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BINGE-WATCHING: UNA NUOVA DIPENDENZA?

Da qualche anno il mondo delle serie tv è diventato sempre più accattivante. Se fino a qualche tempo fa i cosiddetti telefilm ci facevano distrattamente compagnia tra il rientro da scuola e linizio dei compiti, come un piacevole sottofondo, oggi le serie tv sono diventate dei veri e propri capolavori, con tanto di cast stellari e budget di realizzazione paragonabili a quelli spesi per un colossal. Questo ha contribuito a far entrare le serie nella nostra quotidianità, a farle diventare argomento di conversazione e un passatempo prediletto per molti.

La pandemia e i vari lockdown a cui siamo stati costretti hanno convinto anche i più scettici a soffermarsi a guardare qualche puntata per passare il tempo, tanto che gli abbonamenti ai canali streaming ,negli ultimi 2 anni, hanno avuto una netta impennata.

Fin qui sembrerebbe che non ci sia niente di male o di dannoso per la salute, ma cosa succede quando le serie tv diventano una dipendenza?

Il fenomeno del binge-watching (dallinglese binge: abbuffata e watching: guardare) consiste nel guardare una puntata dopo laltra, facendone letteralmente una scorpacciata.

Jenner (2014) ha ipotizzato che si possa parlare di binge-watching quando si guardino 3 ore o più di una serie tv in una singola sessione. Quando le sessioni diventano ripetute nel tempo si parla invece di vera e propria dipendenza, con tutte le implicazioni negative che ne possono conseguire.

Alcune ricerche hanno rilevato che il binge-watching diventa una dipendenza quando allappagamento dellaver visto una puntata si sostituisce la necessità impellente di guardarne unaltra e unaltra ancora, spesso arrivando a dare priorità alla serie tv rispetto ad altri aspetti del quotidiano.

Altro fattore rilevante risulta essere lisolamento: alcuni studi hanno dimostrato che la maggior parte delle persone preferisce abbuffarsidi serie tv in solitudine. Questo, nei casi peggiori, può comportare un indebolimento della rete sociale e il diradamento dei rapporti familiari. Inoltre chi è dipendente dalle serie tv in alcuni casi arriva a mettere da parte attività importanti come il lavoro o lo studio, non riuscendo a staccarsi dallo schermo.

Ma cosa si prova quando guardare la tv diventa una dipendenza? Alcuni studi hanno preso in considerazione lumore dei soggetti mentre guardavano una puntata e al termine di essa, rilevando un netta differenza tra i due momenti presi in considerazione: se durante la puntata i soggetti apparivano appagati e soddisfatti, al temine della puntata stessa riferivano di sentirsi emotivamente appiattiti e passivi.

Eimportante sottolineare come gli studi sulle dipendenze in generale abbiano riscontrato una correlazione tra questi fenomeni e la depressione. La dipendenza da serie tv non fa eccezione, tanto che è stato rilevato un particolare stato psicofisico che prende il nome di Post binge-watching blues., ovvero la depressione da fine serie. Tale particolare condizione si presenta quando i soggetti, al termine di una serie tv, sperimentano un senso di vuoto e di abbandono, come se tutto ciò che li rendeva felici fino a quel momento non ci fosse più.

Un recente studio delluniversità del Texas, condotto su un campione di 316 soggetti tra i 18 e i 29 anni, ha evidenziato una correlazione tra solitudine e depressione e binge-watching, utilizzato come strumento per regolare emozioni negative. Nella stessa ricerca viene ipotizzata una correlazione tra dipendenza dalle serie tv e condotte nocive per la salute, quali alimentazione poco sana e assenza di attività fisica. Per quanto il binge-watching in apparenza sembri un comportamento del tutto innocuo, se ripetuto nel tempo può portare a gravi conseguenze sulla salute fisica e psicologica.

Il confine tra il piacere di guardare la nostra serie tv preferita e il diventarne dipendenti talvolta è molto sottile, per questo motivo è importante fare attenzione ad alcuni segnali che potrebbero rivelarsi dei veri e propri campanelli dallarme.

E tu quanto tempo passi davanti alle serie tv?

 

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

  • Ahmed, A. (2017). New era of TV-watching behaviour: Binge watching and its psychological      effects. Media Watch, volume 8, numero 2, pp. 192-207.
  • Cousins, J.M., Betz, H. (2019). Association between binge-watching TV and Physical activity in college students”. Medicine & Science in Sports & Exercise, volume 51, numero 6, p. 725.
  • Jenner, M. (2014). Is this TVIV? On Netflix, TV III and Binge_Watching. New media and Society, OnlineFirst, 1-18.
  • Riddle, K. et al. (2019). The addictive potential of television binge-watching: Comparing intentional and unintentional binges. Psychology of popular media culture, volume 7, numero 4, pp. 589-604.
  • Rubenking, B. et al. (2018). Defining new viewing behaviours: what makes and motivates TV binge-watching? International Journal of Digital Television, volume 9, numero 1, pp. 69-85.
  • Sung, Y.H., Kang, E.Y and Lee, N. (2015). A bad habit for your health? An exploration of psychological factors for binge-watching behaviour. Proceedings of the 65th International Communication Association Annual Meeting.
  • Tukachinssky, R., Eyal, K. (2018). The psychology of marathon television viewing. Antecedents and viewer involvement. Mass Communication and Society, volume 21, numero 3, pp. 275-295.

Binge watching: siamo drogati di serie tv?

L’espressione inglese “Binge watching” (letteralmente “abbuffata di visione) è entrata da tempo nel nostro dizionario, almeno da quando le piattaforme di streaming sono divenute un’alternativa alla tv tradizionale.

Fa riferimento alle “maratone televisive”, ossia alla fruizione di contenuti televisivi per un periodo di tempo superiore al consueto e senza soste e nello specifico indica la visione consecutiva di puntate di una serie tv che impegna lo spettatore per molte ore.

Il fenomeno delle abbuffate televisive non è certo nuovo, ma in passato aveva connotazioni diverse: già sul finire degli anni ’80 del secolo scorso alcune emittenti televisive statunitensi proponevano maratone legate a serie tv cult quali Star Trek e negli anni ’90 lo stesso accadeva con X files, mentre con la diffusione di massa dei DVD lo spettatore acquisiva il potere di scelta, determinando tempi e modalità di fruizione dei contenuti.

La vera affermazione del fenomeno del binge watching si ebbe però intorno al 2010, con l’affermazione sul mercato di servizi di video on demand.

In Italia la piattaforma Netflix arriva nel 2015, Amazon Prime nel 2016, mentre Sky era già operativa da diversi anni. A queste poi si aggiungono tutte le altre piattaforme che hanno contribuito all’ampliamento smisurato dei contenuti fruibili dagli utenti e che innegabilmente hanno reso il fenomeno delle abbuffate molto più diffuso di quanto probabilmente non si pensi.

Stando ai dati rilasciati da Netflix relativi ad uno studio commissionato dalla stessa piattaforma, su un campione di 1500 consumatori di serie TV via streaming, il 61% dichiara di praticare il binge watching almeno una volta alla settimana, mentre il 73% degli intervistati dichiara di associare “sensazioni positive” a questa pratica. Secondo YouGov, società di ricerche di mercato, il 58% degli americani è dedito al binge watching, motivando questo comportamento con il desiderio di vedere tutta la serie in un’unica soluzione, oppure perché si riconosce impaziente di aspettare una settimana per guardare l’episodio successivo o, ancora, per paura degli spoiler.

Il periodo del lockdown ha ulteriormente contribuito ad accentuare il fenomeno, anche in Italia ovviamente, rendendo necessaria una riflessione su una pratica solo apparentemente priva di controindicazioni.

Se infatti il concetto di dipendenza è talvolta applicato in maniera generalista e declinato in modo inappropriato in riferimento a molti comportamenti che oggi vediamo intorno a noi, è pur vero che il binge watching rappresenta per alcuni soggetti una dipendenza comportamentale, non ancora classificata ufficialmente, ma che soddisfa i criteri clinici per definirla come tale: tolleranza, astinenza, compromissione della attività sociali, lavorative o scolastiche.

Ciò che vale per tutte le forme di dipendenza può valere anche, quindi, per il binge watching ed il rapporto causa-effetto potrebbe essere letto in ottica circolare piuttosto che lineare. Già nel 2015 un gruppo di ricercatori dell’Università del Texas ha evidenziato come il binge watching sia correlato ad ansia, depressione, solitudine e difficoltà relazionali. Non è tuttora chiaro però se siano gli stati emotivi a produrre il comportamento di abbuffate tv oppure se, al contrario, siano le abbuffate ad indurre cambiamenti negativi nello stato umorale e nelle risposte comportamentali degli utenti

Prescindendo dal concetto di dipendenza, inoltre, il ripetersi sistematico di abbuffate televisive può avere serie ripercussioni sulla qualità di vita dello spettatore: disturbi del sonno, relazioni conflittuali, rinuncia alle proprie attività quotidiane sono alcune esse.

A queste se ne aggiungono altre, quali disturbi visivi, perdita della cognizione temporale, sedentarietà e aumento di peso e talvolta senso di vuoto e angoscia di separazione legato alla fine della serie tv, con possibile sviluppo di sintomi depressivi (“post-binge watching blues”, ovvero depressione da fine serie). A tal riguardo sono attivi gruppi on line di supporto con l’intento di aiutare gli spettatori ormai orfani dei loro personaggi preferiti protagonisti di serie tv.

Eccessivo? Forse, ma così è. Il passo successivo potrebbe essere innamorarsi di un’altra storia e ricominciare tutto daccapo.

È tuttavia necessario specificare che il binge watching può rivelarsi pericoloso solo se protratto nel tempo e praticato abitualmente per tempi molto lunghi, nel qual caso, a fronte delle condizioni descritte precedentemente, può essere utile un consulto specialistico in stile “In Treatment”

Dott. Stefano Lagona

Psicologo Psicoterapeuta

 

Strappare lungo i bordi come metafora dell’adolescenza. Riflessione personale in un’ottica psicodinamica

!   Non adatto a chi non ha ancora visto la serie perché potrebbe contenere spoiler.

Nel mio lavoro di psicoterapeuta mi è capitato di parlare in seduta di Strappare lungo i bordi e, come sempre, una delle cose che mi piace delle mie giornate è poter cogliere come le persone captino ed elaborino gli stimoli in modo diverso, soggettivo, e spesso in relazione al proprio mondo interno.

C’è chi si è riconosciuto in un male di vivere diffuso, chi ha colto le citazioni e i dettagli studiati al millimetro in ogni scena, chi non lo ha apprezzato, chi si è commosso, chi avrebbe voluto sapere di più.

Poiché lavoro con una fascia di età variegata, ho colto che le persone, a seconda della fase di vita in cui si trovavano, si sono identificate e sintonizzate con alcuni degli aspetti che vengono trattati o solo sfiorati.

Ho deciso di scrivere questo breve articolo per cogliere una sfumatura relativa all’adolescenza e al processo, a volte doloroso, di costruzione della propria identità in relazione ai contenuti di questa serie. Chiaramente, e con mio dispiacere, non posso sapere se l’autore sarà d’accordo con questa personale lettura ed interpretazione, ma, come i miei pazienti, decido di sintonizzarmi su una sfaccettura tra mille, senza pretendere che sia l’unica possibile o quella corretta.

Il titolo in primis mi ha colpito e rimandata alle immagini, alla forma delle forbici, delle forme preconfezionate e alle guide; poi il mio pensiero è volato all’ideale dell’Io e alla definizione di Winnicott di Vero e Falso Sé nei termini che seguono.

L’Ideale dell’Io si riferisce a quell’istanza della personalità in cui convergono il narcisismo, inteso come idealizzazione dell’Io, le identificazioni con i genitori e gli ideali collettivi; esso rappresenta un ideale verso il quale il soggetto tende. L’ideale dell’Io è una formazione psichica parzialmente indipendente che rappresenta un punto di riferimento per l’Io. Quest’ultimo valuta, misura e modula le proprie realizzazioni proprio a partire da questo e proietta in avanti il proprio ideale sostituendo il narcisismo dell’infanzia in cui egli stesso era il proprio ideale.

Secondo Winnicott il Vero Sé è il “gesto spontaneo”, l’idea personale, il sentirsi reale e creativo mentre il Falso Sé è una protezione nei confronti di un ambiente che si è rivelato inadeguato ad anticipare e soddisfare il bisogno del bambino causando frustrazione.

In condizioni ottimali, l’infanzia è caratterizzata da sicurezza, il mondo del bambino è stabile, prevedibile, le figure di riferimento come genitori e insegnati costanti e affidabili, ma, sotto le spinte della crescita e la nascita delle nuove istanze, questo paradigma può subire dei violenti stravolgimenti. In condizioni sfavorevoli, il bambino prima e l’adolescente poi, si trova a dover rinunciare all’autenticità in favore di un adattamento che tuttavia, sotto le spinte della crescita, rischia di crollare originando uno stallo e, forse, un break down. La sensazione di stallo e quindi di arresto evolutivo può generare un profondo dolore, i compiti evolutivi che erano stati messi all’ordine del giorno non sono soddisfatti e il futuro, prima idealizzato e pensato roseo, non esiste più.

Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, infatti, può essere turbolento: crolla l’onnipotenza infantile, si incontra la caducità propria e del mondo, si scopre che i genitori e gli adulti significativi non sono supereroi, ma donne e uomini fallibili, che non conoscono tutto, ma che si arrabattano anche loro nel miglior modo possibile. Venute meno le certezze esterne, lo sguardo si volge al Sé e sorgono le domande: “Chi sono? Se non sono il bambino prodigio che avevano decantato mamma e papà, se non sono lo studente preferito della maestra, se non sono l’atleta che mi avevano promesso che sarei diventato, allora chi sono?”.

Zerocalcare sembra parlare della fatica delle proiezioni che provengono dall’esterno, degli stereotipi sociali che si abbattono sul singolo e che possono far sentire inadeguati e a volte “rotti”. Se si dà voce alla parte autentica di sé, cosa resta?

Lo psicoterapeuta Charmet sottolinea quanto l’adolescente senta di avere dei compiti evolutivi da svolgere. Questo significa che sente l’esigenza di dover fare, pensare o realizzare qualcosa di importante per sé, qualcosa di così significativo ed irreversibile tale da dare una svolta alla propria vita e che le dia importanza. La finalità è quella di sentire di aver fatto un salto di qualità, ma cosa accade se il processo si blocca? Se non si ha una direzione specifica, se le risorse si rivelano insufficienti e se l’angoscia diventa opprimente? Trovare la propria strada può diventare un compito difficile e accidentato.

Spesso, infatti, gli adolescenti sentono su di sè lo sguardo di ritorno colmo di domande in merito alla propria identità e valore e sentono la pressante richiesta sociale in merito alla necessità di sbrigarsi nel capire chi siano, quale siano i loro talenti e che si assumano responsabilità. Ma se dentro di sé esiste l’ipotesi e la paura di non essere altro che quel ragazzo annoiato, violento, “addormentato” allora il dolore non può che aumentare soprattutto nel momento in cui si prende consapevolezza che tutte queste voci, che si pensava provenissero dall’esterno, nascono in realtà dall’interno.

E allora noi andavamo lenti perché pensavamo che la vita funzionasse così, che bastava strappare lungo i bordi, piano piano, seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Perché c’avevamo diciassette anni e tutto il tempo del mondo.

Se l’adulto nevrotico soffre per il “passato” e le ferite che esso ha comportato, l’adolescente spesso soffre a causa della mancanza di futuro e per il lutto di quella promessa non mantenuta. E qui “strappare lungo i bordi non è più possibile: bisogna fare il lutto di quella promessa, di quel futuro immaginato che non può più realizzarsi, di quel sé futuro non raggiungibile. Crescere significa allora costruire la propria linea tratteggiata, essere pronti ad aggiustarla quando le cose non vanno come desiderate e immaginarsene una nuova, magari non proprio identica a quella idealizzata. E forse quell’ideale dell’Io promosso dai genitori, dall’ambiente e da se stessi non può funzionare, quella sagoma deve essere personale, nuova, creativa. Qui può trovare spazio il desiderio, la speranza per la costruzione di sé, non solo intrisa di aspettative, ma frutto di un percorso personale e intimo a volte accidentato.

Zerocalcare parla anche della paura di crescere e dell’errore, quindi dello scacco evolutivo in cui i ragazzi a volte si trovano. Capita infatti che i ragazzi si ritirino, che decidano di non partecipare più alla vita, né scolastica né sociale/relazionale.

Per un sacco di tempo ho pensato che se non strappavo più un cazzo, se tenevo tutte le bocce ferme immobili, almeno non facevo altri danni.

Ma si tratta di una chimera: il tempo scorrerà lo stesso e la vita con esso infatti:

pure se non lo strappi quello si ciancica.

È un processo che non si può arrestare. Fare e non fare sono comunque due azioni, sono scelte che porteranno a delle conseguenze; il tempo scorre e subentra la consapevolezza della morte. Emerge così un forte dolore e la sensazione di inadeguatezza, della paura di presentarsi al mondo e dell’entrata nel mondo degli adulti cupi, grigi e privi di speranza o spessore.

Personaggio chiave e controverso è Secco, l’amico che tutti dovremmo avere. A prima vista sembra superficiale, ma quel gelato che offre come panacea di tutti i mali può forse rappresentare la cura dell’amico, la sua vicinanza e sintonizzazione silenziosa. Quello che propone non è solo passare oltre il dolore, ma introdurre un elemento consolatorio. Secco si dimostra l’amico sempre presente, forse afflitto anche lui dell’assenza di un posto nel mondo e di un futuro, si barcamena nell’oggi e offre una spalla a chi gliela chiede. Secco gioca a poker, scommette sul fatto che le cose andranno bene, in qualche modo scommette sul futuro, pensa che potranno capitargli buone carte e allora riscattarsi. Amico silenzioso e riservato conosce i pensieri e i segreti di tutti: davanti al gelato gli amici si aprono, forse in qualche modo si sentono consolati e accettati; senza pressioni ci si confida. Secco non offre solo l’oggetto, ma l’occasione dell’esperienza della condivisione.

L’uscita dall’adolescenza e l’entrata nel mondo degli adulti è rappresentata come un percorso tragicomico in cui leggerezza e profondità si mescolano. La morte, silenzioso filo conduttore che attraversa gli episodi, compare prepotentemente con tutto il suo dolore solo alla fine (non tratterò in questo articolo il tema del suicidio perché merita una riflessione a parte). La morte, simbolo e metafora del lutto per ciò che non è più possibile, lascia cicatrici visibili ed eterne e al tempo stesso lascia spazio per la guarigione della ferita (forse anche di quella narcisistica) che consente di proseguire il percorso senza dimenticare.

Dott.ssa Debora Tonello

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA

Lancini M., Cirillo L., Scodeggio T., Zanella T. L’adolescente. Psicopatologia e psicoterapia evolutiva. Raffaello Cortina editore 2020
Pietropolli Charmet G. Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi. Editori Laterza 2008.
Pietropolli Charmet G., Bignamini S., Comazzi D. Psicoterapia evolutiva dell’adolescente. FrancoAngeli 201
S. Freud, Totem e tabù e altri scritti 1912-1914, OSF, Torino, Bollati Boringhieri, 2000
Winnicott D. W. (1960). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando: Roma.
Winnicott D. W. (1975). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Feltrinelli: Firenze
Zerocalcare. Strappare lungo i bordi