far si che egli prosegua il lavoro di ricerca di significato autonomamente, anche in assenza del terapeuta. Inseriti all’interno del contesto della fiaba, la storia individuale e la sofferenza personale del paziente acquisiscono nuovi significati perché vengono letti a partire da un patrimonio di esperienze collettive, appartenenti a tutta l’umanità.

Inoltre l’identificazione con il personaggio favorisce l’autonomia psichica del paziente il quale, attraverso il processo identificativo, può sviluppare idee creative e prendere decisioni importanti che riguardano la sua situazione personale.

In conclusione, la fiaba utilizzata in terapia ha la funzione di rappresentare uno spazio su cui proiettare dei vissuti interni ed emotivi al fine di favorire identificazioni utili ad attivare un processo di autonomia psicologica; “quest’attività è favorita dal fatto che la fiaba offre un canovaccio su cui basare le proprie fantasie, uno spazio sicuro e non prescrittivo. Ritengo che l’esperienza dell’elaborazione creativa di questo spazio intermedio e dei processi simbolici rappresentati nella fiaba, e l’autonomia, l’ampliamento della sfera di significati e l’energia emozionale che ne derivano, siano essenziali per la psicoterapia”.

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa- Psicoterapeuta

L’AUTOLESIONISMO E AUTODISTRUTTIVITÀ IN ADOLESCENZA

Uccido il mio corpo

poiché esso

mi uccide”

Platone

Il termine autolesionismo deriva dal greco αὐτός e dal latino laedo (danneggiare) e significa letteralmente “danneggiare sé stessi”.

Esso indica la tendenza a provocare il danneggiamento del proprio corpo attraverso lesioni autoinflitte dirette e intenzionali senza necessariamente intenzioni suicidarie, tipica di alcuni adolescenti e giovani adulti.

Le condotte autolesionistiche non hanno un senso univoco, non può esserci una causa precisa in ogni circostanza, possiamo intenderla certamente come una strategia per gestire la sofferenza psicologica talvolta inserita appunto nel quadro di una psicopatologia più complessa.

Si tratta di modalità comportamentali riscontrabili in varie categorie diagnostiche come ad esempio disturbi d’ansia, disturbi dell’umore, disturbi di personalità, abuso di sostanze, disturbi del comportamento alimentare.

Sono forme di sofferenza definite appuntoDeliberate self-harm” ovvero “Auto-danneggiamento intenzionale” che comprende un repertorio vario di comportamenti patologici, riconducibili a tre principali tipi di condotte di:

1. Auto-danno come l’abuso di sostanze psicoattive, la sex promiscua e il gioco d’azzardo;

2. Auto-avvelenamento come l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe;

3. Autolesive come tagli, scarnificazioni, graffi, escoriazioni, lividi (cutting); bruciature e ustioni (burning) e ancora morsi, tricotillomania, eccessiva onicofagia etc.

Parlare di autolesionismo in adolescenza è faticoso poiché è difficile accettare l’intenzionalità autodistruttiva di un adolescente nel pieno della propria vita e farsi carico della drammaticità di tutto ciò.

Per poter comprendere meglio la tematica, occorre fare un cenno all’oggetto destinatario delle dinamiche autolesionistiche ovvero il corpo e come questo viene vissuto nel periodo adolescenziale.

Il corpo in adolescenza diviene il luogo dove avviene la ridefinizione di Sé rispetto al mondo esterno, esso si pone come il ricettacolo di pensieri, attenzioni e preoccupazioni dell’adolescente nonché portavoce della sua sofferenza.

Il corpo che vive gli inaspettati, inevitabili e dirompenti cambiamenti puberali e fisiologici può essere sentito come inautentico o non rappresentativo, fuori luogo, non corrispondente a come viene esperito e di conseguenza diventare causa di vergogna e imbarazzo sociale, nonché bersaglio del malessere e aggressività.

Le condotte autolesive esprimono una ricerca disperata di modi per lenire la propria sofferenza, più nello specifico possiamo osservare i seguenti significati:

1. COMUNICAZIONE ovvero l’espressione di ciò che è impossibile mettere in parole
2. AUTOREGOLAZIONE EMOTIVA di intense emozioni sentite come eccessive (es. ansia, tristezza, impotenza, perdita, rabbia, colpa, vergogna, abbandono, rifiuto etc.).

Quando la mente è sopraffatta, la ferita reca sollievo rispetto ad un disregolato stato di arousal psicofisiologico, ingaggiando una lotta distruttiva tra sé e il proprio corpo e cercando di ripristinare uno stato mentale più tollerabile. Ciò avviene anche a livello di pensieri perché per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico e ciò che ne consegue (es. vista del sangue, disinfettare, apporre cerotti etc.) distogliendosi dal dolore interiore.

La disregolazione emotiva è il fallimento della regolazione flessibile dell’esperienza e/o espressione emotiva, comune a molti quadri psicopatologici.

3. STRATEGIA DISADATTIVA DI COPING come modalità di fronteggiare le avversità
4. FORMA PATOLOGICA DI AUTOAIUTO E AUTOMEDICAZIONE
5. RICHIESTA DI AIUTO dalla forte potenza comunicativa ed espressiva del dolore per attivare delle risposte di accudimento

6. MODALITÀ PER CONCRETIZZARE la sofferenza in vissuti corporei, visibili, più controllabili anche perché autoprodotti. Il dolore somatico esterno simboleggia il vuoto interno.

7. MODALITÀ CATARTICA di sbarazzarsi parti non gradite di Sé (ricordi dolorosi, aspetti traumatici, cambiamenti puberali indesiderati etc.)
8. PUNIZIONE AUTOINFLITTA, specie per chi presenta elevato autocriticismo
9. COSTRUZIONE DI UNA MEMORIA DI SÉ poiché la cicatrice diviene l’autobiografia emotiva, evolutiva e identitaria dell’adolescente. Una ferita, inoltre, offerta come testimonianza, sfida, provocazione, richiesta di essere visti.
10. FUNZIONE DI UN’APPROPRIAZIONE ATTIVA del processo di vita, allontanare vissuti di passività e di dipendenza (molto temuti in adolescenza) e ridurre il senso d’impotenza oppure svolgere una FUNZIONE ANESTETIZZANTE, calmante cioè mettere ordine alle tensioni e alla confusione mentale. Ricordiamo infatti che i tagli provocano una distensione dopaminergica e di oppioidi endogeni, diventano una forma di esistenza e strumento di controllo su di sé.

L’autolesività rappresenta i modi di esternalizzare gli affetti negativi proiettati sul corpo, necessari “per sentirsi vivi” contro parti morte di sé o non attrezzate a rappresentare uno o più dolori indicibili.

Il dolore psichico è così intenso e insopportabile e il corpo è utilizzato come veicolo di sofferenza e lo stesso viene attaccato, a volte, con modalità autolesive e autodistruttive (dca, autolesionismo e tentato suicidio).

Il trattamento necessario per le condotte autolesive richiede trattamenti psicoterapeutici che si focalizzino sulla regolazione delle emozioni per affrontare la sofferenza, sulla capacità di coping funzionali e adattive nonché sull’incremento della capacità di mentalizzazione ovvero la capacità di comprendere il proprio e altrui comportamenti in termini di stati mentali.

Come professionisti della salute mentale, sconsigliamo un atteggiamento giudicante o di condanna del comportamento autolesivo ma è bene favorire una richiesta di aiuto per rivolgersi a specialisti per un’adeguata valutazione e psicoterapia.

BIBLIOGRAFIA

R. Ostuzzi, M. Pozzato, Autolesionismo e disturbi di personalità (M.D. Medicinae Doctor – Anno XVI numero 5 – 18 febbraio 2009);

– M. Lancini, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella, L’Adolescente Psicopatologia e psicoterapia evolutiva Raffaello Cortina Editore 2020;

– M. R. Monti, A. D’agostino, L’Autolesionismo, Carocci Editore 2009;

– C. D’agostino, M. Fabi, M. Sneider, Autolesionismo. Quando la pelle è colpevole, L’asino d’oro 2016.

Dr. Ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica Psicoterapeuta