Mese: <span>Aprile 2018</span>

Nuovi nonni e nuovi nipoti: istruzioni per l’uso!

In Italia, al giorno d’oggi, le famiglie sono sempre più formate da coppie di genitori impegnati a tempo pieno nel lavoro. L’onere e l’onore di “badare” ai bambini viene spesso delegato ai nonni, o a parenti, tate, che possono dare una mano nelle ore che i bambini trascorrono al di fuori delle istituzioni scolastiche.

Dopo i pochi mesi di maternità, concessi dai contratti lavorativi, spesso la mamma è costretta a rientrare al lavoro, e, si sa, nelle graduatorie di accesso al nido pubblico è molto difficile rientrare, e quando l’alternativa è privata, è spesso anche troppo costosa … per cui cosa si fa? Nel tentativo di trovare la soluzione migliore e di affidare i piccoli a persone fidate e di famiglia, ci si rivolge in genere a chi non ha più grossi impegni lavorativi, che ci vuole bene, che ha voglia di mettersi ancora e di nuovo in gioco per i nostri bambini …chi se non i nonni?!

Ed ecco un esercito di ex genitori che si cala nuovamente nei vecchi panni e rimette mano a passeggini, pannolini, biberon… ma con un ruolo diverso, con un’età diversa e in tempi molto diversi. I nipoti, solitamente, suscitano nei nonni un sentimento nuovo, che induce a dare e ricevere amore incondizionato: accanto ad un bambino che deve crescere non c’è tempo per pensare alla vecchiaia.

Inoltre il miglioramento dell’aspettativa e della qualità della vita permette oggi agli ex-giovani, cresciuti nel periodo del boom economico, di poter avere in genere tempo e salute per dare una mano ai propri figli che non vivono lo stesso periodo storico di prosperità, in molti casi.

Per i bambini avere dei nonni significa avere delle figure di riferimento che li accompagneranno in modo stabile, un punto fermo, certo, in un periodo di precarietà economica, ma soprattutto relazionale, dove la fragilità delle coppie è spesso un problema del quotidiano.

E’ proprio in quella relazione che unisce insieme passato e futuro che avviene una condivisione inaspettata, in cui spesso ci si intende anche senza parlare, soprattutto quando i bambini sono ancora nel periodo dell’infanzia.

I nonni sono lo strumento attraverso cui i bambini di oggi incontrano il passato, attraverso i loro racconti conoscono altri modi di vivere, altri luoghi, altre usanze, altre modalità di relazionarsi che oggi non esistono più: questa narrazione è importante non solo perché permette loro di conoscere le proprie origini, la propria storia, la provenienza della propria famiglia, ma è fondamentale soprattutto per cercare di preservarli dalla cultura dell’omologazione. Una mente che conosce una sola prospettiva, quella che vede, che vive, è poco capace di creare alternative, fa fatica a sognare, ad immaginare, non sa creare.

Ogni bambino ed ogni età hanno le proprie richieste da accogliere, chi non ha neonati e lattanti da accudire, si trova magari a gestire nipotini dopo l’asilo o dopo le scuole elementari…bambini energici e carichi di desideri e aspettative: “Chi mi porta domani a calcio? Chi mi accompagna in piscina? Posso andare a fare i compiti dalla mia amichetta? “

Spesso a tutte queste, e a molte altre esigenze, rispondono prontamente i nostri super nonni.

I nonni di oggi sono diversi dalle anziane persone che raccontavano dei tempi della guerra e dispensavano saggi consigli sull’uscio di una porta, quando noi adulti di oggi eravamo bambini: oggi sono giovanili, hanno a volte ancora in parte un ruolo professionale, escono con gli amici, guidano, viaggiano e soprattutto sono aperti e curiosi. Sono nuovi nonni perché non ripetono i copioni della loro infanzia, non ricalcano i rapporti che hanno avuto con i loro figli, hanno concepito i mutamenti del tempo e sono giunti all’appuntamento con il loro ruolo di nonni molto cambiati: sono persone che hanno interiorizzato una diminuzione del senso del dovere e un aumento di possibilità di poter ottenere piacere. Un piacere che si concretizza nella loro voglia di occuparsi dei nipotini, trascorrere del tempo di qualità con loro, in cui giocare condividere fantasie, viaggiare o chattare con gli adolescenti.

Si rimettono in gioco per aiutare la famiglia, ma molto spesso nessuno li supporta nella loro nuova sfida educativa, pensando che, essendo loro già stati genitori, non abbiano più niente da imparare sui bambini. Questo pensiero, in parte, può essere condivisibile, ma forse non si tiene conto talvolta di alcune considerazioni importanti: i nuovi nonni sono sicuramente più sprintosi, più sportivi, più moderni, ma sono pur sempre appartenenti ad una vecchia generazione rispetto ai bambini “smart” di cui si trovano ad occuparsi!

“I bambini sono pur sempre bambini…” , qualcuno sostiene, è vero, ma sono bambini che giocano con cose nuove, con un linguaggio nuovo, che hanno stimoli diversi, che corrono verso un futuro che cambia velocissimo con continue proposte, con internet, con la tecnologia.

Pur armati di buona volontà e buoni propositi per crescere al meglio i propri nipotini, ben presto si trovano di fronte ad una serie di interrogativi e sfide complessi da affrontare: come si fa ad essere autorevoli, a farsi ascoltare e rispettare, senza rinunciare alle coccole e alla tenerezza? Come faccio se sono in disaccordo con i suoi genitori? Come si fa a impartire regole che non si condividono? Qual è il mio ruolo? Fino a dove posso spingermi se le mie idee divergono da quelle dei genitori del bambino? E se disobbedisce come mi comporto? E quando fa i capricci come lo gestisco? E i compiti? Riesco ad aiutarlo, posso/devo farlo? Cosa può mangiare? Quanto deve mangiare? Può guardare la tv? Per quanto tempo? E Internet? Glielo lascio usare? Sono capace di gestirlo e controllarlo quando è sul web? E così via…

Inoltre proprio l’importanza del ruolo che ricoprono per i nipoti li sottopone ad un sistema di aspettative, richieste, pressioni e anche ricatti affettivi difficili da gestire, sentendosi talvolta soverchiati dagli impegni, affaticati e oppressi dall’ansia e dallo stress delle responsabilità.

I nonni dovrebbero essere finalmente liberi dal dovere di educare e concentrarsi soltanto sul piacere di stare insieme ai bambini, usando la fantasia e il gioco, anziché severe regole: si trovano coinvolti in un percorso emotivamente complesso, nella ricerca di un’autorevolezza, che prenda forma in un rapporto fatto di intimità, tenerezza e gioco, una nuova dimensione dal significato inestimabile.

Spesso lo scontro è su tematiche legate al pericolo, al compromesso tra autonomia e controllo, alla libertà, in una realtà che ha generato, a causa della cronaca che tutti noi leggiamo ogni giorno, un terreno ansiogeno per le modalità di trascorrere il tempo dello svago: una contraddizione costante tra iperproteggere ed emancipare, che contraddistingue spesso gli stili educativi familiari negli ultimi anni.

E’ inoltre molto complesso decidere come comportarsi in modo corretto quando le relazioni e le dinamiche intrafamiliari diventano instabili e le decisioni prese non condivise, i nonni si trovano circondati da una pluralità di valori che non comprendono talvolta del tutto e a degli stili di vita molto differenti dalle proprie abitudini, che devono in ugual modo sostenere pur non essendo loro decisioni. Pensiamo a famiglie in cui si presentano trasferimenti temporanei per motivazioni lavorative di un genitore, a trasferte forzate imposte dai posti di lavoro, orari sfasati e turni incompatibili, magari in giorni festivi o weekend, oppure coppie che non trovano altra soluzione che allontanarsi per problemi relazionali o per prendersi i propri spazi.

I bambini, anche se non lo danno a vedere, soffrono la precarietà e la fretta costante del loro nucleo familiare, poiché sono profondamente abitudinari, cercano le loro basi sicure nelle persone importanti che hanno al loro fianco, e i cambiamenti spesso turbano la loro serenità e la loro stabilità, e li costringono a mettere in atto complesse strategie mentali per ritrovare un equilibrio e un senso di sicurezza. In questo trambusto quotidiano, in cui siamo tutti coinvolti, i nostri bimbi hanno un’occasione speciale quando beneficiano della presenza di un nonno che sta lì per loro, che può dedicargli del tempo senza fretta, che può ascoltarlo con pazienza e farsi raccontare le loro esperienze e le loro emozioni, i loro piccoli e grandi problemi.

Essere nonni non implica necessariamente un legame di parentela: è diverso il figlio della compagna di mio figlio dal nipotino che lui ha avuto dal precedente matrimonio? E’ diverso il mio nipotino adottato dal mio nipotino naturale? E’ diverso per me il figlio del vicino a cui voglio bene come fosse mio figlio? La “nonnitudine” non è questione di genetica, di legami di sangue: è questione di affetto e di relazioni importanti. Essere presenti nelle loro vite in modo emotivamente attivo e dedicato è quello che rende i nonni figure importanti nelle loro vite.

Queste sono solo alcune delle riflessioni e degli interrogativi che abbiamo raccolto nel corso della nostra esperienza di vita, clinica e lavorativa, e che ci hanno fatto pensare che forse la nostra società non si occupa a sufficienza delle esigenze emotive e pratiche dei nonni operativi nelle nostre famiglie, che non viene loro proposto uno spazio e un tempo dedicato, in cui poter esprimere i loro dubbi e le loro difficoltà, poterle condividere con chi vive esperienze simili e confrontarsi in una situazione di accoglienza e di ascolto che potrebbe fornire loro qualche spunto di riflessione e qualche occasione di informazione. Proprio per questa ragione abbiamo pensato di creare l’iniziativa “Nonni 2.0”, uno spazio e un’occasione per parlarsi, confrontarsi e sostenersi tra colleghi nonni, supportati da due psicologhe.proposta incontri e link al volantino.

IL SENSO DI COLPA

Vai al workshop per Liberarsi del senso di colpa

Emozioni come la colpa, la vergogna o l’imbarazzo sono definite emozioni sociali o autoriflessive. Esse richiedono la capacità di introspezione e valutazione della propria condotta alla luce delle norme sociali e degli standard morali condivisi dalla cultura di appartenenza. Le emozioni autoriflessive rivestono un’importante funzione adattiva nella vita dell’uomo poiché rappresentano dei potenti strumenti di socializzazione, favorendo il mantenimento dei legami sociali. Gli studi sulle emozioni hanno evidenziato come gli effetti della socializzazione siano particolarmente importanti nella genesi della colpa.

Dal punto di vista cognitivo, il senso di colpa è un’emozione che si prova quando si è convinti di aver causato un danno e deriva dal pensiero di essere responsabili della sventura di qualcun altro. Quando il senso di colpa diventa eccessivo e persistente si crea un’illusione, un “pensiero automatico” che ci fa credere di essere la causa dei danni altrui, spesso interpretando erroneamente i fatti.

In psicologia, si posso distinguere 5 tipi diversi di senso di colpa:

1. SENSO DI COLPA PER CIÒ CHE HO FATTO

Ho fatto qualcosa di sbagliato. Questo errore può provocare un danno (fisico o psicologico) ad un’altra persona. Spesso il senso di colpa può nascere per aver violato il proprio codice etico o per aver ripetuto qualcosa che ci eravamo promessi di non fare più.In questi casi sentire il senso di colpa per aver attuato un comportamento indesiderato è normale. In realtà sarebbe un problema il contrario. Ma una volta che il fatto è successo non possiamo più modificarlo, il passato non si può cambiare. In questi casi l’unica cosa possibile è scusarsi e poi scoprire come evitare di commettere lo stesso atto in futuro. Inoltre può aiutare ricordare che non sempre gli altri attribuiscono alle nostre azioni ed ai nostri pensieri tutta l’importanza che attribuiamo noi.

2. SENSO DI COLPA PER CIÒ CHE NON HO FATTO, MA CHE DESIDERO

In questo caso stiamo pensando e immaginando di fare qualcosa che ci allontani dal nostro codice morale o che risulti illecito (per esempio stiamo desiderando qualcuno che non è il/la nostro/a compagno/a).In questo caso subentra un senso di colpa più difficile da gestire. Il pensiero genera un senso di colpa paragonabile ad aver commesso il gesto stesso. Il timore di cadere preda dei propri sentimenti e dei relativi comportamenti può diventare più angosciante del senso di colpa che si genererebbe assecondandoli. L’ACT, Acceptance and Commitment Therapy, suggerisce di riconoscere questi pensieri “illeciti”, accettarli come parte di ciò che siamo in questo momento e di impegnarsi a cambiare il comportamento in modo da non assecondarli. Il far finta di nulla, rinnegare e nascondere alimenta il vissuto di ansia e senso di colpa.

3. SENSO DI COLPA PER QUALCOSA CHE PENSI DI AVER FATTO

Secondo la teoria cognitiva, gran parte delle nostre infelicità e dei vissuti emotivi negativi nascono dai pensieri irrazionali sulle situazioni. Se penso di aver fatto qualcosa di sbagliato, posso provare un senso di colpa con un’intensità del tutto analoga o addirittura superiore a quella provata nel caso in cui abbia commesso l’atto. Molto spesso il senso di colpa si attiva attraverso un pensiero “magico” legato al fatto che possa succedere qualcosa di negativo o dannoso ad un’altra persona. Per esempio fantastico che il fato preservi qualcosa di brutto ad un rivale in amore: se poi succede veramente qualcosa di brutto, in qualche modo incomincio a credere che dipenda dal mio desiderio, pur sapendo che è illogico. Inoltre se aggiungiamo il fatto che la nostra memoria sia fallace, pur sapendo di non aver fatto nulla di sbagliato, quando ci sono i sentimenti di mezzo basta poco per insinuare dubbi e sospetti fino a modificare i nostri ricordi e convincerci di aver commesso errori non fatti. In questi casi, prima di autoaccusarsi, è essenziale fare una attenta analisi degli eventi e rimanere ancorati alla realtà per non distorcerla.

4. SENSO DI COLPA PER NON AVER AIUTATO ABBASTANZA

Questo senso di colpa si genera quando abbiamo dedicato il nostro tempo libero ad un amico o ad un parente (es. perché malato), ma poi abbiamo altri impegni che dobbiamo assolutamente assolvere. In questo caso il senso di colpa si attiva facendoci cercare disperatamente il modo di aiutarli, senza accorgerci che la situazione sta avendo delle ripercussioni su noi stessi. In psicologia spesso si parla di “fatica da compassione, quel processo per il quale ci si identifica talmente nelle situazioni che ci circondano che si finisce per disperdere le proprie energie fino a sentirsi svuotati. Il disagio provato è simile al burn-out. In aggiunta al carico emotivo della situazione e alla fatica contingente, si somma così il senso di colpa perché penso di non riuscire a fare abbastanza.Risulta quindi opportuno distinguere bene il desiderio di aiutare qualcuno dal senso di colpa che altrimenti finirà per sommergerci, ci farà sentire svuotati fino a renderci veramente un aiuto meno efficiente.

5.   SENSO DI COLPA PER AVERE PIÙ DI UN ALTRO, STARE FACENDO MEGLIO DI UN ALTRO

L’esempio più rappresentativo è quello del senso di colpa dei sopravvissuti.Tralasciando lo specifico di questo esempio, il senso di colpa può comparire quando sto vivendo una situazione più favorevole rispetto alle persone che abbiamo vicino. Per esempio, uno studente universitario può auto-sabotare i suoi studi, sapendo che ha delle opportunità (di studio e di lavoro) che non avevano avuto i genitori ai loro tempi. Per “proteggere” le persona che abbiamo vicino, possiamo arrivare a mettere in atto inconsapevolmente dei comportamenti autodistruttivi. Per staccarsi da questo senso di colpa, bisogna ricordarsi quanto siano in realtà orgogliosi e felici le persone che ci amano veramente, che il proprio fallimento non darà opportunità passate agli altri.

Sicuramente il senso di colpa è un’emozione complessa e articolata, ha una funzione adattiva e senza non si può vivere, ma se rimane persistente e con un’intensità elevata, condiziona la nostra libertà di azione fino a farci sentire in trappola. Per questo è importante conoscerne i risvolti psicologici sottostanti per capire quando la colpa è appropriata e quando non lo è, come superarla sciogliendo i legami che ci legano ad essa.

 

LE COPPIE FELICI

Cosa si intende per coppia? Esistono davvero coppie felici?

Partendo dalla riflessione su cosa si intenda per Coppia, si può cominciare dal presupposto che una coppia non è semplicemente la somma di due persone, ma qualcosa di più. In una coppia troviamo un io, un tu e un noi, una terza parte che origina nel momento in cui si costituisce la coppia: un incontro di due persone, due vissuti, due storie, che nel momento cui si scelgono danno origine a un Noi, simboleggiato dal legame, e la cura di questo legame rappresenta il compito di cui la coppia dovrà occuparsi per sempre.

L’essere coppia implica una progettualità, significa impegno in un progetto comune da coltivare giorno per giorno, in un percorso che si snoda attraverso diversi passaggi. Tutte le coppie attraversano, durante il loro sviluppo, delle fasi caratteristiche: dall’innamoramento, alla disillusione, alla definizione di una propria identità di coppia, alla costituzione di un nucleo familiare. Tali fasi scandiscono l’evoluzione della coppia comportando la gestione di cosiddetti eventi critici o crisi, che stimolano processi di cambiamento e il cui superamento permette il passaggio da una fase all’altra: in tali circostanze è importante che la coppia possa affrontare e gestire le trasformazioni in atto, affrontandole in maniera efficace e propositiva. A tutto ciò, si aggiungono le problematiche attorno a cui sovente possono sorgere discussioni o conflitti, che riguardano la gestione del budget familiare, i rapporti con le rispettive famiglie d’origine, l’organizzazione delle incombenze domestiche, la capacità di conciliare la vita familiare con quella professionale, la vita intima e sessuale, questioni riguardanti i figli.

Tutte questo riguarda tutte le coppie, felici e non felici.

Ma cosa caratterizza la coppia felice? Al di là della felicità, concetto dalla valenza prettamente soggettiva, è possibile che le coppie felici si caratterizzino per la loro capacità di gestire e affrontare le inevitabili crisi in modo costruttivo e sano, attraverso l’ascolto, il confronto e il rispetto reciproco, uscendone rinforzati, preservando la qualità della loro relazione, utilizzando le proprie risorse, accogliendo e valorizzando anche le reciproche differenze. Così descritta, sembra un’impresa di difficile realizzazione!

Quindi… Come diventare una coppia felice? Come curarsi di sé e dell’altro in una relazione affettiva profonda e significativa?

Innanzitutto è utile partire dalla riflessione sul livello di conoscenza reciproca, seguita dalla presa di consapevolezza del proprio grado di felicità nella coppia: quanto conosco il mio partner? Quanto sono felice e soddisfatto in questa relazione? E’ poi importante considerare e valutare le strategie utilizzate da entrambi i partner per affrontare le difficoltà, quanto sono pensate e condivise all’interno della coppia. Ancora, si può passare a riflettere su quale contributo ciascuno porta nella coppia e come poter cambiare per aumentare il livello di soddisfazione reciproco, prendere in esame aspettative, speranze, paure, passate, presenti e future. Infine un’attenta considerazione andrà rivolta alle modalità comunicative utilizzate, al fine di modificare quelle disfunzionali, poiché una comunicazione chiara, onesta e sincera, basata su un attento contatto visivo, è fondamentale per preservare la qualità del legame.

Per chi sentisse bisogno di un supporto nell’affrontare questo percorso, il nostro workshop sulle Coppie felici è finalizzato ad offrire alle coppie le competenze necessarie per favorire la buona riuscita della relazione. Lo sviluppo di tali riflessioni sarà reso possibile dall’uso di strumenti pratici e tecniche simboliche ed esperienziali che consentiranno di ri-scoprire la coppia, valorizzandone l’evoluzione e il percorso nel tempo, offrendo spunti di riflessione e opportunità di presa di consapevolezza e cambiamento.

COME TRASFORMARE LE “CRISI” PERSONALI IN UN’OCCASIONE

Il termine crisi in greco indica il momento di scelta, decisione, quindi non ha una valenza negativa come generalmente gli attribuiamo: sono in crisi (sto male, non so che fare, aiuto). Ritornando al significato originario è invece un’occasione di rivalutazione, svolta, cambiamento, non è necessariamente un problema.

Considerando poi gli eventi di vita che possono mandare in crisi alcuni hanno una valenza prettamente negativa quali la malattia fisica, i disturbi psicologici, la perdita del lavoro, il rapporto di coppia che non funziona, altri un valore positivo o neutro: matrimonio o nuova convivenza, nascita di un figlio, laurea, viaggio, promozione, trasferimento. Quello che accomuna questi eventi di vita è che viene destabilizzato un equilibrio individuale e/o di coppia raggiunto fino a quel momento.

Come possiamo porci in modo utile in una crisi? Ignorarla, contrastarla, rifiutarla, affrontarla, gestirla, sfruttarla..……

La strategia metto la testa sotto la sabbia e aspetto che la tempesta passi non ci permette un ruolo attivo di scelta, si rischia che gli altri decidano al posto nostro e quello che viene deciso dagli altri può non piacerci ed andare incontro ai nostri bisogni.

Contrastare e rifiutare la crisi è come lottare contro i mulini a vento, cioè inutile e dispendioso di energie, le nostre energie canalizziamole nel cercare un cambiamento che ci faccia star bene.

Affrontare la crisi, gestire le nostre paure dell’ignoto e la sofferenza del momento (anche semplicemente accettando di avere paura, che è naturale essere spaventati da una situazione nuova e che il malessere del presente non significa star male anche in futuro), sfruttare l’occasione per cercare nuovi equilibri e apportare cambiamenti utili al nostro benessere individuale e/o di coppia.

Come affrontare la crisi, gestire la paura del cambiamento e sfruttare l’occasione al meglio?                 Il nostro workshop sul “Trasformare la crisi in un’occasione” aiuta a trovare le strategie personali per non farsi sommergere dalle crisi ed eventi di vita e cercare di andare verso i cambiamenti desiderati.

“NON HO TEMPO” E’ SEGNO DI INEFFICIENZA

Credo che lo sappiate perché ve l’hanno già detto. E vi siete ripromessi più volte di cambiare, organizzarvi e gestire meglio le vostre attività per trovare (anche) quel tempo che serve a voi, per pensare, per leggere o per scrivere e per dedicarvi a quella piccola attività che avete sempre desiderato. Per non parlare di quel libro che avete cominciato, avete letto fino a pagina 40 e poi siete rimasti fermi. E magari sono passati più di sei mesi.

 

Quando hanno chiesto a Woody Allen come riuscisse a scrivere così tanto, lui ha risposto semplicemente: “Mi metto alla scrivania e scrivo”. E non è una presa in giro, è un dato di fatto. Ci si mette a lavorare, concentrati e si finisce e poi si passa ad altro, ci si organizza nel senso che le proprie attività vanno pianificate sulla base degli obiettivi e delle priorità. Insomma, in poche parole l’efficienza si può apprendere ed applicare.

 

Innanzitutto l’efficienza va definita come l’insieme delle risorse utilizzate per realizzare un dato compito, nel senso che magari riesco comunque a leggere un libro, ma ci metto un anno, e non mi ricordo neanche più l’inizio e sono comunque efficace, perché ho fatto ciò che volevo fare. Ma ho utilizzato troppe risorse oppure le ho usate male e mi sento come una macchina vecchia che rende poco e consuma un sacco di carburante.

 

L’efficienza si può apprendere in diversi ambiti, ad esempio in quello economico, nel controllo di gestione, con l’utilizzo di software e nella gestione del personale, ma si tratta di pratiche che possono poi essere applicate anche nella vita quotidiana, nella vostra vita.

 

Cos’è che ci rende inefficienti? Siamo noi stessi l’ostacolo alla nostra efficienza.

Come e perché? La nostra emotività ci può paralizzare, mandarci nel pallone, confonderci sul cosa fare prima e quando, rendendoci improduttivi e frustrati.

Come possiamo migliorare la nostra efficienza? Imparando a gestire le nostre risposte emotive così poi da organizzarci, darci delle priorità, perseguire gli obiettivi.

 

Quando? Partecipando al nostro workshop inizierete a trovare la vostra via all’efficienza.

 

CHI SONO I CONDUTTORI?

Dott.ssa Lorena Ferrero, psicologa e psicoterapeuta

Dott. Walter Caputo, docente di Controllo di Gestione

L’AMORE CHE FA MALE

                                                           “Noi non siamo le nostre ferite. Noi siamo degli esseri feriti.”

 

L’amore può ferire davvero chiunque! Indistintamente dall’essere un uomo o una donna quasi tutti, infatti, ci siamo trovati ad un certo punto della nostra vita a vivere il trauma della perdita del proprio partner.

La fine di un amore ci porta ad attraversare un periodo di lutto vero e proprio, sperimentando una serie di sintomi depressivi che caratterizzano tale momento: malinconia, insonnia, inappetenza, pensieri negativi ricorrenti, perdita di entusiasmo in tutto ciò che si vive. Si ha la sensazione di un mondo che ci crolla addosso e ci si sente incapaci a rialzarsi.

La sensazione più comune è quella di vuoto interiore e ci si convince di non essere in grado di ritrovare un nuovo amore.

Ma come si può superare il dolore? Come imparare a vivere di nuovo?

Le ferite che ci portiamo dietro dalla fine della relazione, risvegliano una serie di emozioni dolorose che comportano una sofferenza, così insopportabile, che potrebbe portarci nell’abisso della morte (suicidio) o della follia (psicosi), ma, che di fatto, decidiamo di non farlo avvenire.

L’istinto alla vita è, infatti, più forte di quello che ci conduce alla morte e inconsciamente decidiamo di difenderci per sopravvivere al dolore.

Riuscire a riconoscere il meccanismo di difesa che mettiamo in atto per evitare la sofferenza (es. respingere chi ci ha causato sofferenza, nutrire risentimento o pensieri negativi, augurare sofferenza a chi ci ha impartito dolore, aver coltivato il desiderio di vendetta, aver soffocato le altre emozioni ecc.) e riuscirlo ad accettare come un atteggiamento normale, è il primo passo per la “via della liberazione dal mal d’amore”.

Dopo aver riconosciuto il meccanismo di difesa che attiviamo e che ha permesso alla nostra psiche di evitare l’emozione dolorosa, è necessario innestare un meccanismo di protezione, che permetta di accogliere tale emozione e di prendervi cura del bambino ferito che c’è in noi. Perchè tale meccanismo di protezione si avvii, è necessario allontanarsi da chi può alimentare questa ferita, quindi da colui che ha causato tale sofferenza. L’intento sottostante non è quello di respingere queste persone, ma di proteggerci perché la psiche, indebolita dalla ferita, possa rinforzarsi nuovamente.

Bisogna riuscire ad uscire dal ruolo di vittima e ad accettarsi per quello che si è riusciti a fare, evitando di rivolgere critiche a chi ci ha fatto soffrire e di ricercare degli “alleati” nella battaglia contro di lui. L’accettazione profonda ed autentica della nostra condizione potrà essere raggiunta solo quando si abbandona la resistenza e la rassegnazione che generano sempre tensioni, stanchezza e confusione emotiva.

Ciò a cui resisti persiste” (N. D. Walsh) e per questo invece di trovare pace e serenità, si contribuirà ad impedire il corso naturale della vita, coltivando tormento interiore ed infelicità.

Rassegnarsi dà tristezza, accettare dà gioia” (Jalenques).

Arrendersi e adottare un atteggiamento di sconfitta non fa altro che alimentare rancore e la sensazione di essere stati schiacciati, ci si sente impotenti e passivi e si continua a rivestire il ruolo di vittima.

Quale altra soluzione si può avere in questi casi? La pace e la serenità tanto ambita potrà essere raggiunta solo se riusciamo a rivolgerci verso l’accettazione. Si riuscirà a diventare artefici della propria vita se si riesce ad accettare la situazione, a riuscire ad accogliere le cose “così come sono” senza approvarle necessariamente, ad arrestare la lotta contro noi stessi e a sospendere la guerra con gli altri, a trasformare l’energia contenuta nella sofferenza in forza interiore, a non cercare più di controllare e a dire di Sì alla vita.

Le fragilità ci rendono umani e come tale non vanno condannate, ma riconosciute ed accettate. Il potere decisionale è nelle nostre mani: siamo noi che possiamo decidere se rimanere sul fondo alimentando la autocommiserazione e il vittimismo, o orientare le energie per risalire e riprendere il potere sulla nostra vita.

Per tutti questi motivi, l’intento del workshop che proponiamo vuole essere quello di presentare un percorso che possa aiutarvi ad uscire dalla “bufera” e alleviare la sofferenza psichica causata da ferite del cuore, vedere chiaro dentro di voi e riuscire a riprendersi il potere sulla vostra vita. Il seminario vuole portare a guardarvi con occhi diversi, perché possiate riconoscervi delle risorse che possano essere punti di partenza per uscire dall’”abisso”; che possiate prendervi cura del vostro bambino ferito, amare i vostri sentimenti positivi e negativi, i vostri bisogni e i vostri meccanismi di difesa, poiché solo così si potrà ritornare ad amare gli altri e la vita.

ALLENA LA TUA AUTOSTIMA!

L’autostima è un sentimento che proviamo riguardo a noi stessi generato da diversi fattori; non è un’entità definita una volta per tutte, ma ha una natura variabile. Infatti, deriva dall’equilibrio tra molteplici aspetti di sé, per citarne alcuni: l’aspetto fisico e il rapporto col proprio corpo, il contatto con le emozioni e pensieri, la percezione delle proprie capacità, la soddisfazione personale, relazionale e professionale.

Da un lato, la stabilità dell’autostima è considerata quasi sinonimo di salute mentale, così come eccessive fluttuazioni del suo livello sono sperimentate soggettivamente con disagio; dall’altro, sapere che l’autostima non è una proprietà invariabile dell’individuo, suggerisce che esista un margine di azione e intervento per migliorare il rapporto con se stessi.

Ecco i presupposti (o gli obiettivi a cui tendere) per un’autostima sufficientemente equilibrata e flessibile:

  • riuscire ad accettare se stessi e la realtà;
  • avere fiducia in se stessi: saper valutare obiettivamente le propria abilità di affrontare una situazione;
  • saper affermarsi: poter comunicare, affrontare i conflitti, accettare, rifiutare;
  • convivere proficuamente con la distanza tra immagine di sé e sé ideale;
  • riconoscersi le proprie capacità

Inoltre, l’autostima si basa sulla convinzione di avere un valore intrinseco come persona e aumenta quando agiamo rispettando noi stessi e i nostri principi, diminuisce quando non lo facciamo.

Il lavoro psicologico su di sé e sulla propria autostima richiede di riflettere su due fronti.

Il primo sono le dinamiche in cui l’amor proprio affonda o da cui trae le sue radici, il suo nucleo più antico: i messaggi su noi stessi trasmessi dalle figure significative della nostra infanzia. Essi restano impressi nella mente, hanno plasmato la nostra immagine e si trasformano nel nostro dialogo interiore. Perciò è necessario avere il coraggio di ammetterli e riconoscerli.

L’autostima non si costruisce solo grazie a manifestazioni d’amore, apprezzamento e approvazione ricevute durante l’infanzia, ma anche dall’imposizione di limiti e regole che hanno favorito lo sviluppo di autocontrollo e disciplina.

Questa prima fase di lavoro può evidenziare che alcuni insegnamenti ed esperienze del passato hanno interferito con la costruzione di una visione equilibrata di sé; la fase successiva consiste nel capire che cosa ne abbiamo fatto di queste convinzioni nel corso della vita e come hanno influenzato la percezione di noi stessi e degli eventi, in particolare quelli di natura interpersonale.

Questo passaggio ci traghetta verso il secondo fronte di lavoro: la riflessione sulle modalità con cui manteniamo (o ci sforziamo di mantenere) in equilibrio l’autostima nel presente.

Fermarsi col pensiero sul passato potrebbe farci cristallizzare in una posizione vittimistica, bloccati nel biasimo di se stessi o degli altri; viceversa, riconoscere il proprio contributo attivo all’andamento dell’autostima è faticoso, ma è l’unico modo per intervenire su di essa.

Come possiamo, quindi, migliorare attivamente il nostro rapporto con noi stessi?

Ci sono almeno cinque talenti attraverso i quali si può imparare a volersi bene:

  • essere presenti a sé stessi: troppo spesso pensiamo e agiamo direttamente bypassando quelli che sono i nostri sentimenti e desideri. Prestare attenzione ai propri bisogni e alle proprie emozioni, ma anche al proprio corpo, ci aiuta a essere presenti a noi stessi e a capire meglio quale bisogno è sotteso al nostro agire, a cosa aspiriamo, che cosa vogliamo. Si tratta di sviluppare l’”autoempatia”, cioè prendersi del tempo per ascoltarci e dedicare attenzione a ciò che sentiamo, accogliendolo e non respingendolo. In questo modo la situazione si chiarisce e la tensione si allenta, consentendoci di recuperare energie e finalizzarle a dirigere al meglio le nostre azioni.
  • avere il coraggio di prendersi cura di sé, anche a costo di non piacere: sapersi occupare di sé stessi, gratificarsi, saper distinguere ciò che è buono per noi da ciò che non lo è, ma anche porre attenzione a stabilire i propri limiti e a “dare” in modo sano. Sono tutti elementi che possono indicarci se stiamo vivendo pienamente, se c’è qualcosa che possiamo migliorare per fare più cose buone per noi stessi o per proteggerci da abitudini dannose o da persone distruttive. Allo stesso modo va compreso fino a che punto è “sano” prendersi cura di sé e quando invece si trasforma in egoismo! Su questo può venirci in aiuto il punto successivo.
  • coltivare un dialogo umano: saper esprimere sé stessi in modo sincero e assertivo, autorizzandosi a esprimere ciò che abbiamo dentro senza aggredire, giudicare o criticare l’altro; esercitarsi ad ascoltare l’altro in modo empatico e rispettoso; manifestare gratitudine o saper ringraziare, anche se stessi! Tutto questo ci aiuta a costruire delle relazioni restando in armonia con noi stessi, in una costante ricerca di un equilibrio sano tra i nostri bisogni e quelli degli altri. Coltivare la gratitudine per qualche minuto al giorno, invece, ci mette in contatto con elementi positivi e riesce ad infonderci energia e benessere: possiamo scegliere con cura i pensieri con cui nutrire la nostra mente, ogni giorno!
  • vivere in accordo con ciò che siamo veramente: accettarsi e conoscersi per come siamo è una delle cose più di difficili (e a volte richiede l’aiuto di un esperto) ma è l’unico modo di avvicinarsi un passo di più a ciò che vogliamo diventare. Quando ci liberiamo di ciò che non ci appartiene più, o smettiamo di dare eccessiva importanza alle opinioni e ai desideri altrui invece di ascoltare la nostra voce, liberiamo spazio mentale ed energia per interrogarci su ciò che vogliamo realizzare e offrirci i mezzi per concretizzarlo. Si tratta di domandarsi se si è soddisfatti della propria vita ed ascoltare onestamente la risposta. Potete cambiare qualcosa? Se si, che cosa cambiereste?
  • educare la propria mente: troppo spesso siamo il primo ostacolo verso noi stessi! Se pensiamo sempre in termini di giudizi creiamo dentro di noi un’energia negativa che avvelena il nostro umore e la nostra energia e scoraggia chi si sta vicino. E’ importante imparare ad abbandonare i giudizi e trasformarli invece in sentimenti/bisogni. Questa ginnastica mentale ci mette in contatto con ciò che vogliamo (anziché con ciò che non va) e ci libera dall’impotenza: conoscere i nostri bisogni ci permette di utilizzare la nostra creatività per cercare il modo di rispondervi.

Come abbiamo visto, quindi, l’autostima è un muscolo e come tale va allenato con costanza. Imparare a volersi bene e apprezzarsi è una scelta che possiamo fare ogni giorno “ri-programmando” la nostra mente verso stili di vita più adattivi e pensieri più funzionali che si possono imparare esercitandosi. Dedicarsi del tempo per lavorare in questa direzione significa prendersi cura di sé, in modo da stare bene con se stessi e da avere, di conseguenza, molto da dare agli altri provando il desiderio di farlo.

Il nostro workshop offrirà spunti di riflessione su questo tema e, attraverso semplici esercizi, vi avvierà sulla strada per migliorare la vostra autostima.

(RI)CONOSCI LA RABBIA?

Ognuno di noi, in base alle proprie esperienze, vive e sperimenta ogni giorno una gamma consistente di emozioni e sensazioni; qualche volta non prestiamo loro attenzione, altre volte ne veniamo travolti positivamente, in altri casi percepiamo sensazioni meno piacevoli. Nelle nostre relazioni personali e lavorative, spesso, un sentimento che emerge in modo per noi soggettivamente fastidioso è la rabbia. La rabbia, o collera, viene comunemente considerata un sentimento negativo, una sensazione disturbante, un effetto collaterale sgradevole ma, di fatto, si annovera tra le nostre emozioni primarie, cioè quelle emozioni che provano tutti gli esseri umani fin dalla nascita.

La rabbia prende forma attraverso moltissime sensazioni corporee facilmente riconoscibili (calore, contrazione muscolare, irrigidimento, ecc…) e a seconda dell’intensità con la quale la manifestiamo possiamo ricorrere a sfumature comportamentali differenti che vanno dal fastidio e distacco, alla collera e furia.

Riconoscere quando ci si sente arrabbiati, però, non è affatto semplice, sebbene si tratti di un’emozione comune. La rabbia, infatti, cresce in modo rapido ed intenso e non sempre diventa possibile esprimerla “in modo razionale”: spesso la esprimiamo attraverso reazioni violente ed esplosive con significative conseguenze per noi e per gli altri.

Tutti ci arrabbiamo, e in questo non c’è di per sé nulla di male. Quello che è davvero importante, e su cui merita soffermarsi, è come agiamo quando lo siamo. Arrabbiarsi ci dovrebbe aiutare a canalizzare l’energia per riuscire a farci rispettare, per essere più assertivi, per non subire passivamente dei torti immotivati, tuttavia, quando la rabbia conduce all’aggressività ci si incanala verso un percorso non propositivo, che può scivolare nella violenza e in conflitti difficili da gestire, comportando talvolta sensi di colpa per le nostre azioni più impulsive.

Gli atti violenti sono la dimostrazione di come una persona possa non essere in grado di controllare ed elaborare le proprie emozioni e di esprimerle in modo costruttivo.

Tuttavia ci sono persone che trattengono la collera e sebbene si tratti di un’aggressività meno esplicita e quindi passiva, risulta essere ugualmente corrosiva. Un atteggiamento rimuginatorio, tipico di questa modalità, comporta ugualmente conseguenze negative, quali sensazioni di irritabilità, ansia, tristezza, impotenza e frustrazione.

Non esprimere apertamente la propria rabbia, magari per il timore di esporsi alle critiche altrui, o semplicemente come tentativo di negazione del conflitto e/o disagio può comportare, a lungo andare, manifestazioni psicosomatiche di vario genere. Ne consegue, quindi, l’importanza di elaborare e canalizzare tutte le emozioni che siamo soggetti a provare, anche quelle che nello scenario comune vengono connotate negativamente.

Nelle situazioni conflittuali capita spesso che entrambe le parti pensino di avere un punto di vista ragionevole da difendere e sostenere e che vivano come un attacco personale, o una profonda ingiustizia/sopruso, il permettere all’altro di prevaricarlo. Proprio per queste ragioni personali, che nascono da sensazioni di fastidio viscerale, capita sovente che anche conflitti inerenti tematiche superficiali diventino delle vere e proprie guerre di principio, anche senza accorgercene, innescando una rapida escalation di emozioni, parole e comportamenti distruttivi. Ognuno di noi ha una soglia oltre la quale non si sente più in grado di gestire i propri comportamenti e quando la raggiungiamo ci lasciamo andare a reazioni incontrollate, supportate, più o meno consapevolmente, da una sorta di pensiero sottostante di “legittima difesa” che ci autorizza ad agire con parole o gesti aggressivi: “… è troppo … questa volta ha davvero esagerato … c’è un limite a tutto … è chiaramente una provocazione..”.

Questo ci porta a perdere il controllo: accade quando non siamo stati in grado di percepire precedentemente i segnali che il nostro corpo e la nostra mente ci stavano inviando, ignorando la nostra soglia di percezione e impedendoci così di poter canalizzare, dopo averle riconosciute, quelle sensazioni ed emozioni sgradevoli. Noi non siamo, però, destinati a vivere in balia delle nostre emozioni e sensazioni, possiamo imparare a riconoscerle, a gestirle, a canalizzarle in modo propositivo e a convogliarle in comportamenti maggiormente costruttivi.

Qualche volta tendiamo a giustificare o spiegare la nostra aggressività, o quella mostrata dalle persone a cui vogliamo bene, cercando di attribuirla a qualcosa che sta al di “fuori di sé”, tentando di minimizzare la gravità di una momentanea perdita di controllo, come un qualcosa che sta al di fuori della nostra volontà e delle nostre intenzioni, cercando così di deresponsabilizzare l’aggressività dimostrata.

Se ci osservassimo dall’esterno spesso potremmo riconoscere nei nostri atteggiamenti e comportamenti dei chiari segnali dell’attivazione di questa emozione: il nostro viso cambia espressione, iniziamo ad alzare il tono e il volume della voce, la nostra muscolatura inizia a irrigidirsi creando involontarie contrazioni, spesso visibili attraverso la chiusura dei pugni o il serrare i denti, il nostro battito cardiaco accelera e le nostre parole diventano pungenti, veloci e talvolta volgari, possiamo anche arrivare a compiere gesti piuttosto forti come minacciare o rompere oggetti, fino per alcune persone all’aggredire fisicamente qualcuno. Per cercare di imparare a controllare queste ed altre emozioni e reazioni abbiamo bisogno di iniziar innanzitutto a diventare consapevoli di ciò che proviamo e sentiamo.

Non prestare sufficiente attenzione a come ci sentiamo ci impedisce, infatti, di riconoscere cosa ci sta accadendo e di non controllare le nostre parole e i nostri comportamenti: l’automatismo, così, può diventare un boomerang che ci si ritorce contro. Diventare consapevoli significa diventare presenti a se stessi: per superare stati d’animo spiacevoli ed evitare inutili conflitti dobbiamo abituarci a coltivare consapevolezza delle nostre sensazioni, sentimenti, pensieri, azioni e parole.

Non è impossibile imparare a farlo!

Il workshop che proponiamo vuole darvi la possibilità di guardare con occhi diversi la propria rabbia: non più come un’emozione negativa da reprimere, non più una manifestazione distruttiva e violenta, ma bensì un’importante espressione della propria affermazione verso gli altri, un’emozione costruttiva ed una strategia comunicativa per esprimere, efficacemente, le proprie esigenze.

Mollare la presa. Lasciar andare.

Non ce la faccio, non posso, è tutta colpa mia, mi sento in dovere di…
Quante volte abbiamo pronunciato queste frasi? E quante volte questi pensieri ci hanno impedito di fare quello che avremmo voluto, di raggiungere un obiettivo, di vivere con maggior serenità un momento di difficoltà o di crisi?
Basiamo la nostra vita su delle convinzioni, che ci accompagnano e ci definiscono. Ma se le convinzioni che abbiamo su di noi fossero limitanti?
Forse siamo convinti di essere timidi, insicuri, inadeguati nel lavoro o nello studio, incapaci di gestire una relazione di coppia o piuttosto ci colpevolizziamo eccessivamente per ciò che accade.
Alcune delle nostre convinzioni, trasmesseci da genitori, insegnanti, compagni di classe o colleghi di lavoro, rappresentano una vera e propria prigione da cui sembra difficile poter uscire; abbiamo ereditato delle idee in cui abbiamo creduto, che sono cresciute in noi e che oggi sono divenute convinzioni che ci auto-limitano.
La “perseveranza della credenza” è il principio psicologico secondo il quale, una volta che crediamo in qualcosa (ad esempio: sono una persona noiosa e per questo non ho amici) tendiamo a cercare conferme a tale credenza e a rigettare le situazioni che rispetto a tale credenza si mostrano in contrasto.
Talvolta capita di aderire all’etichetta che il mondo ci attribuisce e di comportarci secondo quanto previsto da quell’etichetta, ma prendendo consapevolezza del fatto che le nostre convinzioni si sono basate su eventi che un tempo ci hanno scosso, ma che oggi hanno una rilevanza relativa, possiamo cambiarle.
Il workshop “mollare la presa dai pensieri auto sabotanti” insegna ad abbandonare le vecchie convinzioni che ci limitano, le abitudini mentali nocive, i sensi di colpa, gli obblighi inutili e ad accettare la realtà per vivere la nostra vita nel qui e ora.