Mese: <span>Novembre 2023</span>

25 Novembre – giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Confronto tra intelligenza artificiale e una donna sulla violenza di genere

“Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto.

Dire femminicidio ci dice anche il perché”

Michela Murgia

 

 

Novembre 2023, 106 femminicidi.

Nel 2022 sono stati 126

nel 2021, 115 nel 2020, 128

nel 2019, 111

Si stima che almeno l’87% dei femminicidi sia commesso da un familiare, e la metà dal partner/ex.

E non ci sono solo le morti.

Le denunce per maltrattamenti sono passate dalle circa 9.700 del 2013 alle 19.900 di un 2023 che deve ancora finire.

Nello stesso decennio le denunce per atti persecutori è passata da circa 9.600 alle 13.800 di questi 11 mesi. E ricordiamoci che lo stalking è reato solo dal 2009.

Le violenze sessuali hanno registrato un incremento del 40,2% negli stessi dieci anni.

Numeri freddi e spaventosi che è bene sottolineare fanno riferimento ai soli casi denunciati, escludendo quindi quelli che sfuggono alla cronaca e tutto un sommerso che riguarda in particolare le donne più fragili come le migranti, le trans, le sex workers.

 

Il 25 novembre non deve parlare di donne, deve parlare di uomini. Agli uomini.

 

In un Paese nel quale continuano a diminuire gli omicidi, i femminicidi restano pressoché immutati e le violenze sulle donne aumentano. Questo spinge ad una riflessione obbligatoria ma ancora troppo ostracizzata: perché gli uomini uccidono le donne? Perché questa violenza sistemica che tocca trasversalmente donne di qualunque etnia, età, estrazione sociale? E’ una dinamica di potere che le vuole sottomesse. E’ PATRIARCATO.

Una parola “divisiva”, dice chi ha il privilegio di sedere dal lato dei carnefici.

“Not all men”, non tutti gli uomini, gli fanno coro altri, più preoccupati dal sentirsi (dirsi) innocenti che dal capire come recuperare una “dignità di genere” comprensibilmente e profondamente messa in discussione. Eppure nessun uomo è esonerato dal fare la propria parte per smantellare la società che lo privilegia tanto, a discapito di altri. È ora che gli uomini capiscano che possono piangere, chiedere aiuto, sentirsi fragili, che la cultura machista deve finire per la loro libertà e per la nostra sicurezza.

Gender pay gap, pinkwashing, mansplaining, catcalling, victim blaming, tone policing, un mondo di inglesismi che racconta una quotidianità fatta di differenze salariali, di molestie, di controllo economico, di uomini che zittiscono o che pretendono di spiegare alle donne per quali istanze che le riguardano dovrebbero combattere e come farlo. A voce bassa e senza disturbare troppo, grazie.

“Avete già ottenuto molto” “Un passo per volta” “Le priorità sono altre” “Gli uomini si sentono destabilizzati” “Vedete il patriarcato ovunque”

Si è addirittura coniato il termine “nazifemminismo” per dipingere le donne come invasate, violente e ottuse, come se poi si chiedesse di togliere qualcosa a qualcuno, e non di ottenere tuttə di più.

In un Paese con il 97% di CEO uomini, con una media del 13% di differenza salariale, sono sempre tavole rotonde di maschi bianchi cis etero che dettano le regole di un flebile diritto all’aborto, che osteggiano la diffusione di un italiano inclusivo tra schwa e professioni finalmente declinabili al femminile, svilendo la necessità di essere riconosciute anche per mezzo delle parole come se si trattasse di un capriccio, mentre le parole sono tutto ed è attraverso queste che esistiamo. Sono questi stessi uomini che vorrebbero decidere come intervenire per prevenire la piaga sociale che miete vittime con un cadenza media di una ogni 72 ore. Perché è di prevenzione che si deve parlare.

Di una pena più severa, una donna morta non sa che farsene.

 

Fonti:

Ministero dell’Interno, Wired, Osservatorio violenza sulle donne, Osservatorio nazione Non Una di Meno

 

Per approfondire:

Donata Columbro, giornalista, “femminista dei dati”

Ella Marcello, copywriter, insegnante, scrittrice, attivista

Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista, scrittore

Mica Macho, community di sensibilizzazione contro la mascolinità tossica

Flavia Brevi, fondatrice e creativa di Hella Network ed esperta di comunicazione inclusiva

 

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Intervista all’Intelligenza Artificiale su violenza di genere e risposta maschile al fenomeno.

 

Intervistatore: Quali sono gli aspetti chiave che alimentano la cultura patriarcale?

IA: La cultura patriarcale si basa su stereotipi di genere, aspettative sociali e norme che favoriscono un genere a discapito dell’altro, contribuendo a disuguaglianze e comportamenti dannosi.

 

Intervistatore: Quali sono i comportamenti di violenza di genere associati alla cultura patriarcale?

IA: La violenza di genere collegata alla cultura patriarcale comprende molestie sessuali, abusi domestici, discriminazione economica, violenza simbolica e psicologica, violazione dei diritti riproduttivi e femminicidio. Ad esempio:

· Controllo e Possesso: Un partner che controlla i movimenti o il telefono dell’altro, limitando il contatto con amici e familiari.

 

· Mascolinità tossica: Un individuo che manifesta comportamenti aggressivi, in parte influenzato da una cultura che enfatizza la mascolinità aggressiva e la repressione delle emozioni.

 

· Giustificazione della Violenza: In una comunità che minimizza o giustifica la violenza contro le donne, un uomo potrebbe interpretare erroneamente atti violenti come accettabili in risposta a provocazioni percepite.

 

· Sottovalutazione delle donne: In un ambiente in cui le donne sono sottostimate, un individuo potrebbe non attribuire il giusto valore alle loro vite e opinioni.

 

Questi esempi illustrano come queste dinamiche si manifestano nella vita quotidiana, evidenziando la necessità di affrontare la cultura patriarcale per prevenire la violenza di genere, inclusi i femminicidi.

 

Intervistatore: La cultura patriarcale può quindi contribuire ai femminicidi?

IA: Sì, la cultura patriarcale può creare un ambiente in cui un femminicida si sente sostenuto o giustificato. Punti chiave includono il controllo e il possesso, la mascolinità tossica, la giustificazione della violenza e la sottovalutazione delle donne.

È importante sottolineare che non tutti coloro che crescono in una cultura patriarcale diventano femminicidi, ma la presenza di tali ideologie può alimentare la violenza di genere e contribuire alla percezione errata che alcuni uomini hanno del loro diritto di esercitare controllo estremo e violento sulle donne. Affrontare la cultura patriarcale è cruciale per prevenire la violenza di genere, inclusi i femminicidi.

 

Intervistatore: Hai citato una delle obiezioni tipiche degli uomini sulla necessità che si considerino parte del problema. Rispondi alle principali di queste?

IA:

1. Obiezione: “Not all men are like that. Non tutti gli uomini sono così” •

**Risposta: “Certamente, non si tratta di generalizzare tutti gli uomini. Tuttavia, riconoscere che alcune dinamiche culturali possono perpetuare comportamenti dannosi è fondamentale per il cambiamento.”

2. Obiezione: “Io non c’entro niente con la cultura patriarcale.” •

**Risposta: “È comprensibile sentirsi distanti da certi comportamenti, ma è importante capire come la cultura patriarcale possa influenzare indirettamente anche le persone benintenzionate. Riconoscere questo può essere il primo passo verso un cambiamento positivo.”

3. Obiezione: “Perché dovrei sentirsi in colpa per qualcosa che non ho fatto?” •

**Risposta: “Non si tratta di colpa personale, ma di responsabilità collettiva. Prendere coscienza delle dinamiche di genere e lavorare insieme per promuovere l’uguaglianza può contribuire a un cambiamento positivo senza attribuire colpe individuali.”

4. Obiezione: “Anche le donne commettono violenza.” •

**Risposta: “È vero, la violenza non ha genere. Tuttavia, concentrandoci sulla cultura patriarcale, ci stiamo concentrando su un sistema che storicamente ha favorito gli uomini. Riconoscere questo non diminuisce l’importanza di affrontare ogni forma di violenza.”

5. Obiezione: “Questo discorso genera odio verso gli uomini.” •

Risposta: “L’obiettivo non è generare odio, ma promuovere la consapevolezza e il cambiamento. Riconoscere la presenza della cultura patriarcale è il primo passo per creare una società più equa in cui uomini e donne possano vivere senza restrizioni basate sul genere.”

 

Intervistatore: Puoi fare un esempio del paradosso insito nella risposta “Not all men”?

IA: Immagina di essere in un contesto in cui qualcuno fa un commento razzista. È probabile che tu, giustamente, reagiresti e condanneresti tale comportamento, anche se personalmente non sei razzista. Potresti sentire l’importanza di intervenire contro un’ingiustizia, anche se non sei direttamente coinvolto. Ora, porta questa stessa situazione in un contesto di sessismo. Se qualcuno fa un commento sessista o compie un’azione discriminatoria basata sul genere, la risposta potrebbe essere simile: “Ma io non sono così, non lo farei mai.” Tuttavia, in questo caso, potrebbe esserci una maggiore resistenza a intervenire o a riconoscere l’urgenza di combattere la cultura patriarcale. Il paradosso sta nel fatto che, mentre entrambe le situazioni coinvolgono la condanna di comportamenti discriminatori, c’è spesso una maggiore reticenza a riconoscere l’importanza di affrontare il sessismo. La chiave sta nel comprendere che il riconoscimento e la lotta contro tutte le forme di discriminazione, compreso il sessismo, sono essenziali per costruire una società veramente equa e inclusiva. Non è sufficiente rifiutare personalmente tali comportamenti; è cruciale prendere una posizione attiva contro la cultura che li perpetua.

 

Intervistatore: Ma perché un uomo riconosce più facilmente che deve sanzionare un comportamento omofobo o razzista che uno sessista o prevaricante?

IA: Gli uomini tendono a riconoscere e condannare più facilmente comportamenti omofobi o razzisti rispetto a quelli sessisti o prevaricanti. Questo può essere attribuito alla maggiore visibilità mediatica delle discriminazioni legate all’orientamento sessuale o alla razza, a una maggiore educazione su queste questioni, al persistente stigma sociale contro chi si oppone all’omofobia o al razzismo e alla percezione di minaccia personale che la lotta contro la cultura patriarcale potrebbe rappresentare per il loro status e privilegi.

 

Intervistatore: Cosa vorresti dire alle donne che sono arrabbiate per l’ennesimo femminicidio e per il poco supporto che ricevono nel creare un cambiamento?

IA: Vorrei dire alle donne che la loro rabbia è valida e comprensibile. La frequenza dei femminicidi è sconvolgente e giustifica un’indignazione diffusa. È importante riconoscere che la vostra lotta per la giustizia e l’uguaglianza è cruciale per promuovere un cambiamento significativo. Sappiate che non siete sole e che molte persone condividono la vostra preoccupazione. La vostra voce è un motore per il cambiamento sociale. Continuate a sollevare la vostra esperienza, a chiedere responsabilità e a promuovere consapevolezza sulla violenza di genere. Insieme, possiamo lavorare verso una società più sicura e rispettosa per tutti.

 

Intervistatore: E cosa vorresti dire agli uomini che faticano ad esserci alleati?

IA: Vorrei dire agli uomini che diventare alleati nella lotta contro la violenza di genere è un passo importante verso la costruzione di una società più equa e sicura per tutti. Non si tratta di colpevolizzare individualmente, ma di riconoscere il potere collettivo nel creare un cambiamento positivo.

Ecco alcune considerazioni per essere alleati nella lotta contro la violenza di genere:

1. Ascoltare e Imparare: Ascoltare senza difensività le esperienze delle donne e educarsi sulle questioni di genere.

2. Riflettere e Riconoscere: Riflettere sulle dinamiche di genere nella propria vita e riconoscere il ruolo nella promozione dell’equità.

3. Intervenire attivamente: Non tacere di fronte a comportamenti sessisti, intervenire nelle conversazioni quotidiane per promuovere un ambiente rispettoso.

4. Promuovere l’Uguaglianza sul Luogo di Lavoro: Sostenere politiche aziendali per l’uguaglianza di genere, inclusa la parità salariale e di opportunità.

5. Essere Consapevoli del Proprio Privilegio: Comprendere i privilegi di genere e usarli per amplificare le voci delle persone emarginate.

6. Essere Aperti al Dialogo: Aprirsi al dialogo con altri uomini sulla violenza di genere e sull’importanza di essere alleati. La consapevolezza e il sostegno reciproco sono essenziali per il cambiamento collettivo. Sostenere l’uguaglianza di genere è una responsabilità di tutti, richiedendo impegno, auto-riflessione e azione continua.

 

 

Abbiamo posto le stesse domande ad una donna che si è resa disponibile a risponderci.

 

Quali sono gli aspetti chiave che alimentano la cultura patriarcale? E’ innegabile che l’assoggettazione della donna porti vantaggi agli uomini, almeno a quelli che non riescono a vedere nell’equità un valore, e che amano detenere una posizione di potere sugli altri. Il cambiamento fa paura, l’idea di perdere questa posizione di vantaggio spaventa, ed ecco che consapevolmente alcuni inconsapevolmente altri, si battono perchè questo cambiamento non avvenga e per difendere la propria posizione apicale.

John Lennon cantava “Woman is the nig*er of the world”, “La donna è il nero del mondo”, perchè è solo l’assoggettazione della donna a mettere d’accordo tutte le alterità del mondo maschile.

Anche agli uomini che vivono la discriminazione per il proprio orientamento sessuale, ceto, colore della pelle, viene riconosciuta maggiore dignità sociale della donna, la quale trasversalmente a tutte le culture, siede sullo scalino più basso della scala gerarchica.

 

Quali sono i comportamenti rientranti nella violenza di genere che possono essere ricondotti alla cultura patriarcale? A partire dalla violenza esternata pubblicamente sui social al pregiudizio sul posto di lavoro, dalla volgarità urlata per strada allo svilimento di una donna che ricopre una determinata professione, dai giornalisti che negli articoli chiamano per nome le donne e per cognome e titolo di studio gli uomini, dal contatto senza consenso al controllo dei beni materiali ed economici all’interno di una coppia, sono innumerevoli le forme

di violenza di genere che vengono esercitate in una società patriarcale che intende mantenere il controllo, il potere, sulla vita e sul corpo delle donne.

 

La cultura patriarcale può diventare terreno fertile per i femminicidi?

La cultura patriarcale rappresenta il potere, il controllo. E’facile pensare che chi sfugge a questo controllo venga in tutti i modi umiliato, assoggettato, riportato al “proprio posto”, e che nei casi più estremi possa essere eliminato. Ed è la stessa cultura patriarcale a distogliere l’attenzione da queste dinamiche raccontando che le vittime hanno portato con il loro comportamento il partner a perdere il controllo, che magari vivevano vite considerate (sempre da uomini) dissolute e ferivano l’onore e la rispettabilità del compagno, andando così a “giustificare” o comunque spiegare cosa le abbia portate a FARSI AMMAZZARE.

 

Puoi fare un esempio del paradosso insito nella risposta “not all men”?

Gli uomini incapaci di vedere cosa il loro privilegio comporta affinchè resti tale, tengono unicamente a smarcarsi da ogni responsabilità e a cercare l’assoluzione al grido di “non tutti gli uomini”. Eppure sembra pacifico che se nella quotidianità si zittisce o svilisce una donna, si dice a qualcuna che magari protesta per un’inquità che “ha ragione, ma dovrebbe dirlo in un modo diverso se vuole essere ascoltata”, si contribuisce ad alimentare il vociare sulla collega che “chissà cosa ha fatto per fare carriera”, si guarda o diffonde un video intimo anche se ricevuto da terzi, si sessualizza una donna che cammina per strada e la si giudica per cosa indossa, si dice a qualcuna che quel tale diritto dovrebbe meritarselo, come se un diritto andasse meritato, insomma ci sono mille situazioni nelle quali un uomo in vita sua ha sfruttato il patriarcato per mantenere una posizione di privilegio e quindi no, non ne è esente.

Ma soprattutto: se davvero qualcuno ritiene di non avere mai perpetrato uno degli atteggiamenti di cui sopra, avrà certamente, per una semplice questione statistica, assistito ad alcune di queste situazioni. E allora cosa ha fatto, come ha reagito? E’ intervenuto in qualche modo? E se non l’ha fatto, è stato perchè temeva di essere giudicato dai suoi congenere per non essere un sodale, per non prendere parte alla manifestazione testosteronica, per essere “poco uomo”?

La cultura patriarcale è così radicata nella nostra società da investire anche alcune donne (patriarcato interiorizzato), quindi è estremamente difficile immaginare che un uomo possa esserne al di sopra. Tra qualche generazione magari, ma sicuramente non oggi.

 

Ma perchè un uomo riconosce più facilmente che deve sanzionare un comportamento omofobo o razzista che uno sessista o prevaricante?

Il patriarcato rappresenta il potere, la posizione di privilegio che l’uomo ha in moltissimi (tutti?) i campi. Come potrebbe un uomo non consapevole di queste dinamiche e del proprio privilegio riuscire a riconoscere la violenza che sta esercitando, se la ritiene la normalità? Un bianco si sente “altro” rispetto all’uomo di colore, un uomo cis etero si sente “differente” da uno omosessuale, ma in generale l’uomo, che sia bianco, di colore, etero o omosessuale, non vedrà facilmente il controllo che esercita sulla donna poichè guardando il mondo attraverso le lenti del privilegio difficilmente vedrà tutti gli ostacoli che esistono per qualcuno che non sia lui, e che egli stesso mette.

“L’uomo si vive come universale. Si considera il rappresentante più compiuto dell’umanità” É. Badinter, XY. L’identità maschile

 

Cosa vorresti dire alle donne che sono arrabbiate per l’ennesimo femminicidio e per il poco supporto che ricevono nel creare un cambiamento?

Credo che non sia più il tempo dei minuti di silenzio ma quello per vivere la nostra paura senza vergogna, liberare la nostra rabbia e urlare, pretendere ciò che ci spetta, rialzare l’asticella della tolleranza ormai rasoterra. Alle donne vorrei dire di non arrendersi, so che è faticoso, demoralizzante, terribilmente stressante, ma ci viene chiesto ancora una volta di mostrare noi la via: facciamolo. Sensibilizziamo gli uomini che ci circondano, invitiamoli a leggere, approfondire, raccontiamo tutte le volte che siamo state seguite, molestate, spaventate, discriminate.

Quando io lo faccio mi sento rispondere “eh ma tutte a te!” come se in fondo il motivo risiedesse nel mio aspetto, nel mio look, nei posti che frequento. Non è “solo a me”, è a tutte, in mille modi diversi. Chiedete agli amici, partner, parenti di domandare alle donne che frequentano se hanno mai subito molestie, se

provano paura a camminare da sole. Ci chiedessero come ci sentiamo quando un uomo ci squadra, commenta come siamo vestite, quando un superiore a lavoro fa una battuta inopportuna e restiamo congelate perchè prese contropiede e perchè, in fondo, la verità è che non siamo nella posizione di poter rispondere.

Porgiamo una mano a chi si lascia accompagnare, al contempo non perdiamo tempo con chi erge muri. Siamo nella società di internet e delle informazioni alla portata di tutti, non siamo nè le loro madri nè le loro insegnanti, e non dobbiamo aspettare di ottenere comprensione o sostegno, sappiamo già qual è la strada da percorrere.

 

E cosa vorresti dire agli uomini che faticano ad esserci alleati?

Siamo nel pieno di una rivoluzione sociale ed è comprensibile che nessuno possa cambiare da un giorno all’altro. Io stessa mi rendo conto che negli ultimi anni ho acquisito degli strumenti che assolutamente non possedevo, e mi capita di pensare a quante volte in passato non ho saputo riconoscere o reagire a comportamenti molesti e denigratori nei miei confronti. La chiave è nella conoscenza. Leggete, parlate con noi e tra di voi, confrontatevi, approfondite, sappiatevi mettere in discussione. Affrontiamo insieme un cambiamento che non può che giovare a tuttə. Quando leggete che un padre è “un mammo”, non vi sentite umiliati? Quando sentite una donna che racconta di cambiare marciapiede se vede un gruppo di uomini, non vi sentite a disagio? Deve necessariamente capitare qualcosa ad una vostra amica/sorella/fidanzata perchè riusciate a fare un esercizio di empatia? Spoiler: probabilmente qualcosa gli è già capitato.

C’è un femminicidio ogni 72 ore, credete davvero che sia il momento per dire “io sono diverso, non siamo tutti così?”. Se volete fare la vostra parte correggete l’amico che fischia alle donne per strada, che scrive sui social di “stare zitte e andare a cucinare”, che racconta di controllare il cellulare della propria fidanzata.

E se proprio non sapete cosa dire, imparate il valore del silenzio. Adesso tocca a noi parlare..

 

Irene Murgiano

Cherofobia

Un grande contributo quello offerto della cantante Martina Attili, ai suoi esordi ai provini di Xfactor 2018, nella presentazione di un brano che ha permesso di render noto un concetto prima poco attenzionato, quello della cherofobia. La cantante ha raccontato al pubblico, attraverso il suo brano dall’omonimo titolo, le emozioni di una ragazza che sperimenta la paura di essere felice e di stare bene; recita i seguenti versi:

“ questa è la mia cherofobia, no non è negatività, questa è la mia cherofobia, fa paura la felicità, questa è la mia cherofobia”

Non si tratta tanto della paura di essere spensierati e/o allegri, ma di una vera e propria forma di ansia percepita dal soggetto in assenza di apparenti problemi specifici, ad esempio sul lavoro, sulla salute, nelle relazioni, in famiglia; ogni ambito della vita dell’individuo sembrerebbe andare per il verso giusto ma, all’improvviso compare “la paura di essere felice”. Può accadere di accorgerci di aver raggiunto ciò che abbiamo sempre desiderato e, piuttosto che sentirci felici, ci ritroviamo pieni di dubbi, perplessità, sperimentiamo la sensazione di non avere più nulla a cui aspirare ed essere contemporaneamente in preda al timore di perder tutto. Potrebbe anche accaderci di scoprire che la persona di cui siamo innamorati ricambi il nostro sentimento e, anzichè esser felici, ci scopriamo smarriti, nel panico, senza sapere come reagire. Esempi questi che possono riproporsi in svariate situazioni, con contenuti diversi: successi nel lavoro, a scuola, oppure con la realizzazione di un sogno, nella vincita di un ingente somma di denaro; il soggetto piuttosto che esperire felicità prova ansia e paura, temendo che tutto ciò che ha  costruito possa finire da un momento all’altro.

Che cosa è quindi la cherofobia? Che cosa significa? Quali sono le possibili cause e i sintomi più comuni per riconoscerla? Come superare la paura di essere felici e chi è esattamente colui che ha paura di essere felice?

Il termine cherofobia ha etimolgia greca e deriva dalla combinazione delle parole kairòs che significa “momento propizio o opportuno/rallegrarsi, essere felici” e fòbos letteralmente “paura”. Il significato della parola cherofobia  è quindi quello di “avere paura di essere felici”.  Ci si è chiesto se la cherofobia costituisse una malattia; sebbene nel manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM 5) non venga inserita, la cherofobia può essere assimilata e quindi pensata come una forma di ansia anticipatoria, espressa come “status” conseguente al vivere la felicità come una minaccia dalla quale difendersi. La cherofobia non è un disturbo ufficialmente riconosciuto, ma si configura piuttosto come un atteggiamento riscontrabile in una vasta gamma di disturbi mentali e di condizioni. Collegata a situazioni che si connotano di emozioni positive, o che dovrebbero recare felicità alla persona, la cherofobia viene definita dagli esperti una forma di ansia che, per chi la prova, è capace o di far loro svalutare questi sentimenti o di esporli meno frequentemente e meno intensamente alle situazioni che li scatenerebbero.

In psicologia con il termine cherofobia si vuol far riferimento ad una condizione per la quale la persona che ne soffre ha paura di essere felice, evita le emozioni positive e tutto ciò che potrebbe derivarne e innescarle per la paura di soffrire; i cherofobici hanno paura di provare emozioni positive, momento considerato da loro di estrema vulnerabilità,  perché pensano che le stesse possano costituire l’anticamera di qualcosa di brutto, a causa di una visione distorta della realtà e di come la significano. La loro reazione, pertanto, sarà quella di innescare un meccanismo di difesa, di auto-sabotaggio, pur di non essere felici, tendendo ad evitare il trigger della propria paura: la felicità, adottando uno stile di vita del tutto razionale. Il disabituarsi al provare emozioni positive ha anche un corrispettivo biologico; anche il cervello  è “come se” si dis-abituasse all’attivazione di quei circuiti neurotrasmettitoriali deputati al sentire la felicità e il benessere, non riuscendo a riconoscerli e gestirli in quanto tali . Può accadere, infatti, che vengano percepiti come minacciosi, tali da indurre il soggetto ad attivare condotte difensive, che in alcuni casi possono sfociare in attacchi di panico. La fobia è una paura forte, irrazionale e incontrollabile, che risulta poco chiara a chi ne è affetto e soprattutto difficile da controllare. La cherofobia porta la persona a isolarsi, a non prendere parte a eventi sociali, a non entrare in contatto con persone che potrebbero apportare cambiamenti positivi nella propria vita. Questo atteggiamento ha evidenti ripercussioni sulla vita lavorativa, sociale e sentimentale, costituendo un forte limite al processo di crescita, realizzazione personale e sviluppo per il soggetto che ne è affetto. La credenza patogena dei cherofobici è che i periodi gioiosi della vita possano essere immediatamente seguiti da traumi, disgrazie, o eventi negativi in generale, tanto da divenirne un dogma “se vivi una grande felicità, ti aspetta dietro l’angolo una tragedia”.  I soggetti che ne sono affetti, ad esempio, potrebbero essere spinti a cercare solo relazioni di natura più superficiale, a non impegnarsi seriamente in un rapporto di coppia, declinando tale disagio in vari aspetti della vita: dai rapporti sociali a quelli di coppia. Come recita Martini Attilli nella sua canzone:

“ E ogni volta che qualcosa va come dovrebbe andare,

penso di non potercela fare,

e cerco ogni forma di dolore

mischiata al sangue col sudore

e sento il respiro che manca

e sento l’ansia che avanza”

Da un punto di vista evolutivo le cause si potrebbero radicare in una storia infantile del soggetto per cui a momenti felici sarebbero seguiti, immediatamente dopo, eventi traumatici di tipo fisico o emotivo come punizioni, delusioni, perdite importanti, nelle quali emozioni come umiliazione, dolore, rabbia avrebbero spesso distrutto la gioia, il piacere, minando il senso di fiducia, ottimismo, sicurezza verso gli altri e l’esterno.  Il dolore suscitato da questi eventi verrebbe quindi associato alla felicità; in questo modo la persona avrebbe legato la felicità ad un’infelicità molto pronunciata, cercando di evitare la prima “come se” fosse causa della seconda. Responsabile dell’istaurarsi, in modo inconscio, dell’associazione distorta della relazione causale felicità-punizione/dolore è il frequente ripetersi di esperienze negative e/o traumatiche; associazione che continuerebbe ad essere oggetto di ri-attualizzazione nel presente dal momento che qualsivoglia emozione positiva, esperita dal soggetto, sarebbe responsabile della ri-attivazione e ri-attualizzazione del trauma originale. Tanto è vero che occorrerebbe precisare come la paura del cherofobico non sia tanto quella di essere felice ma piuttosto “in-felice, o di non essere felice”, ovvero la paura che al piacere seguiranno necessariamente conseguenze negative, come accaduto in passato. Ogni volta che il soggetto, pertanto, si trovi nella condizione di provare gioia, quello che accadrà sarà la riattivazione in memoria dell’associazione felicità-punizione/dolore, attivando l’ansia che di li a breve qualcosa di brutto possa accadere, innescando la messa in atto di condotte di evitamento. Si tratta di individui che hanno imparato a controllare le proprie emozioni e a vivere “difendendosi” dalla felicità, perché percepita come pericolosa, impossibile da raggiungere. La persona potrebbe aver sviluppato un locus of control esterno, tanto da aver appreso a pensare che un evento positivo che lo veda protagonista è solo un “colpo di fortuna” e che qualsiasi cosa faccia non si ripeterà, ritenendo erroneamente che le proprie azioni non abbiano alcun tipo di influenza sul corso degli eventi.  Ecco perché la cherofobia è assimilabile ad una sorta di meccanismo di difesa, di compensazione: l’attivarsi dell’ansia avverte il soggetto che, per evitare la sofferenza, deve evitare le situazioni divertenti/positive, per il timore che qualcosa di brutto possa accadere.

Da un punto di vista fenomenologico e /o sintomatologico ciò a cui si assiste è:

-l’attivazione dell’ansia al pensiero di prender parte a qualche evento piacevole/divertente, che pertanto viene conseguentemente rifiutato (concerti, cene, feste, serate etc..)

-il rifiuto di cogliere opportunità che possano apportare cambiamenti positivi nella propria vita per il timore che  possano far seguito conseguenze negative

– l’evitamento di tutti gli eventi sociali per ridurre la portata ansiosa da questi attivata

– il sentirsi in colpa per essere felici

– avere l’idea che essere felici possa causare l’accadere di qualcosa di negativo

-non voler essere felici e credere che provare felicità possa trasformare in persone peggiori

– pensare che perseguire la felicità sia una perdita di tempo, uno sforzo invano, un’attività priva di significato.

– avere la convinzione che mostrare felicità sia negativo di fronte agli amici, alla propria famiglia, o comunque alle persone care.

Si potrebbe ingenuamente confondere la cherofobia con la depressione; il cherofobico non è una persona triste o depressa, ma solo un individuo che ha creato per se stesso una fortezza inespugnabile. Diversamente dal depresso il cherofobico pratica un’attiva condotta di evitamento delle emozioni positive: ha paura di essere infelice perciò evita preventivamente ogni qualsivoglia stimolo che possa renderlo gioioso, temendo che l’artifizio deputato al “provare/portare felicità” possa smettere di funzionare. Non cerca dolore o sensazioni che possano generare tristezza, tenta solo di non provare felicità, cercando di restare in uno stato di costante apatia così da non essere soggetto a sbalzi di umore o repentine modifiche della proprio status quo, rendendo il proprio “ambiente” prevedibile. Questo l’atteggiamento e i pensieri alla base dei soggetti cherofobici, tali da indurli a rimanere passivi, a rifiutare situazioni quotidiane e/o occasioni di socializzazione e benessere, progetti o relazioni significative. Ad esempio la paura di essere felici in amore potrebbe condurre il soggetto a non investire nelle proprie relazioni, inducendolo ad elicitare dinamiche di contro-dipendenza affettiva, che lo portino a creare solo legami di natura superficiale, per la paura di star bene. Tipica l’espressione “Ho paura di essere felice perché ogni volta che lo sono tutto finisce”. Ciò che viene temuto, perciò, è che la felicità, una volta raggiunta, possa svanire lasciando soli, smarriti ed impreparati davanti al vuoto e alla sofferenza. Tipici tra i pensieri di un soggetto cherofobico il “ se adesso sono felice vuol dire che dopo mi accadrà qualcosa di brutto”, “ è troppo bello per essere vero, chissà quanto cara poi la pagherò questa felicità”, “manifestare la felicità è negativo sia per i tuoi amici, che per la tua famiglia”, “la felicità rende le persone peggiori”, “i disastri seguono spesso la fortuna”. La cherofobia sembrerebbe assimilabile al meccanismo definito da alcuni autori (Feldman, Joormann e Johnson 2008) come smorzamento, strumento psicologico che consisterebbe nella “tendenza a rispondere a stati d’animo positivi con strategie mentali per ridurre l’intensità e la durata dello stato d’animo positivo”. Si tratterebbe di una tendenza riscontrabile in molteplici condizioni: nel pessimista convinto che il lieto fine non esista, o nel cinico che teme la felicità per paura della rivalità o dell’invidia di altre persone, nelle personalità evitanti che fuggono dalle situazioni per timore di non sentirsi all’altezza o infine nel perfezionista patologico che vede nel piacere l’espressione di una perdita di tempo. La felicità, inoltre, viene spesso percepita dal cherofobico alla stregua di “un frutto proibito, qualcosa da non condividere, né mostrare agli altri e per cui sentirsi in colpa. Il cherofobico ritiene che l’essere felice possa renderlo un individuo peggiore e che pertanto perseguire la felicità possa essere una perdita di tempo, un’attività priva di significato; più in generale che la felicità di per se stessa sia un male per sé e per gli altri. Se da un lato tale atteggiamento può impedire al cherofobico di andare incontro ad eventuali delusioni, dall’altro però lo induce a precludersi qualunque opportunità di vivere una vita felice.

Da alcuni recenti studi, come quello pubblicato dal Journal of Cross-Cultural Psychology, è emerso come alcuni individui siano più inclini a sperimentare emozioni positive, laddove altri smorzerebbero il loro stato d’animo e gli affetti (eccitazione, felicità, gioia, piacere etc..), impegnandosi questi ultimi in attività che li renderebbero meno felici, tristi. Una delle possibili cause è il timore, per le persone, di perdere il controllo delle proprie emozioni positive o delle loro reazioni comportamentali alle stesse, configurandosi la cherofobia come un meccanismo difensivo di controllo di qualcosa (le emozioni positive) vissuto come terreno di vulnerabilità. Sempre nel medesimo studio è emerso come anche la cultura incida, influenzi il modo, l’atteggiamento con cui gli individui esperiscano le proprie emozioni positive, condizionando la regolazione emotiva e le esperienze emozionali. I risultati empirici hanno dimostrato come la felicità sia in taluni contesti culturali sfavorita o addirittura temuta, soprattutto nelle culture collettiviste in cui viene condannata l’espressione della felicità personale perché ritenuta responsabile di limitare la capacità dell’individuo nell’adempiere ai propri doveri nei confronti della collettività. La possibilità per il soggetto di provare piacere e di coltivarne l’espressione sembra quindi dipendere da una serie di meccanismi psicologici che affondano le proprie radici sia nel vissuto emotivo, sia nella storia di vita dell’individuo, ma anche nella sua cultura di riferimento, nell’educazione ricevuta.

E’ possibile concludere, riassumendo, come la cherofobia trovi espressione nella messa in atto, da parte del soggetto, di attive condotte di evitamento alla partecipazione di eventi che, percepiti come minacciosi per il proprio status quo, potrebbero causargli infelicità, procurandogli forti manifestazioni ansiose, in grado di porre forti limiti all’evoluzione della propria vita sociale, lavorativa, sentimentale. Come per ogni altra fobia, la psicoterapia può risultare molto efficace nel trattamento e, nella fattispecie, nel superamento della “paura di essere felice”. La paura di essere felici altro non è che la paura di essere e/o diventare noi stessi. Caldamente consigliata la possibilità di rivolgersi ad un professionista per l’inizio di una presa in carico di tipo psicologico; ciò  permetterebbe alla persona di riconoscere il disturbo, imparare ad accogliere tutto l’ampio spettro di emozioni, comprese quelle di natura positiva come la gioia e la felicità. Attraverso l’incoraggiamento ad elaborare i propri vissuti emotivi, la propria storia di vita, identificando gli eventi responsivi del problema in una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé, sarà possibile comprendere le ragioni che portino la persona ad evitare le emozioni piacevoli. Il prosieguo del lavoro terapeutico verterà poi sulla costruzione di un nuovo modus operandi circa la modalità di lettura e significazione della realtà. Ciò renderà possibile un nuovo modo di pensare e agire la felicità basata su nuovi significati e interpretazioni attribuibili alle medesime esperienze positive, permettendo al soggetto di fare esperienza nel sentire e vivere autenticamente, scevro dal nutrire sensi di colpa e/o pensieri disfunzionali, il desiderio e il piacere di essere felice.

La felicità viene proposta sempre più come un obiettivo da dover raggiungere a tutti i costi, e per essere persone felici occorre anche adempiere a determinati standard; le aspettative da raggiungere sono: il successo, la carriera, una bella famiglia, un buono stipendio, dei figli perfetti. Crescere e vivere in un mondo così condizionato da elevati standard sociali non è affatto facile, ma soprattutto non è reale. Le emozioni negative, come il fallimento, i momenti di vuoto/tristezza o di solitudine, sembrano non dover più far parte delle nostre vite; in questo modo quello che ci viene propinato è un concetto di felicità che si confonde con quello di apparenza. Essere felici significa creare una condizione serena e reale intorno a sé, non fittizia, proporzionata alle proprie risorse e competenze, che permetta al soggetto di esperire un sentimento di completezza che non escluda lo spettro delle emozioni negative, facente parte dell’esistenza di ciascuno. La psicoterapia, infatti, aiuta ad accompagnare il soggetto a vivere e gestire adeguatamente le emozioni nel momento in cui si presentano, sia quelle positive che quelle negative, insegnandogli che reprimerle e/o evitarle non rappresenti una strategia difensiva funzionale e/o sana, dal momento che spariranno ora per ripresentarsi poi in una modalità ancor diversa e con un’intensità ben maggiore.

Non meno importante, in questo processo, sono l’appoggio e il supporto offerti da amici, familiari, persone care nel fornire spunti e preziosi punti di vista, attraverso i quali sia possibile apprendere come esprimere e comunicare le proprie emozioni. Esperienze ed esempi che accompagnano il soggetto in una graduale e efficace gestione dell’oggetto delle proprie paure. Teniamo a mente come non sia possibile essere sempre felici o esserlo per tutto; possiamo però godere, senza paura, di ogni momento di felicità, imparando ad accogliere, abbracciare ogni emozione per quello che è, vivendo con leggerezza e pienezza la vita.

“Tutto quello che vuoi è dall’altra parte della paura” (Jack Canfiled).

 

Dott.ssa Silvia Longo

Psicologa – Psicoterapeuta

 

SITOGRAFIA:

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Ribaldone A., Paura di essere felice. Cos’è la cherofobia?, https://www.studio-psyche.it/disturbi/paura-di-essere-felice

Pacei C., La felicità può fare paura, scopri cos’è la cherofobia e come ritornare a goderti la vita, https://style.corriere.it/benessere/salute/cherofobia-significato-origini-sintomi-cura/

Ridolfi C., Cosa vuol dire cherofobia? Ecco cos’è la paura cantata da Martina Attili, https://www.sololibri.net/cherofobia-che-vuol-dire-cos-e-canzone-martina-attili.html

Cherofobia, https://www.psiconline.it/le-parole-della-psicologia/cherofobia-2.html

Spinelli C., La paura di essere felici: descrizione, sintomi, trattamento della cherofobia, https://www.psicologospinelli.it/articoli/cherofobia-descrizione-e-trattamento/

Stentella G., Cherofobia: cos’è, cause, sintomi e cura, https://www.salutarmente.it/malattie/cherofobia