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LA DIFFICOLTA’ DI PERDONARE I NOSTRI GENITORI

Il vocabolario della lingua italiana suggerisce che perdonare è non tenere in considerazione il male ricevuto da altri, rinunciando  a propositi di vendetta, alla punizione, a qualsiasi rivalsa, e annullando con sé ogni risentimento verso l’autore dell’offesa o del danno.

A tutti può capitare di subire un danno e faticare a perdonare qualcuno, anche se il perdono è molto importante per superare una situazione dolorosa, rendendoci liberi di vivere al meglio la nostra vita. Altrimenti si rimane nel rancore e legati ad una situazione che fa soffrire. Bisogna sottolineare che più grande è l’affronto, più grande è il dolore, più vicina è la persona, più difficile diventa perdonare. Farlo con un padre o una madre che ci hanno fatto del male può essere un compito arduo, che costringe ad affrontare le nostre ombre.                                                                                                                                      

Il rapporto con i genitori, l’educazione da essi ricevuta, segna per sempre la vita dei figli,  il modo in cui i bambini sono trattati da piccoli influenza le loro personalità, plasmando i sogni e le paure. Nella memoria di molti è impressa la serenità e il benessere dell’essere accompagnati per tutta la vita dai genitori. Da loro si è ricevuto amore, sostegno, sono stati vicini nei momenti significativi della vita. Questo però è solo un lato della medaglia, perché anche i genitori che sono stati buoni in generale, si sono trasformati a volte in una fonte di dolore, magari a causa della loro poca disponibilità, della loro distanza fisica ed emotiva. Molte persone, pur avendo vissuto esperienze molto dolorose con il padre e con la madre, faticano a riconoscerlo e alcuni fanno addirittura di tutto per nascondere i sentimenti ambivalenti.

Anche se di solito i ricordi di infanzia assumono colorazioni cariche di calore e affetto,  non è sempre un periodo cosi roseo. Alcune modalità di rapporto famigliare possono influire decisamente nel corso della vita:                                    

L’iperprotezione genitoriale, può impedire ai figli di fare esperienze, di prendere decisioni, li spinge verso un percorso che non avrebbero scelto liberamente, influenzandoli nelle insicurezze, nelle paure e forse facendoli diventare adulti fragili.                                                                              

Alcuni genitori possono essere emotivamente instabili e possono trattare i figli in modo ingiusto, riversando su loro insoddisfazione, frustrazione e rabbia, umiliandoli o maltrattandoli fisicamente e psicologicamente.          

Molte famiglie vivono situazioni dolorose che generano grande sofferenza, soprattutto nei bambini, che sono i più vulnerabili.                                                    

Perché perdonare un padre o una madre è così difficile?

La forte impronta emotiva che generano le tematiche famigliari.                                Può essere difficile elaborare tutte esperienze dolorose di anni, per questo motivo il ricordo genera frustrazione, rabbia, risentimento e in alcuni casi odio.
Le aspettative ed illusioni.                                                                                                      
A volte, ci si aspetta ancora che quel padre o quella madre cambino e  diano l’amore, il sostegno e la comprensione che ci sono mancati così tanto. Perdonarlisignificherebbe praticamente rinunciare a quell’illusione.
Il senso di giustizia.                                                                                                          
Alcune persone pensano che perdonando i loro genitori, permettono loro di farla franca senza comprendere gli errori e senza dover rimediare ad essi.

Per maturare ed evolvere bisogna potersi allontanare dall’offesa. Non si può essere in pace con sé stessi mentre si è in guerra con il padre o con la madre. Questa consapevolezza è il primo passo per avere delle buone ragioni per iniziare un processo di perdono, che è innanzitutto unelaborazione psicologica, che presuppone anche il cambiamento di meccanismi di difesa profondi.

Imparare a tollerare l’ambivalenza nei confronti dei genitori

E’ molto difficile tollerare in noi, insieme all’amore e alla gratitudine, il risentimento e la delusione che si può provare per loro. Per amarli e perdonarli davvero ci si deve confrontare con loro per quello che sono veramente stati, con i loro meriti e le loro mancanze, facendo affiorare la varietà dei sentimenti, positivi e negativi, che si provano. Quando non si riesce a riconoscere questa complessità si rischia di non riuscire ad avere un rapporto autentico con loro, e inoltre dinamica si può rivolgere anche alle altre persone, instaurando dei meccanismi di diniego e scissione con chiunque.                                                                        

Nel diniego vi è un’esclusione involontaria ed automatica dalla propria consapevolezza rispetto ad un certo aspetto disturbante della realtà. La scissione, invece, è un meccanismo di difesa che consiste nello “scindere”, separare gli aspetti contraddittori, ma conviventi, dell’oggetto o dell’Io.                                                                                                         Amare qualcuno non significa idealizzarlo ma saper mettere insieme i suoi vari aspetti buoni e cattivi. In alcuni casi fare questo passo può essere particolarmente complicato. Immaginiamo ad esempio la difficoltà di mettere insieme nella mente  un genitore che diventa violento quando è ubriaco, ma potrebbe essere adeguato quando è sobrio.

Dopo che si sono riconosciute le parti brutte dei nostri genitori (se prima si negavano alla consapevolezza) come si può proseguire nel perdonare? Dopo che si è imparato a tollerare l’ambivalenza nella nostra immagine interiore di loro? Quando si sono abbandonati i meccanismi della scissione e il diniego, questa realtà tragica, come si può utilizzare?          

Fermarsi a comprendere la storia dei genitori, la motivazione dei loro sbagli e delle loro difficoltà, vedendosi inseriti in un quadro di trasmissione famigliare complesso, che comprende nostro padre, nostra madre e le generazioni precedenti.

Il cammino faticoso della consapevolezza passa attraverso tutti gli elementi positivi e negativi che vengono trasmessi in famiglia. Da una generazione all’altra possono passare traumi, conflitti, gravi vissuti famigliari.                                                                                  Ragionare in questo modo non annulla la responsabilità dei singoli (ad esempio non vuol dire giustificare un genitore maltrattante) ma permette di comprendere meglio il contesto in cui una persona nasce e cresce. Pensare che le sofferenze che ci hanno inferto i nostri genitori forse derivano da qualcuno che sta più a monte di loro, in una storia in cui noi e la nostra famiglia siamo immersi e partecipi.  Questa visione non annulla la rabbia, ma aiuta a guardare in modo più lucido alla situazione e a ridimensionare.

Quali sono i vantaggi del perdonare?

Non vuol dire dimenticare ma imparare a pensare meglio, nell’ottica della libertà anche di non riconciliarsi con chi ha offeso, ma bensì accettare ciò che è stato, senza che questo rappresenti una debolezza.
Perdonare è liberarsi di pesi che potrebbero gravare sulla qualità della vita
Il rancore ci sottrae l’entusiasmo, l’energia e la positività.                                                      
Il perdono è un processo, e anche se in alcuni casi può essere troppo difficoltoso perdonare del tutto l’altra persona, si può scaricare buona parte del risentimento per essere più leggeri e liberi.

Concludiamo l’articolo con le parole evocative di questa canzone, che con un’immagine forte fa riflettere sul tema del perdono e della complessità dei rapporti umani:

“Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone,                                                                       bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone:                                                                 quando a mio padre gli si fermò il cuore non ho provato dolore….                                                              Ma adesso che viene la sera e il buio mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti: io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”

(De Andrè, Il Testamento di Tito, 1970)

 

Dott.ssa Laura Rivoiro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

BORGOGNO, F. (2007), The Vancouver Interview, Borla, Roma

CERATO, M. (2003), Emozioni e Sentimenti. Curare il cuore e la mente, Effatà Editrice, Cantalupa (TO)

CERATO, M. (2019), Ti perdono (Forse!), Effatà Editrice, Cantalupa (TO)

FERRO, A. (2007), Evitare le emozioni, vivere le emozioni, Raffaello Cortina, Milano

TUTU, D. (1999), Non c’è futuro senza perdono, trad.it. Feltrinelli, Milano 2001

LA PIGRIZIA ESISTE?

La pigrizia andò al mercato

ed un cavolo comprò.

Mezzogiorno era suonato

quando a casa ritornò.

Mise lacqua, accese il fuoco,

si sedette e riposò.

Mentre il sole a poco a poco

dietro i monti tramontò.

Così, persa ormai la lena,

sola al buio ella restò

ed a letto senza cena

la meschina se ne andò.

E. Berni

Nel mio lavoro di psicoterapeuta, mi capita spessissimo di imbattermi nel concetto di pigrizia. Molti miei pazienti hanno la convinzione di essere pigri e che per questo loro “difetto” non riescono a stare al passo con le richieste del lavoro, della casa, della società. Si sentono perdenti nel confronto con gli altri che invece sembrano più “performanti”.

Ho sempre trovato interessante il concetto di pigrizia e il fatto che, comunemente, venga associato ad una sorta di difetto di nascita.

Lo possiamo vedere anche nelle definizioni della Treccani:

pigrìzia s. f. [dal lat. pigritia, der. di piger «pigro»]. – Il fatto d’esser pigro; la qualità, e quindi anche l’atteggiamento, il comportamento di chi è naturalmente pigro nell’agire, nell’operare, o anche soltanto nel muoversi

pigro agg. [dal lat. piger -gra -grum]. – 1. a. Di persona che, per natura, rifugge dalla fatica, dallo sforzo, dall’impegno fisico o intellettuale, e dall’azione in genere, o che agisce e opera con lentezza e senza entusiasmo

Pigri lo si è per “natura”, dunque, ma al contempo si viene biasimati per questo, come se ci si dovesse sforzare di invertire questa stortura. 

Questa visione mi ha sempre convinta poco, perché mi dava l’impressione che cozzasse con l’evoluzione della specie. Dubito che in natura ci sia spazio per un’indole pigra: l’agire umano, di solito, è teso alla sopravvivenza e la pigrizia non è funzionale. Inoltre, fin da piccolo il cucciolo d’uomo è caratterizzato dalla curiosità: il suo modo di crescere e maturare è sostanzialmente legato al fare esperienza del mondo e delle sue leggi e, se osserviamo i neonati, possiamo vedere chiaramente questa tensione verso il comprendere, il collegare, l’esperire. Così come si coglie chiaramente la soddisfazione che traggono dal saper fare e dal mostrarlo agli altri.

Dopodiché l’uomo tende anche a riposarsi, è vero, ma anche questo è funzionale alla sopravvivenza. Col riposo, assolviamo ad una serie di compiti fondamentali al nostro organismo e alla nostra mente. Non ultimo, il fatto che mentre dormiamo riorganizziamo le informazioni e le esperienze appena raccolte e le immagazziniamo, aggiungendo conoscenza ai nostri modelli del mondo. Pertanto dormire, rientra in parte nel processo di apprendimento! 

Tuttavia, quando parliamo di persona pigra, di solito non intendiamo una persona che dorme molto, piuttosto una che, come dice la Treccani, rifugge dalla fatica e dallo sforzo. 

Da psicologa tendo a interrogarmi su ciò che guida o non guida l’agire umano e dunque questo aspetto del voler fuggire da un’esperienza di frustrazione mi ha attivata e ho cominciato a chiedermi quand’è che le persone, invece, affrontano la fatica e lo sforzo con buona lena. Di solito, avviene quando sono molto motivate. Quando la motivazione è sufficientemente alta, le persone manifestano una tenacia e una resistenza notevoli, anche di fronte ad ostacoli importanti. 

È possibile dunque che la pigrizia sia più semplicemente mancanza di motivazione? E che la mancanza di motivazione porti a tralasciare o rimandare un compito percepito come frustrante? E in tal caso non potremmo allora forse, più propriamente, chiamare la pigrizia procrastinazione?

Ho fatto un po’ di ricerche per verificare questa ipotesi e ho avuto, innanzitutto, conferma del fatto che l’essere umano ha una naturale tendenza ad agire, produrre e scoprire, perché questo è funzionale alla sua crescita e alla sua sopravvivenza. A ciò si aggiunge, anche, il naturale bisogno di gratificazione e di approvazione per i risultati raggiunti. Questa spinta fa parte della Piramide dei bisogni di base di Maslow e ci ricorda che la tendenza a produrre non riguarda solo noi come individui, ma anche la nostra rete sociale perché il progresso di uno è il progresso di tutti. Forse è proprio per questo che, storicamente, la pigrizia si accompagna al biasimo sociale. 

Se ci pensiamo, il cattolicesimo l’ha inserita col termine accidia nei 7 peccati capitali, in quanto le persone accidiose rifiutano la vita, si lasciano andare alla noia, all’inerzia, al non far nulla, non mettono a frutto i propri doni. E questo era considerato un torto verso Dio e verso gli altri.

L’operosità, invece, è sempre stata ritenuta una virtù da lodare. La fatica, il lavoro, avvicinavano l’uomo a Dio e lo facevano entrare nelle sue grazie. Ci portiamo uno strascico di questa visione quando nelle società occidentali giudichiamo negativamente la moralità delle persone povere, bollandole appunto come pigre, indolenti, con poca voglia di lavorare e di elevarsi dalla loro condizione. In questo c’è molto del capitalismo, ovviamente, ma il capitalismo ha a sua volta in sé molto della morale calvinista che porta il ragionamento all’estremo: chi lavora e ha successo è stato baciato dalla benevolenza di Dio; chi è povero è fuori dalla grazia divina per i suoi peccati ed è dunque macchiato da un difetto morale, causa della sua condizione. 

Tralasciando gli aspetti religiosi, è innegabile che esser bollati come pigri risulti ancora oggi una condanna. I bambini che faticano nel fare i compiti e vengono tacciati di pigrizia, finiscono per perdere ancora più la motivazione. Se le difficoltà che sperimentano sono già frustranti, veder misconosciuto il problema o l’impegno aggrava la perdita di motivazione e così la nomea di indolente diventa una profezia che si autoavvera.

La stessa cosa succede quando siamo noi stessi a chiamarci pigri, magari perché condizionati dalla facilità con cui affibbiamo questo aggettivo anche agli altri. “Se non riesco, se faccio fatica, se non sento la spinta è perché ho un difetto di nascita: sono pigro. E dovrei sforzarmi di lottare contro questa mia natura, ma poiché sono pigro rifuggo dalla fatica e allora non posso cambiare”. Questa è una visione paralizzante per chiunque, toglie spazio a qualsiasi tensione verso un miglioramento; è una condanna alla quale non si può sfuggire. 

Quanto cambia se invece escludiamo la pigrizia dal quadro e ipotizziamo che se non riusciamo, facciamo fatica, non sentiamo la spinta forse è perché manca qualcosa? Se c’è una mancanza, c’è un bisogno. Questa è una visione che apre a delle domande: “cosa mi manca? di cosa ho bisogno? come posso colmare questo bisogno? posso colmarlo da solo o mi serve che il contesto mi venga in aiuto?” 

Ecco che si fa spazio la ricerca di risposte, che porta in sé azione, problem solving, curiosità e un ventaglio di possibilità. 

Ovviamente, talvolta la risposta è molto intuitiva e ciò che manca non è altro che l’energia per fare e progettare. In tal caso, se non si è in presenza di una condizione fisica o mentale, il bisogno da soddisfare è semplicemente quello del riposo. 

Tralasciando questo scenario, alla domanda “Cosa manca?” la psicologia ha più spesso dato la mia stessa risposta: motivazione.

Dunque, gli esseri umani da cosa traggono motivazione? Di solito, dall’avere un obiettivo, un progetto da raggiungere che vada nella direzione di soddisfare un loro bisogno. 

Sembra facile, ma non lo è! 

Capire quali sono i nostri obiettivi non è scontato e capita spesso che le persone ne scelgano alcuni che sono in realtà distanti dal loro essere o magari indotti o guidati da aspettative esterne. Soffermarsi a chiederci quale bisogno ci guida, quale bisogno stiamo cercando di soddisfare e perché, può essere una buona bussola per sfrondare gli obiettivi ingannevoli. 

Nel mondo moderno, gli obiettivi più motivanti sono solitamente legati ai bisogni di autonomia (essere indipendenti, poter dirigere la nostra vita), di padronanza (crescere e migliorarsi) e di scopo (la pulsione a servire qualcosa di più grande di noi). 

Una volta compreso quale potrebbe essere un obiettivo valido, esso va scomposto in piccoli passi. Non c’è nulla che ci faccia perdere la motivazione come trovarci di fronte ad una montagna che sembra insormontabile. Gli obiettivi devono infatti essere raggiungibili per motivarci, rientrare in quella che Vigotskij chiamava “zona di sviluppo prossimale”. Un obiettivo ci spinge all’azione se si trova appena al di fuori delle nostre competenze, della nostra zona di comfort, perché mette in moto il desiderio di migliorarci quel tanto che basta per agguantarlo. Al contrario, un fine che si trovi troppo al di là della nostra capacità di sviluppo, finirà per somministrarci dosi massicce di frustrazione quotidiana che minano il nostro senso di autoefficacia e bloccano l’iniziativa. 

Per esemplificare, possiamo dire che è utile non concentrarsi sull’intera scala, non guardare alla sua sommità, ma interessarsi solo al singolo gradino. Una vota che il progetto è tracciato, il compito va, come dicevo, scomposto nelle sue singole parti che lo rendono maneggevole, avvicinabile. Ogni parte, ogni gradino sfida ovviamente una nostra capacità, ma quel tanto che basta per permetterci di raggiungere il gradino successivo e sfruttare la spinta della gratificazione ottenuta dal piccolo successo raggiunto. Alla fine della scala avremo pian piano sviluppato tutte le competenze necessarie, che a guardar troppo in lungo ci sembravano soverchianti. 

Detto questo, per gli esseri umani non è sufficiente che l’obiettivo corrisponda ad un mero calcolo di costi-benefici/sforzi-risultati. Le ricerche hanno ben presto messo in luce che, in quanto esseri irrazionali, la gratificazione derivante dal solo raggiungimento dell’obiettivo spesso non è abbastanza per tenerci motivati, specie sul lungo periodo. Ci serve anche sentirci coinvolti nell’esperienza creativa, entrare in uno stato di flusso, perfettamente presi e immersi nell’attività che stiamo facendo, alimentati dal puro piacere di farla. Quando si raggiunge questo stato di motivazione intrinseca, lo scopo viene raggiunto senza quasi percepirne lo sforzo. Ovviamente, non tutti gli obiettivi che ci diamo possono condurci allo stato di flusso, ma sarebbe bene tenere presente che un buon obiettivo dovrebbe stimolare anche un lato di gioco e di divertimento. 

Se usiamo queste lenti per accostarci alla questione, possiamo vedere che una persona che procrastina non è una persona pigra: è una persona con dei bisogni inevasi che deve capire come colmare e spesso è anche alle prese con emozioni negative. 

Di solito, infatti, se si chiede alle persone “pigre” come si sentono all’idea di fare quel che stanno rimandando si otterranno risposte tipo:

  • Ho l’ansia 
  • Ho paura di sbagliare o di fallire 
  • Temo che gli altri possano giudicare il mio operato 
  • Non penso di farcela o di averne le capacità
  • Non so da che parte cominciare 
  • Temo che gli altri scoprano che non sono bravo come pensano 
  • Temo di scoprire che io non sono capace come penso 

Non è difficile notare che, allora, una persona che procrastina è spesso una persona che si sta autosabotando. Evitare un compito che ci spaventa o ci mette ansia è un modo di proteggerci, di evitare di mettersi in gioco pensando così di preservare la nostra autostima da una eventuale caduta. 

In realtà però, ogni volta che ci tiriamo indietro la nostra autostima si abbassa, perché essa non è alimentata solo dal successo, ma più spesso dal sapere di aver tentato. Il tentativo, inoltre, anche se imperfetto, ci regala il feedback necessario a correggere il tiro e a riprovare, alimentando la spinta a migliorare. 

È da tener presente, infine, che l’autosabotaggio può essere anche controintuitivo. Alle volte, cioè, evitiamo di metterci alla prova non perché temiamo di fallire, ma perché temiamo di scoprire che siamo capaci. A quel punto, dovremmo poi prenderci la responsabilità di mettere a frutto i nostri doni e passare all’azione, rinunciando al doloroso ma al contempo consolatorio pensiero del “SE avessi/facessi/potessi….la mia vita cambierebbe”. 

Ovviamente l’autosabotaggio non è consapevole: le persone non scelgono coscientemente di mettersi i bastoni tra le ruote! A volte, chiedersi se l’azione che si sta evitando possa essere migliorativa per la propria vita, può già essere sufficiente per approfondire cosa ci manca per metterci in moto. Altre volte, è il contesto a doversi interrogare su ciò che manca di fornire a chi non agisce. Altre volte ancora, può darsi che si abbia bisogno di un aiuto esterno per comprendere meglio quali meccanismi ci bloccano e provare a smuoverli. 

In ogni caso, la prossima volta che pensate di esser pigri provate a guardarvi con maggior benevolenza e a chiedervi, invece, di che cosa avreste bisogno per sentirvi stimolati ad agire!

 

 

Dott.ssa Valeria Lussiana 

Psicologa Psicoterapeuta

 

SELETTIVITA’ ALIMENTARE O ARFID?

A molti genitori sarà capitato, in qualche momento della crescita di loro figlio, di trovarsi di fronte al rifiuto di alcuni cibi e/o alla selettività nelle scelte e consistenze alimentari. Questo è spesso fonte di grande preoccupazione, soprattutto quando è associato a una crescita ponderale sotto i limiti della norma e a evitamenti generalizzati legati alla dinamica alimentare e conviviale. Ma quando questo può essere un campanello d’allarme e portare ad ipotizzare una diagnosi di ARFID?

Cos’è l’ARFID?

L’ARFID (sigla che sta per disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo) è un disturbo della nutrizione e dell’alimentazione inserito nel 2013 nel manuale diagnostico dei disturbi mentali DSM 5, caratterizzato da una persistente incapacità di soddisfare adeguati bisogni nutrizionali e/o energetici che portano a conseguenze clinicamente significative come:

– significativa perdita di peso o incapacità di raggiungere l’aumento di peso atteso (crescita ponderale normale dello sviluppo);

– carenza nutrizionale significativa;

– dipendenza dall’alimentazione enterale o supplementi nutrizionali orali per mantenere il peso o lo stato nutrizionale;

– marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Una caratteristica importante è che la restrizione alimentare non è correlata alla preoccupazione per il peso o la forma del corpo e ciò contraddistingue l’ARFID dall’Anoressia Nervosa.

Si tratta di una diagnosi che comprende al proprio interno una grande variabilità di manifestazioni cliniche ma ciò che è certo è che, soffrire di ARFID, non significa essere schizzinosi o capricciosi.

Ad oggi, sono stati identificati tre profili che spiegano il motivo della carenza energetica e/o nutrizionale:

1- Apparente mancanza di interesse per il mangiare o per il cibo. Spesso sono presenti difficoltà emotive come preoccupazioni, ansia o tristezza che interferiscono con l’alimentazione e producono un disinteresse nei confronti del cibo.
2- Evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo. Alcune persone, ad esempio, mangiano solo cibi con certe consistenze, colori, temperature o sono molto sensibili alle variazioni dei gusti. Evitano alcuni cibi perché, in anticipo, pensano di non tollerare certe caratteristiche di quell’alimento.
3- Preoccupazione relativa alle conseguenze negative del mangiare. La riduzione dell’apporto di cibo è dovuta ad alcune paure come: soffocare, vomitare, non riuscire a deglutire, causare diarrea, causare reazioni allergiche o causare dolori addominali o al petto.

I tre profili possono variare in termini di gravità, ma non si escludono a vicenda.

Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID) può avere esordio nell’infanzia o nella prima adolescenza, ma in alcuni casi, anche in età adulta.

Che fare se ci si trova in presenza di ARFID?

Nonostante l’ARFID sia una diagnosi recentemente aggiunta, esistono già trattamenti efficaci. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, unita al lavoro multidisciplinare che vede coinvolto medico e nutrizionista, è risultata in grado di aiutare i pazienti ad affrontare il problema, ottenendo effetti a lungo termine.

La terapia si focalizza, ad esempio, sul reinserimento dei cibi “nuovi” o “eliminati” o “fobici”, allo scopo di aumentare la varietà alimentare, parallelamente al raggiungimento di un peso stabile e a un adeguato apporto di nutrienti, in caso fosse insufficiente. Si procede, poi, a destrutturare la visione di “cibo nemico” insegnando a costruire pasti equilibrati e a reinserire gli alimenti con gradualità attraverso una desensibilizzazione e una esposizione graduale, facendo una lista degli alimenti esclusi e partendo da quelli che fanno meno paura o che creano meno problemi.

Le reintroduzioni sono inizialmente minime, in cui piccoli assaggi, adeguatamente masticati, permettono non solo di riprendere familiarità con gusti e consistenze, ormai abbandonate, ma anche di minimizzare eventuali reazioni avverse che si potrebbero presentare dopo una lunga eliminazione.

Un altro aspetto importante su cui si lavora è quello di effettuare i reinserimenti alimentari in ambienti e condizioni percepite come “sicure”, in modo da ridurre l’ansia associata al momento del pasto.

In conclusione, non tutti i comportamenti dell’infanzia legati al cibo devono destare preoccupazione, perché fanno parte del repertorio di esplorazione e crescita, ma è importante confrontarsi costantemente con il pediatra, intercettando il bambino già dalle prime manifestazioni di selettività/restrizione alimentare, soprattutto se appaiono curiose o inspiegabili: potrebbe trattarsi di ARFID e il disturbo, se trascurato, potrebbe strutturarsi nel tempo ed evolvere verso un quadro psicopatologico più severo.

Dott.ssa Giacone Giulia

Psicologa – Psicoterapeuta

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Bryant-Waugh, R. & Higgins, C. (2020). Avoidant restrictivefood intake in childhood and adolescence. A clinical guide. London and New York: Routledge.
Calugi, S. (2018). La terapia cognitivo comportamentale adattata per l’ARFID. Congresso Nazionale AIDAP 2018. Garda (VR), 9-10 novembre 2018.
Thomas, J.J., Lawson, E.A., Micali, N., Misra, M., Deckersbach, T., & Eddy, K.T. (2017). Avoidant/RestrictiveFood Intake Disorder: A Three-Dimensional Model of Neurobiology with Implications for Etiology and Treatment. Curr Psychiatry Rep., 19(8), 54.
Thomas, J.J. & Eddy K.T. (2018). Cognitive-behavioraltreatment of avoidant/restrictive food intake disorder. CurrentOpinion in Psychiatry, 31, 425-430

AMI PIU’ ME O IL TUO SMATPHONE? Il fenomeno del phubbing: l’influenza degli smartphone sulle relazioni.

E’ sufficiente andare a prendere un caffè, restare seduti al tavolino di un bar e guardarsi attorno per qualche minuto per osservare come molti dei nostri vicini di tavolo non stanno parlando con i loro commensali ma hanno gli occhi rivolti al proprio telefono: qualcuno fa una foto alla schiumetta del cappuccino, qualcuno legge le mail, qualcuno risponde ad una chat, una persona si sta facendo un selfie, un bambino guarda un cartone animato o gioca in modo avvincente.

E’ sempre più raro vedere persone che si parlano senza un telefono in mano o sul tavolo e frequentemente parliamo con persone che mentre conversano con noi (o così pare) utilizzano contemporaneamente il proprio smartphone. Il cellulare è ormai come un capo d’abbigliamento indispensabile, un oggetto costantemente presente nelle nostre vite e molti di noi hanno l’abitudine di tenerlo fra le mani e di interagirci continuamente: questo avviene non solo quando ad esempio siamo in coda alle poste o sui mezzi pubblici e, soli e annoiati, controlliamo i social o navighiamo sul web, ma anche quando siamo immersi in relazioni sociali, in famiglia, con i colleghi, tra amici e in coppia.

Abitudini come ad esempio quella di fotografare piatti che si stanno per mangiare sono un pretesto per postare su Instagram l’immagine della prima pizza napoletana assaggiata nella propria vita, del primo poke, del migliore vino assaggiato, e, dopo la condivisione, venire risucchiati dal vortice di notifiche, commenti conseguenti, che distraggono da quanto sta succedendo intorno a sé, al tavolo, tra i propri commensali. Il risultato è che la qualità del momento conviviale che si sta vivendo ne risulta danneggiata e, più in generale, si percepisce spesso anche un senso di minore soddisfazione per quanto riguarda il pasto consumato.

Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi ad interagire con qualcuno che invece di prestare attenzione alla conversazione che sta avendo con noi è sprofondato con occhi e mente dentro lo schermo del suo telefono: facilmente possiamo reperire la sensazione di fastidio o frustrazione del non essere ascoltati o di non ricevere la sufficiente attenzione desiderata dall’altra persona. Ci stiamo abituando a tollerare questi tipi di atteggiamenti nelle nostre situazioni sociali e spesso ci capita di ritrovarli anche nelle nostre relazioni personali più intime: che effetto fa alla famiglia vivere immersa in relazioni mediate dal telefono?

Chi ha un figlio preadolescente o adolescente conosce bene la sensazione di essere trasparente o parlare da solo mentre l’interlocutore è al telefono, spesso con auricolari inclusi nelle orecchie. Ma se a comportarsi così è il nostro partner, che cosa succede alla coppia?

Non ci sono tantissime ricerche su questo fenomeno, piuttosto recente, che prende il nome di Phubbing.

L’uso di un telefono cellulare durante una conversazione è chiamato phubbing (Ugur & Koc, 2015). Il termine phubbing (una crasi tra ‘phone’ e ‘snubbing’) si riferisce all’atto di concentrarsi sul proprio cellulare durante una conversazione invece di prestare attenzione all’interlocutore. Se questo atto si verifica all’interno delle relazioni, prende la definizione di partner-phubbing (Roberts & David, 2016). Nel partner-phubbing si può distinguere un phubber, ovvero la persona che, durante un’interazione sociale co-presente, concentra tutta o parte della sua attenzione sul suo cellulare, e un phubbee cioè la persona che non viene considerata (o “snobbata”) dal partner che usa il telefono.

La letteratura ci dimostra che il partner-phubbing è negativamente correlato alla soddisfazione delle relazioni (David & Roberts, 2021), proprio perché l’uso di un telefono durante le interazioni co-presenti crea una situazione in cui si è fisicamente presenti, ma non lo si è mentalmente. Questo fenomeno infatti provoca delle sensazioni di “assenza-presenza” o di stare “soli insieme”.

Ma cosa si intende per soddisfazione relazionale? La soddisfazione relazionale è il grado in cui il partner soddisfa i desideri e i bisogni dell’altro: in questo la qualità della comunicazione tra i partner svolge un ruolo di primo piano e sembra essere più importante del tempo che i partner trascorrono insieme (Guldner & Swensen, 1995).

Anche se negli ultimi anni sono state condotte diverse ricerche sul phubbing (Vanden Abeele, 2020), il numero di studi che si sono concentrati sul phubbing nelle relazioni intime, analizzando i meccanismi sottostanti alla correlazione tra utilizzo del telefono e scarsa soddisfazione, è limitato.

Tuttavia Beukeboom & Pollmann (2021) hanno tentato di comprendere più approfonditamente gli effetti negativi del phubbing sulle relazioni sentimentali, in particolare in relazione all’insoddisfazione relazionale e un altro studio, condotto da un’équipe di psicologi dell’Università del Kent, e pubblicato sulla rivista Journal of Applied Social Psychology, ne hanno confermato le prevedibili implicazioni negative: il phubbing andrebbe a peggiorare in maniera significativa la comunicazione e la relazione tra persone

I partecipanti allo studio, 153 studenti universitari, hanno assistito a una scena di 3 minuti che coinvolgeva l’interazione tra due persone, con la richiesta di identificarsi con uno dei due protagonisti. Ogni partecipante veniva assegnato a una fra 3 condizioni sperimentali: nessun phubbing, phubbing leggero o phubbing massiccio. I risultati? Più il livello di phubbingaumentava, più i soggetti percepivano che la qualità della relazione era peggiore e la relazione insoddisfacente. 

Gli autori dello studio hanno caratterizzato il phubbing come una vera e propria “forma di esclusione sociale”, capace, quando lo si subisce, di “minacciare alcuni bisogni umani fondamentali, come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo”.

Ma perché ci sentiamo così insoddisfatti se il nostro partner utilizza in modo continuativo il telefono?

Un vissuto tipico è quello di sentirsi non visti: non sentirsi prioritari ed importanti per la persona che dovrebbe essere quella che ci sceglie proprio perché si è innamorata di come siamo. Il sentimento di svalutazione personale risulta frequente e innesca crisi, soprattutto in partner con qualche fragilità sulla propria autostima.

In altre persone il vissuto maggiormente riportato è la rabbia, il fastidio e il sentirsi mancati di rispetto e di non essere percepiti come attraenti ed interessanti. Questi vissuti portano le coppie a discussioni molto accese spesso o viceversa a passivi silenzi rabbiosi che influiscono negativamente sulla complicità della coppia e sull’intimità. Le battaglie, spesso anche silenziose creano tra i partner una distanza emotiva che porta a ricadute importanti anche su un piano fisico. La qualità delle conversazioni e l’empatia percepita sono un fattore importante per la qualità della relazione (Gonzales & Wu, 2016; Misra et al., 2016).

Ci si potrebbe domandare perché soffermarsi ad analizzare così dettagliatamente un fenomeno di questo tipo: venire a conoscenza di quanto disagio possa suscitare un atteggiamento apparentemente banale nella persona che amiamo, potrebbe portarci a prestare maggiore attenzione alla nostra quotidianità, affinchè ognuno di noi possa diventare maggiormente consapevole e possa tentare il più possibile di “stare” nelle relazioni che sta vivendo, mettendo in atto, di fatto, un atto di prevenzione. E’ piuttosto evidente e condiviso che ci siano situazioni o chiamate dalle quali diventa difficile esimersi, ma tenere a mente la percezione del nostro partner e ciò che sta provando può esserci utile a mettere in atto un comportamento conciso e circostanziato relativamente ad una chiamata o a un messaggio, dedicando a tali interruzioni il più breve tempo possibile. 

Bisogna tuttavia evidenziare che dallo studio emerge come la misura in cui un partner usa il proprio telefono durante le interazioni co-presenti, correlata negativamente alla soddisfazione della relazione, sia un dato rilevato di natura correlazionale, pertanto a livello di nesso di causalità il partner-phubbing potrebbe causare una riduzione della soddisfazione relazionale, ma è altrettanto possibile l’effetto opposto, cioè che una scarsa qualità della relazione potrebbe indurre le persone ad un utilizzo maggiore del telefono. Pertanto il  phubbing potrebbe giocare un ruolo avverso generando un circolo vizioso sulla qualità della comunicazione e sulla soddisfazione della relazione.

Ma come si può contrastare questo fenomeno? Come possiamo mettere queste considerazioni emerse dalle ricerche a servizio di un miglioramento della nostra relazione?

Si è rilevato che l’utilizzo congiunto del telefono, che implica l’essere coinvolto nelle attività dell’altra persona, venire informato su ciò che sta facendo potrebbe limitare gli effetti dannosi sulla relazione e sulla comunicazione, riducendo il senso di esclusione percepito, mantenendo più reattività e intimità nella conversazione  e attenuando il senso di insoddisfazione relazionale.

Ma davvero il contenimento del comportamento o la condivisione dell’utilizzo dello strumento possono rappresentare le uniche soluzioni per arginare questo fenomeno?

Il fenomeno del phubbing potrebbe meritare un’ulteriore riflessione da parte di entrambi i membri della coppia:

forse l’insoddisfazione relazionale generata da questo fenomeno potrebbe generare in entrambi i partner lo stimolo a porsi delle domande: come mi sentirei io al posto del mio compagno? Che cosa proverei? Che cosa penserei? Che idea mi farei dell’interesse che il mio compagno prova per me al posto suo?

E viceversa è importante forse provare a chiedersi anche perché il nostro compagno sta sempre al telefono? A quale suo bisogno risponde questo strumento, come lo fa sentire, come si sentirebbe senza utilizzarlo.

Per molte persone è difficile resistere alla tentazione dei social media e di altre app che soddisfano il bisogno di attenzione ottenuto attraverso il proprio smartphone. La paura che i rapporti si allentino (Rozgonjuk et al.,  2020), l’aspettativa di una disponibilità costante da parte degli amici (Miller-Ott & Kelly, 2017), o anche la semplice presenza di un telefono (Misra et al., 2016) possono distogliere l’attenzione da un’interazione che sta avendo luogo con il proprio partner, o comunque con gli attori reali della propria vita, senza che la persona se ne renda neanche conto. Spesso mettiamo in atto comportamenti, soprattutto se socialmente considerati accettabili, senza chiederci la motivazione o la causa di quanto messo in atto. Facciamo raramente lo sforzo empatico di provare a metterci nei panni dell’altro, nelle sue sensazioni ed emozioni, spesso poiché siamo troppo presi da esigenze individualiste socialmente sostenute.

Ma il problema è davvero la sola presenza costante del telefono? Che cosa succederebbe se ci fosse un blackout generale della rete per una settimana? Le persone tornerebbero a parlarsi, a scriversi, a condividere realmente esperienze o si troverebbero perse, motivate soltanto al cercare una soluzione per ripristinare la rete?

Ci dobbiamo inevitabilmente chiedere quanta vita reale ci perdiamo con gli occhi sullo schermo.

La tecnologia non è da demonizzare, per molte relazioni è infatti stata l’incontro, l’inizio, la risorsa per mantenere vivi i rapporti quando si deve vivere distanti, ma siamo ancora capaci di utilizzare lo smartphone come uno strumento per migliorare le nostre vite e non come una zavorra in cui veicolare le nostre frustrazioni e distrazioni?

Forse analizzare il fenomento del phubbing ci fornisce l’occasione per fare alcune riflessioni: ma si può tornare indietro? Alcune persone hanno iniziato a mettere in pratica una sorta di graduale distacco dall’onnipresenza del telefono con una metafora indicata come “JOMO” (joy of missingout), ossia riscoprendo il piacere di rischiare di perdersi qualcosa che stia avvenendo online pur di godere al meglio della compagnia reale e fisica delle persone che si hanno vicino o delle situazioni sociali offline in cui si è coinvolti. Rinunciare al mito del multitasking e utilizzare in maniera più consapevole e cosciente tecnologie e servizi digitali sono, nella pratica, due importanti punti di partenza per riuscirci.

Ma come fare?

Potrebbe essere utile, ad esempio, iniziare con il concedersi del tempo per l’autoriflessione: per la propria salute mentale è fondamentale passare regolarmente del tempo da soli, preferibilmente senza smartphone, Internet e TV. Concedersi il tempo di porsi delle domande e riflettere sui problemi e le paure, dare spazio ai propri desideri e sogni.

Il tempo della riflessione aiuta anche a fare chiarezza sulle priorità cercando di diventare consapevoli di cosa è veramente importante per noi. A volte bisogna sfoltire l’agenda e anche eliminare ciò che facciamo per abitudine e non per reale interesse, questo ci aiuta a dedicare tempo alle persone e alle esperienze che realmente ci interessano, imparando a declinare inviti inutili o richieste differibili nel tempo, seppur poste con urgenza. Imparare a vivere concentrandosi sul qui e ora, con un atteggiamento “mindful.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologa – Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

Beukeboom, C. J., & Pollmann, M. (2021). Partner phubbing: why using your phone duringinteractions with yourpartner can be detrimental for your relationship. Computers in HumanBehavior, 124, 106932.
Chotpitayasunondh, V., & Douglas, K. M. (2016). Howphubbingbecomes the norm: The antecedents and consequences of snubbing via smartphone. Computers in Human Behavior, 63, 9-18.
David, M. E., & Roberts, J. A. (2021). Investigating the impact of partner phubbing on romanticjealousy and relationship satisfaction: The moderating role of attachment anxiety. Journal of Social and Personal Relationships, 38(12), 3590-3609.
Du, J., Kerkhof, P., & van Koningsbruggen, G. M. (2019). Predictors of social media self-control failure: Immediate gratifications, habitual checking, ubiquity, and notifications. Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 22(7), 477-485.
Dwyer, R. J., Kushlev, K., & Dunn, E. W. (2018). Smartphone use undermines enjoyment of face-to-face social interactions. Journal of Experimental Social Psychology, 78, 233-239.
Gergen, K. J. (2002). The challenge of absent presence.
Gonzales, A. L., & Wu, Y. (2016). Public cellphone use does not activate negative responses in others… Unless theyhate cellphones. Journal of Computer-Mediated Communication, 21(5), 384-398.
Guldner, G. T., & Swensen, C. H. (1995). Time spent together and relationship quality: Long-distance relationships as a test case. Journal of social and Personal Relationships, 12(2), 313-320.
McDaniel, B. T., Galovan, A. M., & Drouin, M. (2021). Daily technoference, technology use duringcouple leisure time, and relationship quality. Media Psychology, 24(5), 637-665.
Miller-Ott, A. E., & Kelly, L. (2017). A politeness theory analysis of cell-phone usage in the presence of friends. Communication Studies, 68(2), 190-207.
Misra, S., Cheng, L., Genevie, J., & Yuan, M. (2016). The iPhone effect: The quality of in-personsocial interactions in the presence of mobile devices. Environment and Behavior, 48(2), 275-298.
Pollmann, M. M., Norman, T. J., & Crockett, E. E. (2021). A daily-diary study on the effects of face-to-facecommunication, texting, and their interplay on understanding and relationshipsatisfaction. Computers in Human BehaviorReports, 3, 100088.
Roberts, J. A., & David, M. E. (2016). My life has become a major distraction from my cell phone: Partner phubbingand relationship satisfaction among romantic partners. Computers in humanbehavior, 54, 134-141.
Turkle, S. (2011). Alone together: Why we expect more from technology and less from ourselves. New York: BasicBooks.
Ugur, N. G., & Koc, T. (2015). Time for digital detox: Misuse of mobile technology and phubbing. Procedia-Social and Behavioral Sciences, 195, 1022-1031.

 

Asma: una visione psicosomatica

La respirazione è una funzione essenziale per la vita. Pochi minuti senza ossigeno e il nostro corpo muore.

Da una ricerca su Google ho scoperto che attualmente il record mondiale di apnea statica è del croato Budimir Šobat, che con 24 minuti e 33 secondi è entrato nel Guinness World Records. Il mio pensiero si sposta dunque a noi non atleti allenati alle apnee, per cui questo tempo si riduce drasticamente!

Possiamo considerare che l’ossigeno sia la prima fonte di nutrimento essenziale per il nostro organismo, disponibile in larga abbondanza nel mondo in cui viviamo e a cui possiamo accedere con la facilità e l’immediatezza di un’inspirazione. Il nostro corpo a riposo e in condizioni di tranquillità emotiva, si stima compia circa 12 atti respiratori al minuto, perciò idealmente 17.280 in un giorno. Tutto questo accade senza nemmeno accorgerci: il nostro corpo respira autonomamente senza richiedere attenzione alcuna da parte nostra. Molto diverso è per chi soffre di disturbi a carico dell’apparato respiratorio.

Uno tra questi è l’asma, un’infiammazione in molti casi cronica delle vie polmonari. Si manifesta con   broncospasmi e ipersecrezione mucosa, che portano ad una respirazione faticosa, con conseguente tosse, respiro sibilante e senso di soffocamento. L’innesco delle crisi, nelle persone predisposte geneticamente, proviene da stimoli allergici o irritanti o forti stress psico-fisici. Nelle condizioni più gravi può portare anche alla morte.

Secondo l’OMS la diffusione di questo disturbo, nella popolazione di tutto il mondo, è in continuo aumento, e le ragioni si ipotizza possano essere ricercate nello stile di vita sempre più urbanizzato, che spinge a passare molto tempo in luoghi chiusi a contatto con aria spesso stagnante o condizionata, acari, smog e polveri sottili.

Durante la crisi asmatica, la persona sperimenta un’angosciante “fame d’aria”, con tentativi disperati di trattenerla dentro di sé, aggrappandosi alla sostanza esterna vitale, l’ossigeno, che in quel momento sembra non essere accessibile in misura sufficiente per la propria sopravvivenza. Il soffermarsi da parte della persona sulla polarità vitale della respirazione, l’inspirazione, sposta l’attenzione sul bisogno pressante di rimandare a tutti i costi il momento mortifero, abbandonico del lasciare andare l’aria-vita-nutrimento. Questo introduce al tema profondo che caratterizza il disturbo: un conflitto che si gioca sul continuum dipendenza-indipendenza in relazione al mondo nutritivo materno.

Edoardo Weiss, psicanalista, nel 1913 descrisse l’attacco asmatico come espressione di un pianto represso o inibito, che veicola  l’angoscia esistenziale di restare tagliati fuori dalla possibilità di accedere alle fonti di nutrimento e protezione. Da numerosi casi clinici è possibile osservare che chi presenta il disturbo, trovi difficile piangere, quasi come se i mezzi classici per ottenere attenzione, cura e risorse vitali, non fossero percorribili. Si può constatare che molte crisi asmatiche trovano fine con il pianto o il riso. Nell’osservazione della relazione tra madre e figlio asmatico, si rilevano spesso momenti o condizioni di indisponibilità della figura di accudimento per distanza e/o inaccessibilità fisica ed emotiva. Ciò genera nel bambino un “complesso di abbandono”.

Il tema esistenziale di chi soffre di asma è decisamente legato alla dualità vita-morte, che si gioca nella relazione con sé stessi e con l’altro fuori da sé.

I percorsi psicoterapeutici possono essere di grande aiuto in questi casi, per prendere maggiore consapevolezza di sé, familiarizzare con le proprie risorse interiori utili allo sviluppo di una maggiore indipendenza emotiva e per esplorare e fare proprie nuove modalità relazionali.

Bibliografia:

Agresta F., Il linguaggio del corpo in psicoterapia. Glossario di Psicosomatica, Roma, Alpes Italia, 2010

Caprioglio V., Fornari P., Marafante D., Morelli F., Parietti P., Dizionario di psicosomatica, Milano, Edizioni Riza, 2007.

Asma – EpiCentro – Istituto Superiore di Sanità (iss.it)

Asma situazione epidemiologica (iss.it)

Dott.ssa Erika Gerardi

Psicologa – Psicoterapeuta

I TRE “ATTORI” DELLA NOSTRA PSICHE E LE LORO MANIFESTAZIONI: BAMBINO, GENITORE E ADULTO

E’ capitato a tutti di avere pensieri nella testa contrastanti, di pensare in un modo e nel giro di poco di avere l’impressione di aver cambiato idea del tutto. Alle volte ci sentiamo “strani” e temiamo di essere “pazzi”: diventa, così, difficile poter comunicare agli altri le nostre sensazioni, poichè di fatto siamo i primi a non riuscire a comprenderle.

Perché questo accade?
Ognuno di noi porta con sé diverse parti che nella vita di tutti i giorni interagiscono, comunicano, s’impongono e spesso ci fanno soffrire.
Imparare a vederle, conoscerle e ascoltarle può essere un punto di svolta sorprendente ma bisogna spesso potersi affidare ad un professionista per non perdersi in questo percorso a tratti difficile, ma illuminante.

Di quali “parti” stiamo parlando? E quante sono?
Ognuno di noi porta dentro di Sè tre stati mentali dell’Io. Il primo è stato chiamato da diversi autori in modo differente: è la parte che assume il nome di Infante, Innocente o Bambino interiore.

In terapia mi trovo molto spesso a guidare i pazienti a sintonizzarsi con questa parte: è importante sapere che il Bambino che siamo stati rivive in noi per tutta la vita, ci accompagna nella nostra quotidianità e, a volte, le sue paure o le sue insicurezze prendono il sopravvento.
Le persone che incontriamo comunicano spesso sofferenza ed il proprio Bambino interiore cerca di comunicare qualcosa proprio attraverso essa.
Si tratta di un piccolo Sè che probabilmente è stato spaventato, ferito, trascurato, deluso, abusato, bullizzato, isolato e che è alla ricerca di qualcuno che possa prendersi cura di lui.

È alla ricerca di un adulto che possa essere in grado di “prenderlo per mano” e con tono rassicurante possa sussurrargli: “Va tutto bene, ci sono qui io”.

Questa parte, in un primo momento, viene interpretata dal professionista che diventa per il Bambino interiore del paziente l’Adulto di cui avrebbe avuto bisogno da piccolo.
Ma, affinché la psicoterapia sia funzionale, è indispensabile guidare la persona a diventare l’Adulto significativo di cui il Bambino interiore ha bisogno.

Bisognerà imparare ad essere rassicuranti, amorevoli, accoglienti e aperti al mondo, proprio come un buon genitore avrebbe fatto con il proprio bambino.
Molte volte è capitato che i pazienti che si sintonizzano con il proprio Bambino interiore siano perplessi nel doverlo “sentire” per tutta la vita. Ma un bambino che viene rassicurato e protetto, non sarà un bambino che piangerà o urlerà per tutta l’esistenza. Potremmo godere della sua compagnia, quella di un bambino sorridente e sereno.

Sembrerebbe che all’interno di ciascuno di Noi la “scena” sia occupata esclusivamente dal Bambino interiore, ma sul “palcoscenico” in realtà troviamo altre due figure: il Genitore e l’Adulto. A loro modo queste due parti intervengono e si schierano con l’intento di difendere il Bambino interiore dal pericolo e dal dolore. Ma non sempre le nobili intenzioni bastano.

Il Genitore si crea mettendo insieme tutto ciò che abbiamo assorbito dai caregiver, da coloro che ci hanno accudito. Spesso in questo stato mentale ritroviamo il comportamento, le emozioni, gli schemi dei nostri genitori o di chi ci ha cresciuto.
Ed ecco che la critica, la svalutazione, la disapprovazione, la delusione spesso viene manifestata da questa figura proprio sul Bambino interiore.

L’Adulto, invece, è la parte più intellettuale, razionale e spesso risulta essere una parte “congelata” che non riesce a passare all’azione.

Mi piace pensare che questo stato dell’Io possa diventare un giusto mediatore tra il Bambino e il Genitore, ovvero quella parte che sia in grado di riflettere tenendo in considerazione i bisogni degli altri due stati mentali, per poter agire in modo proficuo.

Vedere queste tre figure (o stati mentali dell’Io) e comprendere come esse si manifestino, apre la strada verso il cambiamento.
E’ importante riuscire a “sbloccare” l’Adulto e renderlo comprensivo, benevolo, consapevole di come questi sentimenti passati condizionino, inconsciamente, la nostra vita di tutti i giorni.

“I presupposti non sono facili da attuare. Dovrai pensare, anche se non sei abituato a pensare. Ti capiterà di doverti buttare, anche se non sei abituato a buttarti. Ti capiterà di dover mettere a tacere le tue lamentele, anche se sei abituato a piagnucolare. Ti capiterà di dover sopportare un’ansia tutta nuova e delle strane sensazioni.
Diventando un genitore lucido e dinamico per il tuo bambino del passato, tenero ma severo quando è necessario, puoi fare qualcosa che nessun’altra può fare. Al posto tuo: inventare per te una vita nuova e appagante…. E un nuovo modo di vedere te stesso e chi ti vive accanto.”

(W. Hugh Missildine “Il bambino che sei stato” 1963, ed 2004).

 

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

NON È UN PAESE PER MAMME

Tutti ci chiedono di fare figli, dal Papa ai governi, la natalità è a i minimi storici e per incentivarla si adottano modalità discutibili quali rendere illegale l’aborto (vedere alla voce America) o elargire 4mila euro una tantum alle mamme per convincerle a non interrompere le gravidanze (Piemonte).

Ma com’è che il viaggio della maternità è diventato così disincentivante?

Partiamo dall’inizio.

In Italia le donne fanno figli sempre più tardi, in media intorno ai 31 anni. E negli 10 ultimi anni in Europa il numero di donne che partorisce il primo figlio dopo i 40 anni è raddoppiata, con l’Italia che si piazza al secondo posto dopo la Spagna su questa classifica.

Il perché è presto detto: mancanza di occupazione, fatica a raggiungere un reddito stabile, enorme difficoltà nel potersi permettere una casa. E se questa combinazione di fattori riguarda tutti i giovani, sulle donne ha un impatto maggiore. Il tasso di occupazione femminile è fermo al 50% e i datori di lavoro hanno da sempre la tendenza ad investire meno sulla formazione e la promozione delle loro dipendenti donne che potrebbero un giorno assentarsi per maternità o per far fronte al carico famigliare che, ancora, ricade in gran parte su di loro. Ma su questo torneremo più avanti.

Alla luce di quanto detto, prima che una donna arrivi anche solo a pensare di mettere su famiglia (se lo desidera), facilmente sarà over 30. E, come è noto, la biologia non è così interessata alle umane vicende. Dunque, spesso, presenta il suo conto e allora i tempi per arrivare ad una agognata maternità possono allungarsi ancora. A volte si attraversano anni di cure psicologicamente e fisicamente provanti e, purtroppo, si può incappare in cliniche della fertilità più o meno serie che lucrano sulla sofferenza altrui.

Quando finalmente si riesce a concepire, inizia un viaggio di trasformazione fisica e mentale senz’altro potente e interessante, ma non sempre così idilliaco come viene dipinto, o almeno non per tutte.

È un aspetto di cui si comincia a parlare, ma non ancora pienamente sdoganato. C’è una sorta di ritrosia nel raccontare con schiettezza anche gli aspetti meno amabili dell’essere incinte, anche tra le amiche. L’immagine mentale della donna che nel riprodursi attraversa il momento di gioia più grande della sua vita, è dura a morire.

Stessa sorte silenziosa tocca ancora all’aborto, benché sia molto comune: basti pensare che circa 1/3 delle gravidanze termina con un aborto spontaneo. Purtroppo le pratiche ospedaliere sono ancora molto carenti nel prendersi cura di una donna dopo tale evento e la società non è affatto preparata ad essere di supporto. L’aborto viene spesso sminuito, silenziato, messo da parte con frasi crudeli e sbrigative e, troppo spesso, le madri si ritrovano anche a gestire un aleggiante senso di colpa, come fossero portatrici di qualche difetto o inidoneità. Invece, sappiamo che gli aborti spontanei avvengono per la gran parte dei casi per una selezione naturale del corpo e non per un accudimento inadeguato. In questo, il nostro termine italiano aborto (ab-ortus, allontanato dalla nascita) è più corretto dellinglese miscarriage (mal tenuto, mal contenuto).

Quando la gravidanza procede e arriva al termine, le donne affrontano il temuto momento del parto. E se il dolore non fosse sufficiente come preoccupazione, si aggiunge anche il terno al lotto della gestione ospedaliera. È importante sapere, infatti, che lItalia presenta un numero eccessivo di parti cesarei. Nel 2020 veniva fatto ricorso al cesareo nel 31% dei casi, nonostante siano state create delle linee di indirizzo per la riduzione di questa tipologia di parto, proprio perché eseguito in misura troppo frequente rispetto alla reale necessità. Il problema del ricorso eccessivo al cesareo, a onor del vero, accomuna tutta Europa e il tentativo di invertire la tendenza si sta diffondendo, anche se troppo lentamente. I paesi più virtuosi in tal senso sono Finlandia e Svezia che vi ricorrono solo nel 16% dei casi.

Un’altra pratica abusata (60% dei parti) è quella dell’episiotomia, una vera e propria chirurgia vaginale che consiste nell’effettuare un taglio nella parte bassa della vagina per aumentare lo spazio e favorire l’uscita della testa e del corpo fetale al momento del parto. L’episiotomia, nonostante la sua natura chirurgica, viene ancora troppo spesso praticata senza il consenso della madre (e talvolta senza nemmeno informarla). L’idea che diminuisca il rischio di lacerazioni è stata confutata e, anzi, oggi si sa che può provocarne un peggioramento. Inoltre, se non ben effettuata, rischia di lasciare dei danni permanenti dal punto di vista funzionale, sessuale, oltreché estetico.

L’episiotomia oggi è ritenuta una pratica da utilizzare in rari casi perché il solo fine dell’aumento di spazio può essere ragionevolmente raggiunto attendendo i fisiologici tempi (a volte molto lunghi) dell’espulsione.

A tutto questo, si aggiunge la violenza ostetrica (di cui è parte l’episiotomia non concordata, così come la manovra di Kristeller) che riguarda tutta una serie di abusi verbali e fisici subiti durante l’assistenza al parto e al post-partum, che sono lesivi dei diritti alla salute riproduttiva e dell’autonomia decisionale della donna sul proprio corpo e la propria sessualità. Inutile dire che queste pratiche impattano profondamente sulla qualità della vita della donna e non solo durante e dopo il parto. Secondo un’indagine del 2017, su un campione di 5 milioni di donne, il 21% ha subito violenza ostetrica. Numeri che fanno paura ma che smuovono poca reazione, quasi a richiamare l’idea che partorire con dolore implichi anche tacere e sopportare. L’informazione tra le future mamme rispetto a queste pratiche è ancora molto bassa, motivo per cui le donne stesse spesso non le riconoscono come violenza. Non ne hanno gli strumenti, non sono mai state informate sui propri diritti anche relativi al momento del parto e, facilmente, lì per lì non hanno la forza né la lucidità di opporsi.

Se siamo giunte fin qui e tutto quanto è andato, più o meno, liscio, arriviamo al fatidico rientro a casa e all’adattamento alla vita da neo-mamme.

Come sappiamo, nel 2021 in Italia il congedo di paternità è stato portato a 10 giorni ed è stato reso obbligatorio. Prima del 2021, solo il 40% dei papà lo richiedeva e molti non erano a conoscenza di questo diritto. Nonostante il miglioramento, il congedo di paternità in Italia resta ancora tra i più bassi d’Europa (in Spagna sono 16 settimane): ciò significa che, salvo pochi giorni, al rientro a casa le donne sono spesso sole ad affrontare la fatica e l’adattamento fisico e mentale ad una nuova vita. Il principale appoggio è ancora rappresentato dai nonni, se sono in pensione.

Questo è il periodo in cui fa capolino il rischio della depressione post-partum, che colpisce circa il 15% delle neo-mamme, mentre l’85% sperimenta il “baby blues” cioè un lieve disturbo dell’umore dovuto al rapido mutamento degli ormoni nel corpo dopo il parto. La privazione del sonno, il recupero fisico e la fatica fanno il resto.

La ricerca ha ormai concordato sull’importanza del sostegno e del supporto alle neo-mamme in questo periodo delicato. Il supporto sociale ed emotivo è fondamentale per sentirsi ascoltate, rilasciare paure e sensi di inadeguatezza e ritrovare benessere e fiducia in stesse.

È chiaro che lasciare le mamme sole in questo periodo, non sia la scelta ottimale, e 10 giorni di congedo di paternità sono una goccia nel mare. Le donne si adoperano nel creare reti con amiche e compagne di corso pre-parto o rivolgendosi ai consultori, ma non tutte e non sempre è sufficiente a scongiurare la solitudine.

A questo si aggiunge che non tutte le donne possono o vogliono fermarsi dal lavoro molto tempo dopo il parto. Ad esempio, ci sono donne che non si trovano nel ruolo di accudimento primario, ci sono donne libere professioniste che non possono permettersi una maternità lunga, ci sono donne che non possono contare sul sostegno del partner o dei nonni, ecc. Il problema è che quando un bimbo è sufficientemente grande per l’asilo nido, i posti bastano in media per 3 bambini su 10!

Questo è un fatto davvero interessante: se consideriamo che una mamma dipendente ha diritto a 5 mesi di congedo di maternità obbligatorio (pagati all80% della retribuzione e distribuiti in modo flessibile tra pre e post partum), verrebbe da pensare che intorno al 5° mese del bebè la società provveda con un servizio di assistenza e di inserimento scolastico adeguato e atto a conciliare lavoro e famiglia. Ma così non è. Il posto non c’è e i bambini andrebbero iscritti quasi prima ancora di nascere. Il nido privato, di contro, è una soluzione per pochi visto che si avvicina in media al costo di un affitto.

La cura dei cuccioli d’uomo di questa società è ancora chiaramente delegata ai nuclei famigliari (leggi mamma e nonni) nel loro privato. Si conta sulla capacità dei singoli di arrangiarsi, non sulla necessità di una società evoluta di fornire servizi ai nuovi nati che ne costituiranno il futuro. Come se la procreazione non riguardasse la collettività, insomma.

Un diritto facoltativo di cui le famiglie possono comunque avvalersi è il congedo parentale. In Italia sarebbe a disposizione di entrambi i genitori nella misura di 6 mesi ciascuno, ma con un limite di 10 mesi a famiglia (allungabili a 11 se è il padre ad astenersi dal lavoro per almeno 3 mesi) e con un’indennità pari al 30% della retribuzione. Il congedo parentale va utilizzato dalla nascita del bambino fino ai 12 anni di età, ma viene retribuito al 30% dello stipendio solo fino ai 6 anni, in seguito non è prevista indennità.

Non è una sorpresa scoprire chi ne usufruisce. La pandemia ci ha ben mostrato come l’accudimento ricada ancora in massima parte sulle spalle delle donne, facendo solo emergere un dato che è sempre rimasto costante negli anni: l80% dei congedi parentali viene richiesto dalle donne. Questo significa che quando le famiglie sono costrette a scegliere tra cura della prole e avanzamento lavorativo, sono le donne a fare un passo indietro.

Come abbiamo già detto, i datori di lavoro non trovano conveniente investire su una risorsa femminile che sarà più assente e quindi anche la possibilità di crescita professionale diminuisce. Tutto ciò perpetra un meccanismo che alimenta la disuguaglianza: quando ci si ritrova a scegliere chi nella coppia debba rinunciare al lavoro o prendere permessi per farsi carico di un lavoro di cura non retribuito, chiaramente la scelta ricadrà su chi già occupa una posizione più bassa e percepisce un salario minore.

Le tabelle dell’Inps, così, ci mostrano chiaramente come la maternità costituisca la principale fonte di discriminazione sul lavoro. Dopo la nascita di un figlio, le carriere delle donne naufragano drasticamente: a 15 anni dalla nascita i salari lordi annuali delle madri sono di 5700 euro in meno rispetto a quelli delle donne senza figli.

Per chi invece riesce, coi salti mortali, a far stare in piedi sia il lavoro che la famiglia, arrivano i vissuti di colpa e inadeguatezza. Perché viviamo in una società che, al netto delle sue mancanze, non fa sconti alle madri: chiede loro di lavorare come se non avessero figli e di accudire i figli come se non lavorassero. Tutto ciò crea un’asticella di mamma perfetta e multitasking ovviamente inarrivabile, a meno di scarificare tutte se stesse e la propria salute mentale.

Il problema è che finiamo per crederci e vivere annaspando, cercando di essere presenti come madri, tenere la casa in ordine, lavorare al meglio della nostra concentrazione e puntando in alto sennò non siamo ambiziose, cucinando manicaretti e tenendo viva la passione di coppia, nel mentre che ci alleniamo per rientrare nei canoni estetici della nostra società e dedichiamo tempo a noi stesse e alle amiche perché sennò ci trascuriamo. Tutti obiettivi valevoli e degni del nostro tempo, se solo fossero condivisi in un progetto di cura con i nostri partner (che per fortuna, soprattutto dalla generazione Millenial in avanti, stanno facendo molti passi di presenza) e con una società che si faccia vero carico delle sue mamme e dei suoi piccoli cittadini, invece di relegare i servizi all’infanzia ad una questione da risolversi in privato.

Alla luce di tutto questo, più che chiedersi perché non facciamo più figli, verrebbe da chiedersi perché mai li facciamo ancora nonostante tutto!

Per il futuro, il tanto chiacchierato PNRR fa parte del progetto chiamato Next Generation UE che, sulla carta, già dal nome, dovrebbe rappresentare un’opportunità di finanziamento per i diritti dellinfanzia e il raggiungimento della parità di genere. Insieme a questo, serve una rivoluzione culturale per rimettere al centro della politica e della società il discorso della cura e della sua condivisione.

Una madre (o un padre, n.d.r.) che sta allevando suo figlio nel modo giusto, fa per il suo paese infinitamente di più di quanto fanno tutti i governanti, Werner Braum.

Se sei una futura mamma o una mamma e ti trovi a sperimentare alcune delle situazioni descritte in questo articolo, non sei sola! La maternità può metterci in contatto con esperienze reali e psicologiche difficili da gestire in solitudine. LAssociazione Eco può aiutarti, trovi tutte le informazioni utili ai seguenti link:

https://www.ecoassociazione.it/mentre-attendo-te-mi-prendo-cura-di-me/

https://www.ecoassociazione.it/servizi/psicoterapia-low-cost/

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

IL DISTURBO AFFETTIVO STAGIONALE – Come le variazioni stagionali influenzano il nostro umore

A livello storico sappiamo che Ippocrate già nel 400 a.C. parlava di una specie di depressione dovuta all’andamento stagionale, avendo già allora intuito come l’umore possa essere influenzato dalle variazioni ambientali delle stagioni. Sappiamo anche che nel II secolo a.C. i medici greco-romani trattavamo le persone che provavano sentimenti di eccessiva tristezza facendole stare e osservare la luce del sole.

A livello diagnostico, iDisturbo Affettivo Stagionale (SAD) è descritto nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come “Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente con andamento stagionale” caratterizzato da un pattern di esordio e remissione di episodi depressivi maggiori in periodi dell’anno caratteristici, con assenza di episodi non stagionali, durante un periodo di almeno due anni (American Psychiatric Association, 2014).

Il Disturbo Affettivo Stagionale (Seasonal Affective Disorder – SAD) venne nominato e descritto per la prima volta da Norman E. Rosenthal e colleghi del National Institute of Mental Health nel 1984. Esso si configura come un’alterazione psicofisica stagionale con variazioni dell’umore (verso il polo della tristezza e della depressione) soprattutto all’inizio dell’autunno con la riduzione delle ore di luce solare (SAD invernale) e, seppur in misura minore, anche all’inizio della primavera con il risveglio della natura (SAD estiva).

La Dott.ssa Mc Mahon dell’Università di Copenaghen e altri ricercatori nel 2006 hanno rilevato una correlazione tra il disturbo affettivo stagionale e la sovrapproduzione di melatonina, l’ormone prodotto nella ghiandola pineale alla base del nostro cervello che regola biologicamente il ciclo sonno-veglia, la cui produzione è stimolata direttamente dai raggi solari.

Quest’ultimi rilevano anche una correlazione tra il SAD e una sottoproduzione di serotoninaanche questa è una molecola che riveste il ruolo di neurotrasmettitore e di ormone (noto anche come l’ormone della felicità) responsabile principalmente della stabilizzazione dell’umore.

La SAD è stata intesa da questi studiosi come un vero e proprio squilibrio biochimico nel cervello che avviene, nel caso di SAD invernale, nelle ore diurne più brevi provocando uno sfasamento del ritmo circadiano interno e di alcuni aspetti umorali che giustificherebbero il sentirsi un po’ più stanchi, tristi, assonati e/o apatici in quei giorni.

La SAD invernale è la forma più comune e presenta la sua sintomatologia depressiva durante la stagione autunnale raggiungendo il picco durante l’inverno e migliorando in primavera. Sembrerebbe colpire molto le persone in giovane età, specie donne, che si ritrovano a vivere varie condizioni come deflessione dell’umore, difficoltà di concentrazione, astenia, ansia, ipersonnia o insonnia, irritabilità, iperfagia, fatica psicofisica etc.

Inoltre, nelle persone con SAD, una minore esposizione della pelle alla luce solare (tipica del periodo invernale) con conseguente disregolazione della serotonina può causare anche un deficit di vitamina D collegato allo sviluppo di sindromi depressive.

Uno studio del 2014 ha dimostrato come la fototerapia o Light Therapy, il trattamento considerato più efficace per la cura del SAD, organizzato in misura quotidiana di almeno 30 minuti a un’intensità di 10.000 lux simulante la luce naturale, abbia risultati soddisfacenti sul disturbo affettivo stagionale. La luce catturata dalla retina, infatti, andrebbe a stimolare le aree del cervello in cui avviene la sintesi degli ormoni citati prima (Rohan, Lindsey, Roecklein & Lacy, 2004).

Essendo quindi il cambio stagione un momento delicato, ricordiamo che le alterazioni sull’organismo psicofisico a carico dell’ambiente accentuano sia disturbi preesistenti come sindromi d’ansia, depressive o di altro tipo ma anche chi presenta “solo” uno stile di vita stressante e/o irregolare.

Sebbene la SAD invernale sia più comune, alcune persone vivono una specie di lieve depressione estiva definita anche come SAD estiva o “blues estivo” dovuto al doversi nuovamente riadattare alle condizioni ambientali della stagione primaverile/estiva con sensazioni di affaticamento psicofisico.

Regolare il nostro stile di vita a livello di un’alimentazione sana ed equilibrata, regolare esercizio fisico e una vita sociale attiva può aiutare a fronteggiare sentimenti di tristezza stagionali; quando la SAD è accompagnata da altri disturbi e/o sintomatologie, se necessario, può essere gestita con l’aiuto di un professionista della salute mentale per sviluppare strategie di intervento specifiche al singolo individuo.

BIBLIOGRAFIA:

– Norman E. Rosenthal, MD and Co., (1984) Seasonal affective disorder: A description of the syndrome and preliminary findings with light therapy. Arch. Gen. Psychiat. 1984, 41: 72-80

 Mc Mahon, Brenda; Norgaard, Martin; Svarer, Claus; Andersen, Sofie B; Madsen, Martin K ;Baa, William F C ; Madsen, Jacob; Frokjaer, Vibe G ; Knudsen, Gitte M. / Seasonality-resilientindividuals downregulate their cerebral 5-HT transporter binding in winter – A longitudinalcombined C-DASB and C-SB207145 PET study. In: European Neuropsychopharmacology. 2018; Vol. 28, No. 10. pp. 1151-1160.

Rohan, K. J., Lindsey, K. T., Roecklein, K. A., & Lacy, T. J. (2004). Cognitive-behavioraltherapy, light therapy, and their combination in treating seasonal affective disorderJournal of Affective Disorders, 80(2-3), 273–283.

 Rosenthal, N. E., Mazzanti, C. M., Barnett, R. L., Hardin, T. A., Turner, E. H., Lam, G. K., Ozaki, N., & Goldman, D. (1998). Role of serotonin transporter promoter repeat length polymorphism in seasonality and seasonal affective disorderMolecular Psychiatry3(2), 175-177. 

Rosenthal N.E., MD and Co., Seasonal affective disorder: A description of the syndrome and preliminary findings with light therapy. Arch. Gen. Psychiat. 1984, 41: 72-80

– Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.

 

Dott. Maria Grazia Esposito

Psicologa – Psicoterapeuta

“QUANTO ESAGERI! È TUTTO NELLA TUA TESTA!” RICONOSCERE E DIFENDERSI DAL GASLIGHTING

Il gaslighting è una forma insidiosa di manipolazione e controllo psicologico. Si verifica quando qualcuno viene deliberatamente alimentato da false informazioni che lo portano a mettere in dubbio la realtà e a non credere ai propri pensieri e sentimenti.
La verità è che tutti possiamo
avere fatto gaslighting a qualcun altro senza averne intenzione, ma quando succede regolarmente, ad esempio in una relazione, può portare a serie conseguenze a lungo termine: si può finire per dubitare della propria memoria, della propria percezione e persino della propria salute mentale.

Ma da dove arriva questo curioso termine? Deriva da unopera teatrale del 1938, intitolata Gas Light, nella quale un uomo manipola sua moglie così tanto da farle pensare di aver perso la testa. Una sorta di lavaggio del cervello che tenta di minare l’autostima e la sanità mentale dell’altro, in maniera subdola, per poterlo controllare e sottomettere.

Il gaslighting si verifica più spesso nelle relazioni sentimentali, ma non è raro trovarlo anche nei contesti di lavoro e persino nel rapporto medico paziente.

Le relazioni con i gaslighter di solito cominciano piuttosto bene. In ambito sentimentale, è frequente che sappiano creare un clima di confidenza e intimità molto forte fin da subito, sono in grado di far sentire la persona molto attratta, ricoprirla di attenzioni e sintonizzarsi completamente con i suoi bisogni. Questa tattica iniziale va sotto il nome di love bombing (bombardamento damore), nel quale la vittima viene portata a stabilire subito un legame di fiducia benché la crescita dellintimità sia stata troppo rapida nei tempi per poter davvero giustificare la fiducia che si ripone nel gaslighter.

È bene ricordare che le relazioni sane, infatti, sono fatte di sintonizzazioni ma anche di piccole rotture (semplici fraintendimenti, comportamenti non intenzionali che magari ci feriscono o ci lasciano perplessi, moti di diffidenza, ecc.) e riparazioni (tentativi dei due partner di comprendersi meglio e avvicinarsi passo passo al funzionamento dellaltro). Per questo è utile tenere a mente che una relazione troppo perfetta fin da subito, nel quale il grado di sintonia è immediatamente altissimo, non è molto plausibile. Ptalvolta essere indice del fatto che uno dei due stia inconsapevolmente o deliberatamente assecondando tutti i bisogni dellaltro, proponendo sostanzialmente una falsa versione di sé.

Una volta stabilita questa connessione forte di fiducia cieca, sarà più facile per il  gaslighter manipolare la sua vittima.

Solitamente si comincia con piccole bugie su cose semplici, ma il volume delle distorsioni della realtà cresce rapidamente, arrivando ad accusare prontamente la persona se questa protesta mettendo in dubbio quanto le viene detto. Al contempo, il gaslighter tiene buona la relazione disseminando occasionalmente qualche piccolo rinforzo positivo che confonde la vittima. In questo modo la persona finirà col sentirsi confusa: da un lato avrà la percezione di essere trattata ingiustamente, ma dallaltra ricaverà dai piccoli rinforzi la sensazione di essere comunque amata.

Vediamo alcuni esempi di gaslighting per capire meglio:

Screditare. Una tattica comune è dire alla persona che è matta o stupida, in questo modo sentirà che le sue opinioni o sentimenti non sono affidabili. È un tentativo di negare la realtà della vittima anche quando è ben comprovata. Es. Fai presente a qualcuno che ha ferito i tuoi sentimenti e ti senti rispondere che: Sei matto/stupido se lo pensi, perché non è mai successo, te lo sei immaginato! Ti ricordi male, hai capito male come sempre! È tutto nella tua testa!
Minimizzare i sentimenti. Ti sei mai sentito dire che stai avendo una reazione esagerata? O che sei troppo emotivo? Hai mai evitato di dire a qualcuno come ti senti perché eri preoccupato della sua reazione? Quando queste cose accadono con sistematicità, ci troviamo in una situazione di gaslighting. Es. Dici a qualcuno che ha ferito i tuoi sentimenti e l’altra persona si arrabbia con te per aver provato a farla sentire male, o ti dice che sei drammaticoo troppo sensibile, di calmarti e di non tirare più fuori l’argomento.
Mentire e negare. Mentire è una tattica cruciale nel gaslighting, così come negare, negare, negare! Non prendersi mai la responsabilità delle proprie azioni, negare di avere un ruolo nel conflitto, rappresenta un problema e ha a che fare con il non volersi impegnare a cambiare e migliorare stessi per incontrare anche i bisogni dellaltro. Es. E un problema tuo, fattela passare. Era una battuta, fatti una risata! Non è colpa mia se non la capisci.
Isolare. I manipolatori hanno la tendenza a mostrare una faccia alla vittima e unaltra al resto del mondo. In questo modo diventa molto difficile per le vittime pensare di essere credute se decidessero di chiedere aiuto. Es. Sei lunico che la pensa così. Ma stai bene? Dici delle cose assurde, mi sto preoccupando per le cose che dici.

Alla lunga gli effetti del gaslighting possono portare a perdere fiducia in stessi e nella veridicità dei propri sentimenti e della percezione della realtà. Si può arrivare ad isolarsi dagli altri perché ci si vergogna o, al contrario, sentirsi dipendenti da essi perché l’autostima viene annientata. Come se si fosse indegni di amore e inutili di per . Ci si può sentire costantemente confusi, ansiosi, preoccupati riguardo alla relazione col gaslighter. Si finisce per mettere in secondo piano i propri sentimenti e scusarsi di frequente per cose che lasciano confusi. Si perde il senso della propria identità e la propria autostima.

Che fare allora?

Allontanarsi dalla persona aiuta nell’immediato a riguadagnare una prospettiva meno inquinata. Questo può condurci a distinguere meglio la manipolazione dalla realtà.

Se, parlando col diretto interessato di quello che si sta sperimentando, questi riesce a comprendere ed accettare di stare sbagliando, si può provare, con l’aiuto di un professionista, a ricostruire una relazione più sana, con dei confini chiari. Molte persone mettono in campo qualche abitudine non sana nelle proprie relazioni: a volte, si tratta di impararne di nuove e migliorare.

Può capitare infatti che il gaslighter non sia consapevole del proprio comportamento, non lo applichi cioè in modo volontario. Ad esempio, alcune persone attuano comportamenti manipolatori perché ne sono stati testimoni di frequente da bambini o perché hanno imparato a sfruttarli per sopravvivere in un ambiente famigliare gravemente deprivato. Indipendentemente dal livello di autoconsapevolezza del gaslighter o dalla patologia che vi sta dietro, però, il comportamento non è mai accettabile e il fatto che sia inconscio non dovrebbe essere usato come scusa per le azioni manipolative.

Dunque, se la persona non è disposta a cambiare il proprio atteggiamento (magari nonostante labbia promesso più volte, per poi ricascarci), bisogna allontanarsi. Nessuna relazione vale la nostra salute, bisogna mettersi al primo posto e chiudere il rapporto.

È difficile farlo da soli e per questo si può chiedere aiuto quando si ha bisogno di supporto o quando non ci si sente al sicuro.

È facile incolpare stessi per esser stati troppo fiduciosi o vulnerabili, ma non c’è da vergognarsi da biasimarsi. Il gaslighting può accadere a chiunque e in ogni tipo di relazione.

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

CHRISTMAS BLUES – La tristezza da Natale

Christmas Blues…ne avete mai sentito parlare? Pare essere un concetto che indica l’insieme di improvvise sensazioni di tristezza, ansia, nervosismo, angoscia, insonnia e rancore durante i giorni di festività Natalizia.

Qualcuno di voi si starà chiedendo come possa essere vero ciò, come sia possibile essere minimamente giù di morale durante i felici giorni di festa, forse i più belli dell’anno…altri invece potrebbero non stupirsi troppo e trovare un po’ di vicinanza nei contenuti di questo articolo.

Facciamo un piccolo passo indietro, cosa è per noi il Natale? Cosa rappresenta nella nostra società? In che modo quest’ultima ci invita a viverlo?

Nella nostra cultura, il giorno di Natale è tipicamente una festa familiare che inevitabilmente richiama i legami affettivi e familiari ovvero giornate e momenti di incontro con le persone care (partner, figli, genitori, amici…).

Il Natale si pone come grande amplificatore di emozioni (positive e negative) che irrompe nel nostro equilibrio caratterizzato dai ritmi frenetici della vita (sfera professionale, scolastica, sentimentale etc…). La società ci informa di come sia “doveroso” essere felici del Natale, ci ricorda incessantemente la gioia di fare regali e quella di riceverli.

Possiamo immaginare che alcuni di noi vivano tutto ciò con serenità e gioia, non vedendo l’ora che il Natale arrivi, probabilmente avendo dei rapporti distesi e felici con i propri cari.

D’altra parte è presente anche chi, avendo degli aspetti irrisolti, conflittuali e/o del tutto assenti nelle relazioni interpersonali familiari, può far fatica a sintonizzarsi emotivamente con questo periodo dell’anno. Ciò potrebbe provocare in queste persone sensazioni di antipatia, apatia e ansia verso l’evento Natalizio, come se fosse una vera e propria punizione angosciante assieme, a volte, ad una deflessione del tono dell’umore.

In queste persone, a volte, è il sentimento di appartenenza ad inciampare e a far vacillare le proprie credenze, di conseguenza l’evento Natalizio diviene un evento stressante, che fa sentire inadeguati e “strani” poiché la tristezza provata non è in linea con la felicità che la società ci chiede.

Il Natale sembra essere un giorno che non perdona volentieri: può donare gioia o far rattristare la persona in un malessere nascosto ma presente.

Esso può rivelarsi un’occasione per spiacevoli sensazioni di solitudine e/o di vuoto difficili da colmare, un momento in cui dover fare dei bilanci con lo scopo di “tirare le somme” dell’anno appena trascorso (come accade anche durante il giorno del nostro compleanno) come fosse una prova di valutazione della vita in generale e l’esito delle nostre competenze relazionali nei rapporti familiari (di merito, di punizione, di fortuna etc.).

È chiaro come questo malessere possa essere dato, non solo da disagi del presente ma anche da situazioni irrisolte del passato.

La tristezza da Natale ha una durata assolutamente soggettiva, può andare da qualche giorno in piena festività oppure coprire per intero il Calendario dell’avvento fino al successivo anno, quando vengono ripresi gli abituali ritmi di vita che acquietano il nostro mondo psichico interno.

Le persone maggiormente vulnerabili alla Christmas Blues sembrano essere quelle che tendenzialmente non hanno molti contatti sociali e affettivi, quelle coinvolte da problemi oggettivi di lontananza dalle persone care; chi ha vissuto episodi negativi importanti (come un lutto, una separazione, un tradimento, un problema coniugale) e chi è già predisposto ad aspetti clinici depressivi a prescindere dalle festività.

Un percorso di psicoterapia con un professionista della salute mentale può rivelarsi certamente un’occasione per affrontare i significati profondi della propria tristezza Natalizia e comprendere le modalità e le motivazioni con le quali si è manifestata.

Teniamo presente che, essere tristi e malinconici a Natale non indica che siamo sbagliati o inadeguati ma ci ricorda che siamo esseri umani complessi con una propria individualità e storia di vita.

Questo articolo vuole essere un invito a normalizzare le emozioni negative poiché anche queste sono funzionali e dicono tanto su come stiamo, ascoltarle allena la nostra consapevolezza.

Si sconsiglia fortemente così il preporsi di “dover essere” felici a tutti i costi poiché ciò stresserebbe ulteriormente. Quando si vive un momento difficile, è fondamentale quindi prendersi lo spazio e il tempo per esprimere il proprio dolore e, se possibile, condividerlo con qualcuno per lenire il malessere e sviluppare maggiori quote di resilienza.

Quello della Christmas Blues, ricordiamo, non è uno stato patologico e dovrebbe farci preoccupare nella misura in cui invalida pesantemente le giornate.

La psicoterapia è fortemente consigliata qualora questa sia accompagnata più specificatamente da una sintomatologia attinente ad un disturbo d’ansia, un disturbo dell’umore, disturbo da attacchi di panico o altro.

Psico-pillole da tenere in tasca:

Rimanere nell’ hic et nunc ovvero il “qui ed ora”: imparare a vivere appieno e consapevolmente tutto ciò che ci accade nel presente, senza perdersi nei pensieri del passato o del futuro. Coltivare i pensieri positivi allentando rimuginio e i pensieri negativi.

Prendere le distanze da ciò che ci stressa/ci fa stare male, dalle aspettative e convenzioni sociali: limitare quelle attività che facciamo per “obbligo natalizio” (doni, visite, pranzi etc.) imparando a “dire di no” agli incontri con persone che sappiamo ci provocheranno malumore e cercare di aumentare gli incontri gradevoli. Allenare la nostra scelta consapevole rispetto a tutto ciò e limitare anche la consultazione pervasiva di social media per vivere la propria vita reale e non perdersi in quella di altre persone.

Concentrarsi su ciò che ci fa stare bene: dedicarsi a quelle attività piacevoli che aumentano lo stato di benessere mentale e fisico come la lettura di un libro che ci piace, dedicarsi a hobbies, attività fisica, percorrere una passeggiata distensiva (specie nelle ore di luce), ascoltare la propria musica preferita etc.

Coccolarsi: concedersi qualcosa di goloso, farsi un regalo, attività inerenti la cura del proprio corpo o la programmazione di un viaggio futuro donano sensazioni piacevoli.

Recuperare: approfittare del tempo libero da vacanze per dedicarsi ai progetti lasciati in sospeso, mandando avanti pezzi della propria vita.

Riposo: i giorni di festa possono rappresentare l’occasione per riposarsi e dormire di più.

Coltivare le relazioni: mantenere vivi i contatti con le persone alle quali teniamo, anche a distanza, ci fa sentire meno soli e aiuta l’umore.

 

Dott.ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica Psicoterapeuta