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RIFLESSIONI SULLA CONSAPEVOLEZZA DELLA VITA E DELLA MORTE

«La morte,

il più atroce di tutti i mali,

non esiste per noi.

Quando noi viviamo,

la morte non c’è,

quando c’è lei,

non ci siamo noi». 

EPICURO

Come mai facciamo così fatica a confrontarci con l’unica certezza che abbiamo nella vita ovvero la morte?

Sigmund Freud affermava che in fondo nessuno crede alla propria morte perché nel suo inconscio ognuno è convinto della propria immortalità:

«La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo costatare che in realtà continuiamo a essere presenti come spettatori» (“L’interpretazione dei sogni”, S. Freud, 1900).

La nostra mente in realtà sa che la morte arriverà anche per noi un giorno ma la nostra parte emotiva non riesce a concretizzare quell’idea così il meccanismo difensivo della negazione spesso viene in aiuto per tenere questo pensiero ben lontano dalla nostra attività cosciente.

Siamo informati e siamo in grado di menzionare la morte altrui ma questo non siamo attrezzati a vivere meglio o concepire la nostra idea di morte.

L’idea della propria morte è, appunto, un concetto non concepibile: essa evoca l’annientamento e la perdita dell’Io, un’esperienza che ci sovrasta.

Sembrerebbe infatti molto difficile pensare fino in fondo alla fine della struttura interiore che ci rende pensanti e consapevoli, l’Io appunto.

La propria morte porta dietro qualcosa di talmente incommensurabile che tendiamo a rimuoverne il pensiero e a delegarlo negli anfratti della mente, nonostante la vita e la morte siano profondamente intrecciate fin dalla nostra nascita.

In realtà, il pensiero della morte e l’idea della finitudine, quando riusciamo ad accoglierlaha in realtà un potere salvifico e vitale poiché è un potente regolatore di priorità e permette di comprendere il reale valore del nostro tempo.

La presenza della morte aiuta a non assolutizzare nulla e a ridimensionare le cose in vista della caducità e del fatto che “ogni cosa passa”.

Per il filosofo Michel Montaigne riflettere sul morire significa riflettere sul senso di vivere; parimenti per un altro noto filosofo, Heidegger, anticipare quotidianamente la morte aiuta a guardare all’esistenza in modo profondo e radicale, discriminando gli aspetti contingenti superficiali trascurabili da ciò che è invece essenziale e portatore di senso.

Di conseguenza vivere tenendo presente la nostra finitudine significa valorizzare e realizzare appieno la nostra vita, essere davvero presenti sapendo della futura assenza.

La consapevolezza della morte apre poi al mistero e all’interrogazione sull’assoluto, sulla possibilità che esista qualcosa che vada oltre l’immanente, ricordandoci la finitudine non solo del nostro essere ma anche del nostro controllo degli eventi.

La paura della morte può divenire quindi un sano regolatore di scelte di vita, di modalità di percepire e stare al mondo ma soprattutto grande possibilità di forte attribuzione di significato alla Vita.

Dr.ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica – Psicoterapeuta

 

ANCHE LA TRISTEZZA È INDISPENSABILE

Il sole, le vacanze, il dolce far niente… in estate ci si sente come obbligati ad essere felici. E anche il resto dell’anno, soprattutto condizionati dai mass media, dagli influencers, si vive una certa imposizione alla felicità.

E se, invece, essere infelici di tanto in tanto desse un senso alla vita? Se contribuisse a legarci agli altri, a renderci “più umani”? L’arte di vivere consiste anche nel fare spazio alla sventura e al dolore, divenuti tabù e indesiderabili nelle nostre società. Perché, subordinatamente al diktat dell’efficienza, i disturbi della felicità e le loro processioni di lacrime non fanno parte della dinamica dei vincitori.

E se, paradossalmente, le prove della vita, creando significato e connessione, potessero essere anche fonte di felicità?

FELICITA’ MATERIALE VS FELICITA’ AUTENTICA

Vacanze, feste, progetti da sogno… la società ha la tendenza a volerci far credere che tutti siano perfettamente felici. E invece, gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri non hanno mai avuto così tanto lavoro. Il fatto è che noi siamo preoccupati da una definizione di felicità che è piuttosto materiale, che a che fare con il successo e la perfezione, mentre la felicità autentica è più profonda, più duraturacreare una vita ricca, piena e significativa… con l’altro.

ESSERE CON L’ALTRO

Viviamo in una società individualista, intrisa dall’ossessione della ricerca della felicità. Ma la felicità è legata agli altri, all’essere insieme. E che la tristezza ha la sua importanza. Senza riferirci ai grandi traumi che possiamo attraversare, tutti i giorni della nostra vita viviamo piccole cose imperfette che ci rendono tristi. Allora se ne parla agli altri, ai familiari, agli amici. Ed è che si crea la felicità, questo legame profondo con gli altri, vero e autentico. Ci si sente ascoltati dall’altro, compresi. L’altro sente di aiutarci. E così, entrambi, ci sentiamo più felici.

IL SENSO DELLA VITA

Si corre, a volte, tutta la vita incontro all’idea che la felicità si costruisca facendo cose, raggiungendo obiettivi (lavoro, matrimonio, figli, la pensione...). Ora, il punto non è di cercare la felicità a tutti i costi, ma di trovare un senso alla vita. Prendersi cura degli altri, dividere la felicità con l’altro, solo questo genera una felicità vera, durevole e autentica. E sono proprio le cose sgradevoli o tristi che ci incitano a legarci agli altri.

LA TRISTEZZA È NORMALE

L’essere umano non ha voglia di vivere le emozioni sgradevoli, le vede subito come dei problemi, le evita, eppure sono emozioni normali, naturali e hanno una funzione biologica ed evolutiva. La tristezza ci lega agli altri. Senza questa relazione profonda e vera con l’altro, non si può essere felici. Si ha tutto materialmente ma si ha una sensazione di vuoto, di niente. Prendersi cura dell’altro dona senso, la relazione è alla base della nostra vita terrena.

PIU’ FORTI INSIEME

Si ha la tendenza a pensare che essere tristi o mostrarsi infelici di fronte agli altri renda vulnerabili. La nostra cultura, spesso, ci porta a considerare la tristezza come un qualcosa che è meglio nascondere, non mostrare. Questo perché si ha in mente un ideale di “uomo che si fa da sé” che è totalmente illusorio. Tutto quello che l’uomo ha costruito nella storia dell’umanità, l’ha fatto insieme a qualcuno. Sfortunatamente, nel corso di questi ultimi due anni, non abbiamo potuto essere insieme e con la morte che bussava alle nostre finestre con il Covid… ci si è allontanati dagli altri. Ma anche la morte partecipa a dare un senso alla nostra vita, perché ci permette di legarci agli altri, di fare dei rituali insieme, di condividere, di raccontarsi cose, di connettersi. Quindi di creare felicità. Si ha bisogno dell’altro quando si è felici, certo, ma soprattutto quando si è tristi.

Dott.ssa Giulia Giacone

Psicologa-psicoterapeuta

Per approfondire:

De Wachter, D., Cyrulnik, B., Michel, N. (2021). L’Art d’êtremalheureux. La Martinière editore.
Harris, R. (2010). La trappola della felicità. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere. Erikson editore, Trento.