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Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

Ansia Sociale 2020: un altro possibile “disturbo post-Covid-19”?

A seguito dell’isolamento dettato dalla pandemia da Covid-19 (e non solo) si sente spesso, nell’ultimo periodo parlare, propriamente o impropriamente di “Fobia o Ansia sociale”, come una sorta di “reazione” a seguito degli ultimi eventi stressanti a cui gli individui sono stati sottoposti.

Ciò che viene perlopiù riportato, nella pratica clinica, è che sembra quasi che nei momenti in cui è consentito dalle attuali condizioni sanitarie e quindi politico-sociali (vedi zona gialla, zona bianca), non si riesca più a ritornare ad una vita sociale “normale”, in quanto comunque bloccati dallo stare con gli altri, in quanto ci si sente, alle volte infastiditi dalla loro semplice presenza, alle altre ci sente osservati o giudicati da questi ultimi.

Viene dunque lecito chiedersi: Che cos’è realmente l’Ansia Sociale? Che possibile correlazione ha con gli ultimi eventi storici?

 Per rispondere a questi quesiti e provare a fare un po’ di chiarezza, risulta necessario approfondire in primis, con quanto si conosce in letteratura, circa l’epidemiologia, i criteri diagnostici, la comorbilità e l’eventuale trattamento dell’Ansia Sociale.

I primi a descrivere l’Ansia o Fobia sociale furono Marks e Gelder, nel 1966 riferendosi a essa come a “una paura di mangiare, bere, parlare, scrivere… in presenza di altre persone” che aveva come caratteristica principale “la paura di apparire ridicolo agli occhi degli altri”[1].

Venne attribuita all’Ansia sociale, un’autonomia nei sistemi diagnostici internazionali solo alcuni più tardi, con la sua introduzione come entità a sé stante nel DSM III. Nel DSM III- R furono introdotti come sottotipi l’ansia sociale generalizzata e la fobia sociale specifica. Successivamente con il DSM IV per attenuare le discordanze con l’ICD-10 è stata mantenuta la sotto classificazione che prevedeva la forma “generalizzata”. (Pietrini et al., 2009).

Infine, stando al DSM V, il Disturbo d’ansia sociale (DAS) anche nota come Fobia Sociale, è una condizione caratterizzata da una marcata, o intensa, paura o ansia relative a situazioni sociali in cui l’individuo può essere esaminato dagli altri. Nei bambini, la paura o l’ansia devono però manifestarsi in contesti in cui vi sono coetanei e non solamente durante le interazioni con gli adulti.[2]

Alla base del disturbo sembra esserci quindi la paura di un giudizio negativo diventata così pervasiva, da non consentire all’individuo una normale integrazione nel suo ambiente relazionale e sociale.

Secondo uno studio condotto da Pietrini et al (2009), l’esordio della Fobia Sociale tende ad essere generalmente graduale o può avvenire in seguito a un’esperienza stressante o umiliante (es essere vittima di bullismo, vomitare durante un discorso in pubblico) con un età media di insorgenza nel 75% degli individui tra gli 8 e i 15anni. (DSM V), a cui fa seguito un decorso tipicamente cronico e invalidante.

Per quanto riguarda invece, la remissione spontanea del disturbo, quest’ultima tende ad essere bassa e anzi vi si possono aggiungere importanti complicazioni, quali la depressione secondaria, l’abuso di sostanze (a scopo auto-terapeutico) e le condotte suicidarie.

Risulta, inoltre, nonostante diversi studi, difficile ottenere dati epidemiologici precisi sulla fobia sociale, in quanto la diagnosi viene spesso applicata a schemi interpersonali di timidezza e di evitamento del sesso opposto per paura di un rifiuto.

Ma in realtà vi è un continuum che va da un estremo, costituito dalla fobia sociale, a uno stile caratteriale generalizzato di mettersi in rapporto con gli altri, meglio identificato come disturbo evitante di personalità, posto all’altro estremo (Gabbard, 2015).

Potrebbe essere utile in tal senso, riportare alcuni tra i criteri diagnostici riportati nel DSM 5, quali:

  • La presenza di una paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri;
  • Il timore da parte dell’individuo che agirà in modo tale o manifesterà sintomi di ansia che saranno valutati negativamente;
  • Le situazioni sociali temute provocano quasi invariabilmente paura e ansia.
  • La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta dalla situazione sociale e al contesto socioculturale.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e durano tipicamente 6 mesi o più.
  • Le situazioni sociali temute sono evitate oppure sopportate con paura o ansia intense.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Etc). [3]

Tali criteri sono fondamentali anche nel differenziare il disturbo da altri disturbi d’ansia quali la timidezza non patologica, l’agorafobia, il disturbo da panico, l’ansia generalizzata, le fobie specifiche, il mutismo selettivo, isolamento sociale e/o sindrome di hikikomori,  etc..

Per quanto riguarda invece la comorbilità, purtroppo, la fobia sociale è una condizione con un alto tasso di comorbilità: secondo uno studio condotto da Schneier et al (1992), una comorbilità con disturbi cronici importanti era presente nel 69% dei soggetti affetti da fobia sociale. Tali autori hanno anche segnalato come in assenza di comorbilità raramente la fobia sociale viene trattata dai professionisti della salute mentale, infatti, in uno studio condotto negli Stati Uniti da Grant et al, (2005) nonostante l’alta incidenza del disturbo, più dell’80% degli individui non aveva ricevuto un trattamento per questa condizione (Gabbard, 2015).

Stando al DSM V, l’Ansia sociale è spesso in comorbilità con altri disturbi d’ansia, il disturbo depressivo maggiore e disturbi da uso di sostanze, e tendenzialmente l’esordio di tale disturbo precede gli altri, tranne che per la fobia specifica e il disturbo d’ansia da separazione.

Sulla base di quanto fin qui riportato, viene dunque lecito chiedersi, anche in funzione di un’eventuale correlazione con quello che verrà, da qui in poi, riportato come evento stressante “covid-19”, quali siano i possibili fattori di rischio che portano allo sviluppo dell’Ansia Sociale.

Secondo diversi studi, pare che le fobie si inseriscano in un modello di diatesi genetico-costituzionale che interagisce con stressor ambientali (Gabbard 2015), tra cui:

  • Disposizione ereditaria alla fobia che richiede specifici fattori eziologici ambientali per produrre una sindrome fobica conclamata;
  • Esposizione a stress materno durante la prima e seconda infanzia;
  • Specifici stili parentali: genitori particolarmente ansiosi, iperprotettivi o con una o più psicopatologie;
  • Esposizione a eventi stressanti come umiliazioni e critiche da parte di un fratello maggiore, liti tra i genitori, morte di un familiare o separazione da una figura importante.

In un’ottica psicodinamica dunque i pazienti socialmente fobici sembrano aver interiorizzato rappresentazioni di genitori, caregiver o fratelli che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano e abbandonano. Questi introietti, uniti a una predisposizione genetica a percepire gli altri come minacciosi, si stabiliscono precocemente nella vita e vengono poi ripetutamente proiettati in persone dell’ambiente esterno che vengono quindi evitate. Ciò non toglie che, tali effetti possano essere mitigati se invece, nonostante la predisposizione genetica, le relazioni significative siano sufficientemente buone.

Per quanto riguarda il trattamento, alcuni pazienti sono particolarmente resistenti, in quanto temono ogni situazione in cui possano sentirsi giudicati o criticati. L’imbarazzo e la vergogna sono però gli stati affettivi predominanti e il terapeuta che si sintonizza con questi affetti può avere una migliore possibilità di formare un’alleanza terapeutica nelle sedute iniziali con il paziente (Gabbard, 2015).

In conclusione e ritornando al motivo del nostra indagine, da quanto fin qui esposto si evince come in realtà, tale disturbo, anche se forse (proprio per quanto su detto) meno trattato, rispetto ad altri, sia presente da molto tempo e possegga un’alta incidenza tra la popolazione mondiale, quindi preesistente all’evento stressante covid-19. Ciò non toglie che un evento così stressante, unito a tutti i fattori di rischio su elencati, tra cui la maggior incidenza dei casi nei giovani di età compresa tra gli 8 e i 15anni,  e a una buona predisposizione genetica, non abbia contribuito a “slatentizzare”, ovvero a gettar luce,  in molti su un disturbo che forse era giunto il momento di trattare!

Val comunque la pena ricordare, per quel che concerne tutti i disturbi sorti in seguito alla pandemia, che l’Ansia sociale seppur a volte in comorbilità, si differenza nettamente dall’isolamento sociale!.

Dott.Ssa Monica Iuliano

 

[1] Pietrini F. et al (2009)”, Epidemiologia della fobia sociale”, rivista di psichiatria, 44,4 p.205

[2] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.234

[3] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.233

 

Bibliografia e Sitografia:

 

Psicologia positiva e comunicazione non violenta (CNV)

 

Ciao Io sono il lupo e sono il simbolo della comunicazione violenta, quella comunicazione che giudica, paragona, valuta, e usa tutto ciò che rende la comunicazione pesante, difficile. Quando ho le orecchie rivolte verso l’altro lo sto giudicando, svalutando ecc. Quando ho le orecchie rivolte indietro lo sto facendo con me stesso.

 

 

Ciao io sono la giraffa e sono il simbolo della comunicazione non violenta, perché sono Il mammifero terrestre con il cuore più grande e con il mio lungo collo posso avere una visuale più ampia. Con la comunicazione non violenta si è più capaci di comunicare, di gestire i conflitti e di empatizzare con sé e gli altri. L’empatia è la base della comunicazione non violenta. Quando ho le orecchie rivolte verso l’altro sto cercando di capire i suoi bisogni e motivazioni ecc. Quando ho le orecchie rivolte indietro lo sto facendo con me stessa.

 

Questi due simboli sono stati scelti fin dal 1960 da Rosenberg per insegnare alle persone, ai gruppi di lavoro, scolastici e alle famiglie come comunicare senza giudizi e in modo efficace. Senza giudizi la comunicazione non si chiude, ma si apre, perché si impara a comunicare i bisogni in maniera non violenta.
Durante la comunicazione violenta si entra in un sistema comportamentale agonistico in cui c’è un aggressore e una persona che viene aggredita. Di fronte ad un’aggressione la mente può scegliere tra tre comportamenti: aggredire a sua volta, difendersi anche attraverso la fuga, oppure bloccarsi, non riuscire né a contrattaccare, né a sottrarsi.
Il nostro cervello funziona in modo per cui più intensa è l’emozione più le capacità di pensiero e associative vengono bloccate. Questo comportamento è importante perché l’obiettivo è quello di far sopravvivere la persona.

Facciamo un esempio: se io mi trovo nella giungla e compare una tigre non devo trovarmi a pensare quanto è bella la tigre, che belli che sono i colori del suo mantello e altre cose su di lei, questa capacità di pensiero si deve spegnere in favore della mia capacità di sopravvivere e quindi devo provare intensa paura e di conseguenza scappare.
Tutte le volte in cui durante una comunicazione le emozioni che passano sono intense la capacità della neocorteccia di far funzionare le aree riflessive e associative viene compromessa, di conseguenza la persona non pone più la sua attenzione sul contenuto della comunicazione ma sulla modalità con cui la cosa viene comunicata e se questa modalità viene percepita come un’aggressione non penserà al contenuto che le viene comunicato ma ad un modo per potersi sottrarre all’aggressione.
Se invece utilizzo la comunicazione non violenta posso far sapere al mio interlocutore che sono arrabbiato, i motivi per cui lo sono e che cosa vorrei invece che accadesse di diverso. In questo modo l’emozione non sarà intensa e non comprometterà il funzionamento delle aree associative del cervello, diventerà quindi possibile confrontarsi su quello che sta accadendo e sul contenuto della comunicazione.
La CNV oltre a favorire una comunicazione interpersonale efficace permette di sviluppare empatia.
Nel momento in cui si comincia ad utilizzare la CNV si abbassano i livelli di aggressività, la comunicazione diventa più rilassata e c’è un maggior benessere percepito.
Rosenberg, dopo aver studiato con Carl Rogers il creatore della psicologia umanistica, ha creato un protocollo semplice composto da 4 fasi per poter parlare in modo non violento.
Le fasi sono: osservazione, sentimento, bisogno e richiesta.
Spesso le comunicazioni interpersonali non funzionano, diceva Rosenberg, perché cerchiamo soluzioni e facciamo richieste saltando la connessione con l’emozionante e i bisogni.
Questo fa sì che le persone non si sentano viste e riconosciute nel loro sentire e nei loro bisogni.
Con la CNV si impara prima di tutto a osservare, descrivere e riportare cosa è successo, successivamente a riconoscere le proprie emozioni e i propri bisogni, ed infine a fare richieste e trovare soluzioni congrue ad essi.

La CNV si inserisce all’interno della psicologia positiva che ha come suo obiettivo principale la promozione della salute attraverso due percorsi. Il primo lo fa a livello individuale promuovendo lo sviluppo e il rafforzamento dei punti di forza individuali come: l’ottimismo, la speranza, la resilienza, il coraggio, il senso di autoefficacia, la perseveranza, la competenza, l’empatia, il perdono e la saggezza, che costituiscono un “capitale psicologico”, che aiuta ad accrescere il proprio benessere. Il secondo a livello sociale promuovendo relazioni interpersonali caratterizzate da cooperazione, partecipazione attiva, senso di appartenenza.

Partendo dal presupposto che il potenziamento del benessere e il suo mantenimento nella varie fasi della vita, possa rivelarsi più efficace se è oggetto di interventi mirati partendo dall’infanzia, abbiamo ideato creato un libro, che stimolerà lavoro individuale e di gruppo su due abilità molto importanti nelle relazioni interpersonali: litigare in modo costruttivo e saper perdonare.

Per fare questo useremo una semplice storia che vede come protagonisti Volpino Martino, i suoi amici e due litiganti.

Applicando le fasi della comunicazione non violenta (CNV) e del perdono Martino e i suoi amici creeranno il circolo del pensiero in grado di favorire la comunicazione e la condivisione delle emozioni, delle difficoltà e delle soluzioni, fino ad utilizzare lo strumento del perdono per riparare le ferite emotive e lasciarle nel passato.

Qualunque sia la tua età: bambino o adulto, qualunque sia il tuo ruolo: genitore, educatore, insegnante, o lettore, questo libro ti prenderà per mano per aiutarti, divertendoti, ad acquisire gli strumenti necessari a comunicare in modo efficace e a perdonare.

Scopri di più su Le avventure di Volpino Martino e dei suoi amici nel bosco Fan Fan. Strumenti per imparare a litigare e perdonare.

 

Dr..sa Luigina Pugno

Vaccini: il contributo della psicologia del rischio

“…é lecito esporre un uomo a minor pericolo di morire, per salvarlo da un altro senza paragone maggiore? Niun dirà, cred’io di no; troppo sarebbe irragionevole”     

Genovesi, 1765

 

Da qualche mese assistiamo ad un dibattito sempre più acceso tra “si vax” e “no vax”. I rappresentanti delle due posizioni si incontrano, sempre più spesso si scontrano, quasi mai si capiscono.

Il risultato è che il dibattito diventa qualcosa di più simile a quello tra tifoserie.

Consapevoli che non è possibile esaurire nello spazio di un articolo un problema così complesso, vogliamo cercare di capire quali sono alcuni degli aspetti psicologici che sostengono la diffidenza e sfiducia, fino ad una vera e propria fobia, nei confronti dei vaccini.

I primi movimenti di scetticismo/ostilità nei confronti dei vaccini sono sorti già ad inizio ‘800, pochi anni dopo la loro scoperta. Questo avveniva prima dei Big Pharma, quando la realizzazione dei vaccini prevedeva anni di studi e sperimentazioni, prima dell’esistenza dei social network, quando il termine autismo ancora nemmeno esisteva. Questo ci può forse far ipotizzare che ci siano delle resistenze che esulano dal contesto specifico e fanno riferimento a variabili più emotive e cognitive.

Come spesso accade come reazione di fronte ad un rischio temuto, insorge forte il bisogno di una normalizzazione, di ritrovare sicurezze che si temevano perdute. Questo in parte spiega la radicalizzazione di certe opinioni: se da un lato c’è chi invoca il vaccino come strumento per poter ripartire in “totale” sicurezza, dall’altro c’è chi, proprio in reazione al senso di smarrimento ed insicurezza, attiva procedimenti cognitivi che, se da un lato rassicurano, semplificando la realtà dall’altro possono condurre a conclusioni fallaci, fino a chi a forza di doversi difendere da un nemico microscopico, finisce per vedere nemici dappertutto.

L’atteggiamento critico nei confronti dei vaccini si dispone su un continuum di intensità che va da posizioni più radicali ed assolute ad altre non necessariamente contrarie ai vaccini in sé, ma più dubbiose e preoccupate. Diverse quindi sono le posizioni rispetto ai vaccini così come diverse sono i possibili processi psicologici e sociali che ne stanno alla base. La psicologia del rischio ha evidenziato come, quando dobbiamo prendere decisioni percepite come rischiose, tendiamo a farlo non sempre su base razionale, ma su processi più automatici che semplificano la realtà; questo ci porta involontariamente a sovrastimare il rischio di alcuni comportamenti (prendere un aereo) e a sottostimarne altri (fumare). Non sempre alla fine fa più paura quello che è realmente più rischioso.

Sono proprio questi bias cognitivi che possono portare a ritenere più pericoloso un evento nuovo, che conosciamo poco, rispetto ad uno, magari statisticamente più rischioso, ma al quale siamo già abituati o a ritenere meno tollerabili rischi derivanti da una azione volontaria, quale il vaccinarsi ad esempio, piuttosto che quelli dovuti a un evento casuale o ancora dalla conseguenza di una mancata azione, quali ad esempio l’insorgere di una malattia o rischi legati al non essersi vaccinati. Un po’ come se ci fosse il pensiero di fondo di “essersela andata a cercare” che altera la valutazione oggettiva del rischio.

Altro bias cognitivo che influenza la percezione dei rischi è quello sintetizzato dalla locuzione “post hoc, ergo propter hoc”, che porta a confondere la causalità con la consequenzialità temporale, ovvero che tende a considerare un evento accaduto dopo un altro come sicuramente ed inevitabilmente da questo causato. Anche il cosiddetto effetto Dunning-Kruger porta ad una distorsione cognitiva, inducendo, almeno in un primo momento, a sovrastimare le proprie conoscenze in modo inversamente proporzionale alle reali competenze. Nel momento quindi in cui, “da profano” mi accosto ad un certo argomento, posso sopravvalutare la mia competenza, sottovalutando quella di studiosi più esperti e non riuscendo correttamente a discernere la validità effettiva delle fonti da cui traggo informazioni.

Si aggiungono variabili sociali e di personalità. Hornsey et al. fanno riferimento ad “attitudini profonde” inconsapevoli che sostengono atteggiamenti di ostilità e scetticismo nei confronti di evidenze scientifiche. Non può essere infatti, secondo gli autori, solo la mancanza di informazioni o una non corretta elaborazione di queste, che può determinare una tale resistenza ad assimilare e comprendere messaggi evidence based.

Sono state evidenziate persistenti credenze in teorie cospirative o complottiste, una tendenza individuale ad immaginare che vi siano reti di interessi che, per trarre benefici propri, sono disposti a creare danni, scatenare epidemie, manipolare le informazioni, mantenere soggiogata la popolazione generale. A questo si lega una tendenza ad avere sfiducia nelle istituzioni sanitarie e scientifiche e contemporaneamente un elevato livello di reattanza psicologica. Con questo si intende la resistenza a eseguire ordini che provengono sia da persone vicine che da organismi che possano esercitare una qualunque forma di controllo o norma, anche a scapito del proprio stesso interesse.

Si viene quindi a creare una narrazione di sé e del gruppo a cui si sente di appartenere, come detentore di un pensiero libero, indipendente anticonformista, non manipolato né manipolabile. Questa modalità di pensiero sostiene una certa tendenza all’individualismo, ovvero a ritenere che sia preferibile prendere decisioni per se stessi e che qualunque provvedimento derivi da un governo o da altra autorità sia eccessivamente intrusiva ed errata. Si collega a questo il pensiero di non poter essere efficacemente coinvolti nel percorso di cura, né essere parte di un contesto più ampio in cui essere attori di prevenzione e tutela della comunità.

Gli autori si riferiscono poi ad aspetti riconducibili a tematiche ansiose e inerenti al controllo. La fobia o anche solo il timore nei confronti di aghi, ospedali o sangue può determinare strategie di evitamento tra cui potrebbe esserci un atteggiamento contrario al vaccino. Va aggiunto anche che, nel caso specifico, i vaccini possono generare un’opposizione ancor più forte sia perché implicano letteralmente una penetrazione forzata nel corpo che perché possono attivare fantasie di contaminazione con l’idea che si “introduca” una malattia in un corpo sano.

Queste considerazioni portano a ritenere che un approccio simmetrico, intransigente nei confronti dei cosiddetti “no vax”, non solo non permette un confronto né un’azione trasformativa, ma anzi attiva meccanismi di reattanza, sostenendo la credenza di essere parte di una piccola nicchia di persone che coltivano il libero pensiero e incrementando tematiche ansiose e vissuti di isolamento.

Al contrario l’ascolto empatico di quelle che possono essere le motivazioni profonde che sostengono atteggiamenti più rigidamente avversi ai vaccini può aiutare sia la comunicazione che le relazioni, contribuendo poi, salvo contesti più francamente patologici, a limitare atteggiamenti più inflessibili e intransigenti.

Lo stesso può accadere anche in riferimento a coloro che hanno profondamente creduto nei vaccini come opportunità per uscire dalla fase di incertezza e isolamento scatenate dalla pandemia. L’atteggiamento favorevole al vaccino, può essere sì in linea con il sapere scientifico, ma talvolta fondare le radici in credenze non necessariamente logiche e razionali. Può essere primariamente una risposta all’ansia derivante dalla possibilità di ammalarsi e in generale dal bisogno di controllo e sicurezza. Anche in questo caso ci si trova di fronte a credenze immodificabili, che mal si adattano ad esempio al cambiamento di direzione dato dall’indicazione alla terza dose che potrebbe davvero “far crollare le certezze” che si avevano finora.

Vediamo quindi come ogniqualvolta ci troviamo di fronte a pensieri o comportamenti rigidi e pervasivi, di qualunque natura e direzione, può valere la pena domandarsi se derivano da bias cognitivi o da paure irrazionali che ci condizionano e guidano ed eventualmente rivolgerci ad uno psicoterapeuta che ci può aiutare ad affrontarli. Perché alcune volte è il nostro stesso inconscio che ci influenza più di qualunque possibile “dittatura sanitaria”.

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta

Biografia

· Goldberg JF. (2021) – How Should Psychiatry Respond to COVID-19 Anti-Vax Attitudes? J Clin Psychiatry. Aug 24;82(5)

· Hornsey MJ, Fielding KS. (2017) – Attitude roots and Jiu Jitsu persuasion: Understanding and overcoming the motivated rejection of science. Am Psychol. Jul-Aug;72(5):459-473

· Hornsey, M. J., Harris, E. A., & Fielding, K. S. (2018) – The psychological roots of anti-vaccination attitudes: A 24-nation investigation. Health Psychology, 37(4), 307–315.

· Hornsey, M.J., Harris, E.A. Fielding, K.S. (2018) – Relationships among conspiratorial beliefs, conservatism and climate scepticism across nations. Nature Climate Change, 8 (7), 614-620.

· Martin LR, Petrie KJ. (2017) Understanding the Dimensions of Anti-Vaccination Attitudes: the Vaccination Attitudes Examination (VAX) Scale. Ann Behav Med. Oct;51(5):652-660.

· Motta, M., Callaghan,T., Sylvester, S. (2018). Knowing less but presuming more: Dunning-Kruger effects and the endorsement of anti-vaccine policy attitudes. Soc Sci Med, 211:274-281.

· Pandolfi F, Franza L, Todi L, Carusi V, Centrone M, Buonomo A, Chini R, Newton EE, Schiavino D, Nucera E. (2018) – The Importance of Complying with Vaccination Protocols in Developed Countries: “Anti-Vax” Hysteria and the Spread of Severe Preventable Diseases. Curr Med Chem. 25(42):6070-6081

· Pappas S. (2021). Social science and the COVID-19 vaccines. Am Psychol Ass 52(2).

· Pastorino R, Villani L, Mariani M, Ricciardi W, Graffigna G, Boccia S. (2021) – Impact of COVID-19 Pandemic on Flu and COVID-19 Vaccination Intentions among University Students. Vaccines (Basel). Jan 20;9(2):70.

· White SJ, Barello S, Cao di San Marco E, Colombo C, Eeckman E, Gilligan C, Graffigna G, Jirasevijinda T, Mosconi P, Mullan J, Rehman SU, Rubinelli S, Vegni E, Krystallidou D. (2021) – Critical observations on and suggested ways forward for healthcare communication during COVID-19: pEACH position paper. Patient Educ Couns. Feb;104(2):217-222

Famiglie omogenitoriali ne parliamo con Daniela Vassallo (Famiglie Arcobaleno)

Ho letto la storia tua e di tua moglie, che avete in qualche modo precorso i tempi. Hai voglia di raccontarcela?

Un pochino, ma c’è stato chi prima di noi l’ha fatto. Rispetto alla step child adoption, noi ci eravamo ispirate a quello che stava avvenendo a Roma dove c’erano stati una serie di casi di adozioni in casi particolari, abbiamo quindi tentato di fare anche noi a Torino la stessa cosa. La mancanza di definizioni certe, come succede spesso in giurisprudenza, ci permetteva di avere quello spiraglio attraverso cui provare a passare anche se a noi non è andata bene subito. In prima istanza abbiamo avuto un diniego e poi in appello siamo riuscite ad ottenere l’adozione incrociata perché noi abbiamo partorito, ciascuna di noi, una bimba e abbiamo chiesto di poterle adottare in maniera incrociata.

Tutto l’iter quanto è durato?

Un paio di anni e parecchi soldi. Nonostante le richieste di adozioni in casi particolari possano essere fatte di per sé compilando dei moduli, noi abbiamo dovuto, toccando un ambito così particolare, affidarci a dei legali preparati in materia ed è costato abbastanza, considerando i due gradi di giudizio. Diventa davvero elitaria come procedura.

Da un punto di vista relazionale e simbolico è cambiato qualcosa all’interno del vostro nucleo familiare?

Rispetto alle nostre dinamiche, no. Perché noi per come abbiamo impostato, vissuto e progettato le nostre maternità, eravamo già entrambe madri da subito, da prima ancora che nascessero le bimbe. Certamente però ci ha rasserenato, nel senso che ricordo precisamente il giorno in cui ci diedero l’annuncio; poco dopo vidi mia moglie e la piccola andare via, mano nella mano, le guardai dalle finestra e pensai, finalmente qualsiasi cosa accada da adesso in avanti sono tutelate, adesso forse posso stare un po’ più tranquilla.

A scuola ad esempio noi non abbiamo mai avuto problemi, però il fatto di presentare documenti in cui erano già presenti entrambi i cognomi e non dover pregare per partecipare ai consigli, insomma…un po’ di fatica te la toglie.

 In Italia la legge 40 non riconosce ancora alle coppie omosessuali la possibilità di accedere allo PMA. Qual è l’iter che devono compiere?

Tutte le coppie cercano una clinica all’estero che sia consona all’immaginario o al tipo di percorso che vogliono fare. Che sia più o meno medicalizzata o che risponda ad esigenze di lingua o affinità culturali particolari, ci si rivolge quindi ad un paese piuttosto che ad un altro. Però ti devi comunque mettere nell’ordine di idee di dover andare all’estero, di doverti spostare, di dover calcolare il viaggio in relazione ad i tuoi tempi di fertilità e non ad altre esigenze e che non potrai programmarlo con largo anticipo.

E quali sono le fatiche emotive che le coppie devono affrontare?

Per noi, personalmente è stato poco faticoso, siamo sempre state molto unite, facendo tutto assieme. Dai ritorni che ho da altre coppie la grande fatica è quella ad esempio di voler accompagnare laa tua compagna durante i trattamenti, ma non riuscire a prendere ad esempio le ferie all’ultimo momento. In generale però le fatiche sono tantissime… è vero che quasi tutte le cliniche, sicuramente in Danimarca e Spagna, sono organizzate con ostetriche e dottori che parlano italiano, per cui quando tu vai lì e affronti un percorso così particolare ti puoi affidare a qualcuno che se non altro parla la tua lingua. Però sei comunque in un contesto estraneo, non sei a casa, ti devi sottoporre ad un intervento, e non sei a casa tua, sei un po’ sradicata, non puoi avere vicino la famiglia.

Sono davvero tantissime le fatiche, anche emotive che si sommano a quelle fisiche e all’impatto dei trattamenti sul corpo.

Rispetto al percorso decisionale di avere un figlio quali sono secondo te le difficoltà principali? Penso ad esempio ad aspetti omofobici interiorizzati

Ovviamente ogni coppia e ogni persona è un mondo a sé, per le donne in generale si gioca un aspetto, che è quello del materno che entra in maniera potente in un immaginario di realizzazione esistenziale che devi cercare di combinare con la tua condizione di coppia omosessuale. Questo non sempre è semplice, anche per una omofobia interiorizzata. Rispetto al materno poi lo scontro culturale è, specie in Italia, che si considera che “di mamma ce n’è una sola” per cui spesso al termine del percorso le “madri sociali” fanno fatica a farsi spazio, perché la “madre biologica” fa fatica a lasciare spazio o perché spesso anche le famiglie si inseriscono in queste dinamiche. La famiglia della madre che partorisce riconosce il bambino come il “loro” bambino, mentre l’altra famiglia fa sempre un po’ più fatica, spesso lo definisce “il figlio della tua compagna”. Per raggiungere una situazione di bilanciamento di potere e per sentirsi ugualmente genitore, ci va un grosso lavoro su di sé ed una grossa consapevolezza. Da questo sbilanciamento di potere nascono poi spesso le crisi di coppia che portano a separazioni dolorosissime, spesso violente e per giunta, per le questioni legali di cui parlavamo, con la possibilità di escludere legalmente un genitore oppure di sottrarsi alle proprie responsabilità per l’altro.

In questo si evidenzia il vuoto legislativo che permette il riconoscimento alla nascita di un bambino nato da coppia omosessuale, solo con un atto amministrativo e solo in alcuni Comuni. A Torino, con l’attuale giunta, questo è possibile e nel resto del Piemonte?

Ci sono altri piccoli e grandi Comuni dove questo è possibile, dipende sempre dalla volontà del Sindaco di esporsi sia politicamente che a livello di responsabilità giuridica, perché ci sono state delle sentenze che ad un certo punto hanno un po’ frenato in tutta Italia i Sindaci più intenzionati ad aprire a questa possibilità. Ciononostante alcuni continuano.

 In Piemonte quante sono le famiglie omogenitoriali?

Quelle iscritte a Famiglie Arcobaleno in Piemonte, ma è un dato parziale, sono al momento 150, per la maggior parte donne. Meno di un terzo di questo numero sono di uomini. In realtà, la rappresentatività di questo dato è parziale, la stragrande maggioranza delle famiglie omogenitoriali sono fuori da Famiglie Arcobaleno.

Davvero?

Si, assolutamente. A me capita continuamente di incontrare gente al parco o nei contesti più diversi e scoprire che ho davanti due mamme con figli. Questo mi restituisce, in maniera molto empirica, la dimensione che è un fenomeno ben più ampio.

Una volta nato il bambino, anche in relazione, alla difficoltà di un effettivo riconoscimento del neonato, quali sono le difficoltà che le famiglie riportano?

Dove ci sono Sindaci come la Appendino, quasi nessuno. La difficoltà maggiore l’ha incontrata la prima coppia quando hanno chiesto che venisse riconosciuto il consenso informato firmato nella clinica in Danimarca. Come per le coppie eterosessuali volevano venisse validato il documento dove si assumevano la responsabilità genitoriale nell’affrontare eventuali eventi avversi. Loro volevano far valere questo diritto e sono arrivate, trascorsi 10 giorni, al limite per la riconoscibilità, rischiavano di trasformare loro figlio in apolide, finchè l’ultimo giorno possibile la Appendino è riuscita a trovare il modo amministrativo per far valere questo diritto. Sono stati giorni per Micaela e Chiara di estrema stanchezza e paura, ma anche di profonda determinazione a portare fino in fondo questa battaglia. La più grossa fatica per le coppie è non sapere se il tuo Sindaco ti riconoscerà questa opportunità,

Dalla tua esperienza vengono riportate, se ci sono, delle difficoltà per i bambini?

Per l’esperienza che ho io sia a livello piemontese che nazionale, molto poche, quasi non ne ho sentore. La scuola, che è uno dei contesti che fa più paura a noi grandi, spesso è un contesto in cui le insegnanti stesse si attivano per conoscere, per avere formazione e strumenti per compiere quello che è il loro mandato. Negli ultimi anni questo aspetto positivo della scuola pubblica è stato un po’ inficiato da battaglie politiche che si fanno sulla scuola, per cui è più difficile portare contenuti su cui far lavorare il corpo insegnante e le classi, nel caso di studenti più grandi. Questo però almeno al momento non arriva, non ha ripercussioni sui bambini, anche se è chiaro che se la rappresentazione rimarrà statica e univoca questo avrò delle ripercussioni. Al momento comunque non ho sentore di insegnanti che rifiutano il fatto di trovarsi di fronte ad una famiglia omogenitoriale o di parlare con entrambe le madri o i padri.

Talvolta una delle paure riportate dagli adulti è nel confronto tra pari, che i figli passano essere discriminati dagli altri bambini.

Io penso sia più la cattiveria degli adulti che parla attraverso i bambini. Nella nostra esperienza gli amici e le amiche delle mie figlie al massimo sono stati curiosi. In prima elementare un bambino disse e mia figlia, “ma non è possibile che tu abbia due mamme!”, lei un po’ stupita disse “quando vedi mia mamma prova a chiederglielo”. Lui alla prima festa di compleanno venne a chiedermelo ed io ho spiegato, come potevo ad un bambino di 6 anni, sperando di non urtare la sensibilità dei genitori, come era stata possibile la cosa.

Il problema è anche che per gli adulti ci sono dei temi che sono tabù. Anche se non sono così contrari alle famiglie omogenitoriali, parlare di questo argomento significa anche parlare della riproduzione, della sessualità o di come sono fatti gli esseri umani ed in questo vedo gli adulti tanto spaventati.

Prima parlavi di consapevolezza, dal tuo punto di vista se e in che modo può essere utile alle coppie uno spazio di elaborazione e sostegno emotivo?

Durante il percorso, tantissimo anche per gli sbilanciamenti di cui parlavamo prima. Non c’è solo un modo per essere genitori o di esserlo insieme. Guadagnare consapevolezza attraverso un percorso psicologico farebbe solo bene e poi forse anche dopo il parto, proprio come sostegno familiare. Le famiglie omogenitoriali, purtroppo raramente si sentono sicure nell’andare a chiedere aiuto, anche nelle strutture pubbliche, per paura di trovarsi di fronte a persone con pregiudizi o non preparate alla loro realtà. Per cui alla fine proprio che avrebbe bisogno di un aiuto di qualsiasi tipo spesso non si rivolge ad uno specialista si trova a dover fare tutto da solo.

Credo che anche in questo ambito si inserisca l’attività di Famiglie Arcobaleno, nel non lasciare sole le famiglie.

Famiglie Arcobaleno cerca di dare un sostegno nel fare comunità, anche se non siamo strutturati per fornire servizi di supporto psicologico. Il fare comunità si crea in relazione spesso all’età dei figli; è chiaro che figli di età diverse hanno esigenze diverse e i genitori di conseguenza, anche. Mi ricordo soprattutto quando le bimbe erano piccole c’era bisogno di un rispecchiamento, sia per far vedere alle bambine che non erano le uniche ad avere due madri, ma per sentirci noi meno sole, meno marziane. Vedo che anche adesso le richieste che arrivano in associazione sono di fare comunità, di confrontarsi sulle difficoltà che si incontrano, di condividere le esperienze.

Ti chiedo infine il tuo parere sul DDL Zan e sull’ostracismo che incontra. Che idea ti sei fatta?

Beh, da alcune forze politiche me lo aspetto, per motivazioni più politiche che ideologiche. Ci sono equilibri politici, interessi e questi sono argomenti che servono a smuovere quegli interessi. Per pochissimi penso sia una questione ideologica, come in fondo è successo con la legge sulle unioni civili.

Questo può voler dire che le persone, cosiddette comuni, sono più pronte a parlare di omogenitorialità rispetto alla politica?

Io le persone comuni in generale le trovo molto più pronte, anche soltanto a confrontarsi. È vero che ci sono persone che hanno da un punto di vista valoriale delle resistenze, però si può trovare uno spazio di confronto. È trovarsi di fronte alla complessità della vita reale e imparare a gestirla insieme anche attraverso la relazione e la conoscenza reciproca.

D. Vassallo – Vice Presidente Famiglie Arcobaleno

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta

La gratitudine per fronteggiare le insidie della vita

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Il dizionario Treccani definisce la gratitudine come un sentimento che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare. Le ricerche focalizzate sul benessere psicologico considerano però che tale disposizione d’animo non sia rivolta esclusivamente alla riconoscenza verso l’altro ma che riguardi anche l’abitudine di rivolgere il proprio sguardo alle piccole cose belle della vita.

La gratitudine può dunque essere considerata un’emozione quando implica uno stato temporaneo nei confronti di situazioni/risultati in cui il successo sperimentato è vissuto come non dipendente da noi, ad esempio la vicinanza di una persona amata o l’apprezzamento di un gesto altruistico nei nostri confronti. Essa rappresenta invece un tratto di personalità più stabile quando fa riferimento alla predisposizione a notare “il lato positivo”.

In quest’ultima accezione, assume una certa rilevanza se connessa al concetto di resilienza, in quanto la tendenza alla gratitudine potrebbe rappresentare un punto di forza nel fronteggiamento di eventi di vita avversi e in ultima istanza un fattore protettivo rispetto alla vulnerabilità a patologie mentali.

Studi di neuroimmagine hanno portato a descrivere la gratitudine come un fenomeno determinato dalla collaborazione di più aree cerebrali coinvolte in riconoscimento, interpretazione, valutazione e risposta a stimoli emozionali o cognitivi, sia interni che esterni. Alcuni autori hanno poi osservato come esercizi di gratitudine modifichino l’attivazione del circuito della ricompensa.

Date queste premesse, negli ultimi anni molte ricerche si sono focalizzate sull’analisi dei benefici apportati da percorsi focalizzati sulla gratitudine in popolazioni cliniche e non.

Alcuni studi hanno dimostrato l’efficacia di interventi basati sulla gratitudine in individui a rischio suicidario e in pazienti oncologici nella riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva. Altri si sono concentrati sugli effetti di questi training nella popolazione generale. Sebbene la ricerca in questo ambito sia ancora a uno stato embrionale, i primi risultati appaiono promettenti.

Allenarsi alla gratitudine può, come si diceva prima, potenziare la capacità di affrontare piccole e grandi sfide ampliando le risorse psicologiche e sociali, riducendo i livelli di attivazione fisiologica e di ansia, incrementando la fiducia in se stessi e la sensazione di ”potercela fare” (autoefficacia percepita). In caso di insuccesso, può inoltre offrire la possibilità di normalizzare l’accaduto, lasciando poco spazio a distorsioni cognitive come la catastrofizzazione (“Non ne uscirò mai più!”) o il pensiero tutto-o-nulla (“Ho commesso un errore, sono un fallito!”).

Ma come allenarsi ad essere grati, dunque?

La strategia più nota riguarda la compilazione giornaliera di un diario della gratitudine in cui annotare, a fine giornata, da 3 a 5 cose per cui ci si sente grati in quel giorno. Inizialmente potrebbe apparire artificioso, ma concedersi il tempo di osservare le piccole cose belle quotidiane offre la possibilità di notare con sempre maggiore naturalezza (grazie all’allenamento!) come, affianco ai problemi e agli impegni giornalieri, trovino spazio anche piccoli momenti di gioia che spesso diamo per scontati (fare colazione con i nostri biscotti preferiti, incontrare un autista che vedendoci correre incontro all’autobus, decide di attenderci prima di ripartire, etc.). La nostra testa è allenata a scovare problemi, individuare soluzioni e garantirci così la sopravvivenza, ma affiancare al problem solving momenti di gratitudine potrebbe alleggerire la nostra quota di stress.

Un altro strumento per allenare la gratitudine è quello della lettera a un proprio caro. Si tratta di concedersi dieci-quindici minuti per scrivere a qualcuno le ragioni per cui gli siamo riconoscenti. Decidere di consegnare la lettera potrebbe implicare un rischio perché non è detto che le aspettative che inevitabilmente si creano rispetto a questa condivisione verranno soddisfatte ed è per questo che il diario rappresenta la scelta più popolare quando si tratta di esercizi di gratitudine.

Il “training di gratitudine” presenta però anche delle controindicazioni: in alcune popolazioni non appare efficace (es.: in individui che abbiano una dipendenza dall’alcol) ed è stato descritto come, specie in una fase iniziale, potrebbe indurre le persone a sperimentare sentimenti di colpa e vergogna e a sentirsi in debito nei confronti di ciò o di coloro verso i quali sono grati. Nonostante questo, allenarsi a riconoscere le piccole “grazie” quotidiane potrebbe avere ricadute positive sul benessere psicologico e sociale, sulla gestione di emozioni, pensieri ed eventi negativi e sull’abilità di coltivare i valori su cui si intende basare la propria vita.

Dr,ssa Arianna Calabrese

Bibliografia e sitografia

  • https://www.treccani.it
  • Cunha, L.F., Pellanda, L.C., Reppold, C.T. (2019) Positive Psychology and Gratitude Interventions: A Randomized Clinical Trial. Frontiers in Psychology. 21, 10:584.
  • Davis, D.E., Choe, E., Meyers, J., Wade, N., Varjas, K., Gifford, A., Quinn, A., Hook, J.N., Van Tongeren, D.R., Griffin, B.J., Worthington, E.L. (2016). Thankful for the little things: A meta-analysis of gratitude interventions. Journal of Counseling Psychology. 63(1), 20-31.
  • Ducasse, D., Dassa, D., Courtet, P., Brand-Arpon, V., Walter, A., Guillaume, S., Jaussent, I., Olié, E. (2019). Gratitude diary for the management of suicidal inpatients: A randomized controlled trial. Depression and Anxiety, 36(5), 400-411.
  • Harris, R. (2011). Act made simple. (Miselli, G., Zucchi, G., trans.) Oakland: New Harbinger Publications (original work published in 2009).
  • O’Leary, K., Dockray, S. (2015). The effects of two novel gratitude and mindfulness interventions on well-being. Journal of Alternative ad Complementary Medicine, 21(4), 243-245.
  • Sztachańska, J., Krejtz, I., Nezlek, J.B. (2019). Using a gratitude intervention to improve the lives of women with breast cancer: A daily diary study. Frontiers in Psychology, 10, 1-11.
  • Tala, A. (2019). Thanks for everything: a review on gratitude from neurobiology to clinic. Revista Médica de Chile. 147(6), 755-761.

Flash Technique Sfiorare i ricordi traumatici per elaborarli

La Flash Technique (FT) è una tecnica recente utilizzata per facilitare l’elaborazione di esperienze di vita traumatiche o estremamente dolorose. Inserita all’interno di un percorso di psicoterapia, la FT permette di accedere in modo graduale a quei ricordi che al solo ripensarci, riattivano la stessa
intensità emotiva vissuta al momento del trauma, generando quell’angoscia che si cerca in tutti i modi di allontanare.
La FT si può utilizzare con qualsiasi tipo di pazienti, a prescindere dall’età. È breve e risulta efficace per disturbi come ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, dissociazione lieve e depressione (Manfield et al. 2017). La caratteristica distintiva di questa tecnica è mettere il paziente nella condizione di poter elaborare un ricordo altamente disturbante riducendo l’intensità emotiva che tale ricordo genera. Si tratta di “sfiorare” il ricordo senza doverci pensare in modo consapevole.
La FT nasce grazie al tentativo di Philip Manfield di trovare una strategia da inserire nella fase di preparazione dell’EMDR (Eye Movment Desensitization and Reprocessing) vale a dire, all’interno di quel trattamento riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come efficace per
l’elaborazione di eventi di vita traumatici. L’idea di Manfield era trovare un modo per permettere ai pazienti, durante l’EMDR, di elaborare le proprie memorie traumatiche senza bloccarsi o esserne sopraffatti (Manfield et al. 2017). Per fare questo, P. Manfield si è ispirato alla tecnica della
“Titolazione Abbinata” di Krystyna Kinowski (2003) adattamento a sua volta, dell’esercizio della Pendolazione di Peter Levine. La tecnica della “Titolazione Abbinata” permetteva al paziente di individuare un’immagine positiva (risorsa) per aiutarlo a sentirsi più resiliente, e limitare
l’esposizione al materiale traumatico. Nel protocollo della Kinowski, i pazienti erano invitati a spostarsi ripetutamente dalla risorsa al materiale traumatico e viceversa valutando, se ogni contatto con il ricordo fosse troppo intenso e verificando se il paziente riportava difficoltà nel ritornare
all’immagine-risorsa. Questo movimento veniva eseguito proprio come un pendolo. L’idea di base era quella di “titolare” i ricordi altamente disturbanti, vale a dire avvicinarsi gentilmente, “goccia a goccia” all’esperienza traumatica, per ridurre e contenere l’attivazione emotiva, acquisendo un maggiore senso di efficacia e controllo (P. Levine, 1997).
Con il passare del tempo, P. Manfield osservò che questo tipo di tecnica, associata a delle esposizioni molto brevi ai ricordi traumatici, sembrava accelerare in modo significativo l’elaborazione degli stessi ricordi, riducendone il disturbo. Questa osservazione è ciò che ha poi, determinato il nome stesso della tecnica: “Flash Technique.”
Dagli studi condotti per testare tale ipotesi, P. Manfield ha ipotizzato che i risultati rapidi ottenuti potessero dipendere da tre possibili fenomeni:
1. un’elaborazione “non verbalizzabile” (subliminale) 2. una modificazione del processo di riconsolidamento della memoria 3. essere l’osservatore dell’esperienza Per comprendere meglio l’ipotesi dell’elaborazione “non verbalizzabile”, Manfield ha utilizzato gli studi condotti da P. Siegel dal 2009 sino al 2018 sugli “stimoli non riferibili”.
Dalle ricerche condotte su soggetti aracnofobici, Siegel aveva rilevato che l’esposizione rapida a immagini di ragni, portava ad una diminuzione della risposta di paura. L’essere esposti ad uno stimolo in modo molto rapido infatti, sembrerebbe indurre chi guarda a credere di non aver visto
nulla. Questo tipo di esperienza, rende difficile verbalizzare l’accaduto in quanto non si è pienamente consapevoli. Siegel ha chiamato questa sensazione “osservazione non verbalizzabile”.
Per suffragare tale idea, studi successivi con la risonanza magnetica funzionale, hanno permesso di rilevare che l’amigdala di quei soggetti a cui era stata proiettata l’immagine del ragno così rapidamente, non si era attivata, non mostrando alcuna risposta. L’amigdala è quella parte del nostro
cervello che svolge un ruolo cruciale nella formazione e memorizzazione dei ricordi associati a stati emotivi, elabora le nostre emozioni e le nostre risposte istintive. L’amgidala inoltre, è il nostro rilevatore rapido di pericolo. Ci avverte della presenza di un’eventuale minaccia alla nostra
sopravvivenza. A volte, può capitare che si attivi anche dinanzi ad un pericolo non reale ma a farlo sembrare tale, diventa una sensazione, un’emozione, un pensiero o uno stesso ricordo. Quando l’attivazione diventa intensa può arrivare a disconnettere le nostre funzioni cognitivi. La sede di tali funzioni quindi, dei nostri pensieri, è la corteccia prefrontale che gioca un ruolo importante durante i processi di elaborazione dei ricordi traumatici se particolarmente attiva. Durante l’elaborazione di un evento traumatico, le aree della corteccia prefrontale vengono alterate dall’intensità emotiva generata dal ricordo rievocato, causando sofferenza. Con la FT le aree del cervello che elaborano il trauma possono essere attive senza che il paziente provi alcun disturbo perché esposto al ricordo in modo subliminale. Non essendo consapevole dell’esposizione al ricordo, non riuscirà a riferire ciò che ha visto o sentito e di conseguenza, a non attivarsi particolarmente a livello emotivo. L’obiettivo della FT è far in modo che il paziente acceda al ricordo così velocemente da non consentirgli di riportare un’esperienza verbalizzabile (Manfield et al., 2017).
Per rendere questo possibile, è stato introdotto un aspetto significativo del protocollo di lavoro ovvero, la metafora del “battito d’occhio”, il battito di ciglia, il “Flash”. Durante la fase di preparazione alla FT, quella in cui si spiega al paziente il modo in cui si procederà, il flash viene paragonato ad un dito che passa attraverso una fiamma di una candela. Se fatto rapidamente, non dovrebbe causare alcun dolore (Manfield et al., 2017).
Per avvalorare la FT, Manfield ha utilizzato oltre, all’elaborazione “non verbalizzabile”, anche le teorie del riconsolidamento della memoria vale a dire, la capacità del nostro cervello di modificare specifici apprendimenti emotivi, immagazzinati nella memoria a lungo termine, attraverso una ricodifica (D.J. Wallin, 2007). Ogni volta che pensiamo ad un evento del nostro passato infatti, il ricordo, dopo essere stata rievocato, viene riposizionamento all’interno di uno dei cassetti della nostra mente. Solitamente, un ricordo normale è instabile e viene modificato ad ogni recupero perché influenzato dal contesto e dagli stati emotivi. Questo non è il caso dei ricordi traumatici. Il ricordo traumatico infatti, rimane bloccato nelle reti neurali poiché contrassegnato dal cervello come un ricordo legato alla sopravvivenza e il nostro cervello è programmato per tenere traccia di questo genere di ricordi. Fino agli anni ’80 si riteneva impossibile poter modificare un ricordo traumtico. Oggi sappiamo che non è così grazie proprio alla scoperta di F. Shapiro che è riuscita a dimostrare che con l’EMDR, è possibile elaborare un ricordo traumatico. In questo modo, è possibile lasciare nel passato il passato quindi, sensazioni fisiche spiacevoli, emozioni disturbanti e credenze di sé negative legate al momento del trauma. Questo tipo di elaborazione è stata definita da Bruce Ecker come “cambiamento transformazionale” (Ecker, 2012) .
Secondo B. Ecker e colleghi se l’attenzione viene distolta dall’intensità emotiva generata da quel ricordo specifico, nel momemto in cui tale ricordo verrà riposizionato nella nostra memoria (riconsolidato) non porterà più con sé l’intensità emotiva iniziale. Con molta probabilità, sarà
inferiore all’originale e quindi, meno disturbante (Scarito, 2021).
Ecker et al. (2012) e Lee (2009) inoltre, hanno sottolineato che per rendere efficace un processo di riconsolidamento della memoria è necessario che sia presente un’esperienza contraddittoria ovvero, venga rilevato il cosiddetto “errore di previsione” (Manfield). Per comprendere meglio questo
concetto, immaginiamo una persona che cammina nei boschi e ad un certo punto viene assalita da un lupo. Molto probabilmente si spaventerà. La paura è l’emozione che ci avvisa che siamo di fronte ad un pericolo e serve per attivarci in modo da garantirci la sopravvivenza attraverso la fuga, la
lotta, il freezing o la finta morte. Scampato al pericolo, la sua mente registrerà tale esperienza e di conseguenza, ogni volta che entrerà in un bosco, il suo sistema di allerta sarà attivato in modo da garantirgli la sopravvivenza. Tuttavia, se camminando nei boschi e sentendo dei rumori tra gli alberi
non si spaventerà come la prima volta, il cervello si troverà a dover rivedere il ricordo precedentemente immagazzinato e ricodificarlo a causa di questa incongruenza o meglio, a causa di questo errore di previsione. Con la FT la persona rievoca il ricordo senza essere attivata e questo
rappresenta “un grande errore di previsione” (Menfield).
Infine, l’ultimo fenomeno utilizzato da Manfield, per spiegare i risultati ottenuti con la FT, è quello della posizione dell’osservatore. L’ideatrice dell’EMDR, F. Shapiro ha sostenuto che se si permette al paziente di assumere la posizione dell’osservatore nei confronti del ricordo traumatico, vale a dire rimanere orientato nel presente, si aumenta la sua prospettiva adattiva, e di conseguenza, la sua consapevolezza. Questo tipo di ancoramento aiuta ad evitare di rivivere l’esperienza dolorosa legata all’evento traumatico in quanto, esperienza legata al passato e non più correlata al presente. Il
modello di Shapiro (2019) applicato alla FT rende possibile l’instaurarsi di nuove associazioni tra il ricordo traumatico e l’esperienza adattiva di rielaborazione (Manfield et al. 2017).
Tuttavia, come ogni nuova tecnica, esistono dei limiti. Nonostante la FT sembri ridurre il disturbo, le ricerche hanno evidenziato che potrebbe non elaborare in modo completo i ricordi o non
eliminare del tutto il disturbo correlato al ricordo traumatico. Inoltre, non essendoci una fase di assessment prima di iniziare con l’elaborazione, non è possibile identificare eventuali ricordi generatori che potrebbero bloccare l’elaborazione o potrebbero esserci delle distorsioni cognitive
che, non essendo state identificate in precedenza, non possono essere chiarite. Infine, pazienti altamente dissociativi che hanno bisogno di un maggiore sostegno prima di focalizzarsi sul materiale disturbante, per poter raggiungere uno stato di calma e sicurezza, potrebbero trovare
questa tecnica non efficace (Manfield et al., 2017).
Negli ultimi decenni, si è assistito ad un aumento esponenziale della ricerca nel campo del trauma e dei trattamenti correlati. Ad oggi, nonostante il trattamento per eccellenza, riconosciuto dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, resti l’EMDR, l’idea che possano esserci delle tecniche
aggiuntive che possano mettere il paziente nella condizione di rendere più tollerabile e gestibile quello che un’esperienza di vita impattante come il trauma possa avere, è senza dubbio un bene per la collettività clinica che ha come obiettivo l’interesse e la salute dei suoi pazienti.

Dott.ssa Antonia Di Pierro
Psicologa e Psicoterapeuta

Bibliografia
Ecker, B., Ticic, R., Hulley, L. (2012). Sbloccare il cervello emotivo. Eliminare i sintomi alla radice
utilizzando il riconsolidamento della memoria. Franco Angeli.
Kinowski, K. (2003). Put your best foot forward: An EMDRrelated protocol for empowerment using somatosensory and
visual priming of resource experiences.
Lee, J. L. (2009). Reconsolidation: Maintaining memory relevance. Trends in Neurosciences,
Manfield P., Lovet J., Engel L., Manfield D. (2017). Utilizzo della Flash Technique con la Terapia EMDR: Quattro
Casi Clinici
Levine, P. (1997) The Body as Healer; Trasformare il trauma. (tradotto e pubblicato da Macro Edizioni nell’ott. 2002
col titolo “Traumi e shock emotivi).
Scarito, P. (2021). Il riconsolidamento della memoria. Verso un modello unificato di cambiamento in psicoterapia.
Phenomena Journal.
Shapiro, F. (2019). EMDR: il manuale. Principi fondamentali, protocolli e procedure (nuova edizione). Cortino
Raffaello.
Wallin, D.J. (2007). Psicoterapia e teoria dell’attaccamento. Il Mulino.

Fobia dei clown? Non c’è niente da ridere!

Il termine coulrofobia deriva dal greco e fa riferimento alla paura per coloro che camminano su trampoli, anche se oggi è utilizzata tipicamente per descrivere la paura dei pagliacci. Nonostante il pagliaccio sia un personaggio che dovrebbe risultare simpatico, soprattutto ai più piccoli, per taluni invece rappresenta un’entità indefinita e ambigua e, pertanto, in grado di creare turbamento.

Pensare che ci siano persone fobiche rispetto ai clown potrebbe far sorridere qualcuno, tuttavia questa fobia pare avere una certa diffusione tra la popolazione, soprattutto americana e canadese. La maggior parte dei casi registrati riguarda la popolazione in età evolutiva, anche se si registrano casi anche tra adolescenti e giovani adulti.

Del resto, il nostro immaginario letterario e cinematografico è ricco di pagliacci terrificanti e malvagi, che hanno occupato i nostri incubi e si sono nutriti delle nostre inquietudini. Ma da qui si potrebbe aprire una riflessione sull’arte e su come essa inneschi le nostre paure o, al contrario, su come invece le nostre paure siano ispirate dalla realtà e trovino nel racconto artistico una propria rappresentazione.

A tal proposito cito la storia di Jean-Gaspard Deburau (1796-1846), attore teatrale e mimo francese che impersonò Pierrot a partire dal 1826 al Théâtre des Funambules di Parigi. Nel 1836 Deburau uccise con il suo bastone da passeggio un ragazzo che lo aveva insultato per strada: nel processo venne dichiarato innocente, ma l’idea di omicidio iniziò a legarsi alla figura del clown.

Ancora più inquietante è la storia di John Wayne Gacy, pagliaccio intrattenitore in feste per bambini conosciuto come Pogo il clown, che tra il 1972 ed il 1978 uccise 33 ragazzi e fu condannato alla pena di morte.

Le persone che soffrono di coulrofobia fanno fatica a relazionarsi con i clown e talvolta anche soltanto a guardarli, avvertendo una sensazione di angoscia che può sfociare nel panico e che fa da innesco a comportamenti difensivi di fuga da una minaccia percepita. Solitamente tali comportamenti vengono vissuti con vergogna dalla persona, che teme che la sua paura possa venire ridicolizzata dagli altri.

In riferimento al perché la figura del clown sia vissuta in termini così negativi da alcuni soggetti, pare che la coulrofobia derivi dal fatto che non è possibile sapere esattamente cosa c’è sotto il trucco colorato, elemento quindi che produrrebbe incertezza e apprensione nei courlofobici.

Si è inoltre ipotizzato che alla base della fobia ci sia il fenomeno dell’uncanny valley (“valle perturbante”), ossia una condizione emotiva negativa che si presenta quando ci imbattiamo in un soggetto che è quasi, ma non del tutto, umano. Tale fenomeno, descritto inizialmente in riferimento ai robot con sembianze umane, pare essere applicabile anche alle bambole e, appunto, ai clown.

Inoltre, i pagliacci sono nascosti dietro maschere, trucco e costumi e hanno un sorriso perenne che nasconde un’emotività distorta (si può sorridere sempre, anche quando si commettono azioni negative?); di conseguenza, l’origine della fobia può essere trovata nel rifiuto di un personaggio che potrebbe nascondere le sue reali intenzioni.

La courlofobia, al pari delle altre fobie, può essere trattata al fine di ridurre o eliminare l’ansia che il soggetto prova ed impedire che i meccanismi difensivi di fuga vengano agiti. Prima di intervenire sarà necessaria una valutazione psicologica che tenga in conto la presenza di un eventuale trauma che ha interessato il soggetto. Sarà poi lo specialista a proporre il trattamento psicoterapeutico che ritiene più appropriato.

 

Dott. Stefano Lagona – Psicologo Psicoterapeuta

LA RIBELLIONE DEL COSTUME

Le proteste delle atlete olimpioniche norvegesi che si sono opposte ad indossare divise succinte durante la competizione di Handball e la scelta di una tuta lunga da parte delle ginnaste tedesche mi hanno permesso di approfondire alcuni temi, come ad esempio: la storia delle donne alle Olimpiadi; la storia dell’abbigliamento sportivo attraverso i secoli; i regolamenti circa le divise sportive; il body shaming nello sport; il drop-out sportivo in adolescenza.

Com’è noto, le Olimpiadi antiche (svolte dal 776 a.C. al 393 d.C.) così come quelle moderne (dal 1896 ad oggi) sono state e sono la cartina al tornasole del costume della società del tempo. Con il termine costume ci si riferisce al modo consueto di agire, di pensare, di comportarsi di una persona; pertanto i giochi olimpici hanno risentito della cultura del secolo in cui si sono disputati, sono stati teatro di avvenimenti simbolici che hanno fornito occasione di riflessione, confronto e cambiamento.

In origine le donne non potevano partecipare alle Olimpiadi, nemmeno come spettatrici, pena la morte. Si deve allo scrittore Pausania il Periegeta la prima documentazione di una gara femminile, infatti nel VI secolo a.C. si era tenuta la prima edizione dei Giochi Ereidi, ovvero gare di atletica femminile. Generalmente gli uomini gareggiavano nudi, le donne indossavano il chitone, cioè una tunica lunga fino al ginocchio che lasciava scoperti la spalla ed il seno destro. Questo era un abito maschile usato o durante l’estate o per svolgere lavori di fatica. Solo le donne spartane erano incoraggiate ad essere atlete, poichè si riteneva che donne forti avrebbero generato uomini forti, si trattava di ragazze nubili che gareggiavano nude e agli uomini era consentito assistere.

Il barone Pierre de Coubertin è riconosciuto come il padre delle Olimpiadi moderne, ma si deve al lavoro e alla tenacia di Alice Milliat l’apertura delle Olimpiadi alle donne. Sebbene già nel 1900 alcune donne avessero partecipato alle Olimpiadi in maniera non ufficiale per tennis, croquet e vela, e nel 1912 in gare di tiro con l’arco, pattinaggio, vela, tennis e competizioni con imbarcazioni a motore, fu necessario attendere il 1920 affinché potessero gareggiare in maniera ufficiale. Nel 1922 Milliat inaugurò l’Olimpiade delle donne, ella fu la prima a dire a gran voce che lo sport aveva benefici psico-fisici, aiutava a prendere coraggio e coscienza del proprio corpo: pensiero assai innovativo per l’epoca in cui le donne erano escluse dalla vita politica, erano ritenute incapaci di agire secondo ragione, erano sottoposte alla potestà del marito e non godevano degli stessi diritti degli uomini né in famiglia nè all’interno della società. A inizio ‘900, le donne che praticavano sport erano considerate delle fanatiche e delle selvagge, a volte “malate di mente”; e lo stesso barone sbeffeggiava la presenza femminile e ridicolizzava il lavoro di Milliat, le Coubertin dichiarava: “La partecipazione femminile sarebbe poco pratica, priva di interesse, scorretta e antiestetica”. Il vero cambiamento avvenne tra il 1926 e il 1936 quando finalmente si aggiunsero gare femminili per le principali discipline olimpiche.

All’epoca non esisteva un adeguato abbigliamento sportivo femminile e per non dar adito a maldicenze e per non suscitare “scandali”, le donne erano costrette ad indossare vestiti lunghi, con maniche lunghe e collo alto, e gonne ingombranti: erano tenute a mantenere il decoro, era impensabile vedere i loro capelli spettinati, il viso arrossato ed era ritenuto scandaloso il corpo che compiva gesti atletici. Gli uomini, invece, indossavano maglie in cotone e shorts.

A cavallo tra gli anni ’20 e ’30 iniziò il connubio tra moda e sport, nomi come Elsa Schiaparelli e Coco Chanel, che introdusse la moda à la garçonne, contribuirono a rendere l’abbigliamento sportivo femminile più adatto alla pratica; e la tennista Suzanne Lenglen, per prima, si presentò in campo con una gonna leggera sopra il polpaccio, destando scalpore. Le Olimpiadi del 1936 introdussero un abbigliamento sportivo più casual: si iniziano a utilizzare tessuti traspiranti e jersey, tute, top e canotte diventano i capi più utilizzati.

Leggendo il IX Regolamento di Gioco redatto dalla International Handball Federation del 2014 nella sezione dedicata alle divise si legge: “Le uniformi e gli accessori contribuiscono ad aiutare gli atleti a migliorare le proprie prestazioni e a rimanere coerenti con l’immagine accattivante dello sportivo e dello sport”; e poi: “[…]La Canotta degli uomini deve essere senza maniche, attillata e rispettare lo spazio per le stampature richieste. Il Top delle donne (un costume da bagno modello 2 pezzi) deve essere molto aderente, con profonda apertura giromanica sul retro, sempre però rispettando lo spazio per le stampature richieste. Non sono consentite T-shirt da indossare sotto La Canotta o Top ufficiale della squadra”.

Facendo riferimento al dizionario della Treccani ecco il significato di alcune parole:

Accattivante: Attraente, che suscita interesse e simpatia

Attraente: Seducente

Sport: Attività intesa a sviluppare le capacità fisiche e insieme psichiche, e il complesso degli esercizi e delle manifestazioni, soprattutto agonistiche, in cui tale attività si realizza, praticati nel rispetto di regole codificate da appositi enti, sia per spirito competitivo (accompagnandosi o differenziandosi, così, dal gioco in senso proprio), sia, fin dalle origini, per divertimento, senza quindi il carattere di necessità, di obbligo, proprio di ogni attività lavorativa

L’azione delle atlete norvegesi quindi va a muovere un tassello importante che pone l’accento sullo sport e non sulla sessualizzazione del corpo, la loro scelta infatti non ha penalizzato la praticità, ma forse l’ha promossa permettendo alle atlete di sentirsi a proprio agio.

Anche il ritiro della nuotatrice M. Groves, per denunciare gli atteggiamenti e le azioni indiscrete e abusanti di cui è stata vittima, è stato un altro passo importante che ha messo in luce quanto possa essere complessa, anche sotto questo punto di vista, la vita delle atlete.

Le condizioni sopra descritte possono contribuire all’oggettivizzazione sessuale della donna. Con questo termine, coniato da I. Kant, ci si riferisce al considerare una persona solo come mezzo di soddisfacimento del piacere sessuale di un altro soggetto. Fredrikson e Roberts nel 1977 introdussero la “Teoria dell’oggettivazione sessuale” in ambito psicologico e ne discussero le conseguenze.

Una recente ricerca ha evidenziato che il 24% dei commenti sui social riferito ad un’atleta donna è inerente al suo aspetto fisico piuttosto che alla performance, mentre per gli uomini il 9%.

Il body shaming, cioè la derisione per l’aspetto fisico, è oggi un tema scottante soprattutto tra gli adolescenti. Da una recente ricerca, condotta da Nutrimente Onlus, è emerso che il 94% delle ragazze, riferisce di essere stata vittima di tale fenomeno, ed il 65% dei ragazzi di essere stato umiliato pubblicamente per la stessa ragione.

Questo è un tassello importante che porta al tema del drop-out sportivo, soprattutto femminile, in adolescenza. Infatti il 40% degli adolescenti di età compresa tra i 13 e 14 anni non pratica nessuna attività sportiva ed il 57% sono ragazze.

L’adolescenza è un periodo di trasformazione fisica e mentale, spesso ci si trova a contatto con un corpo nuovo, che cambia e si trasforma, talvolta in modo imprevedibile. Può succedere che gli adolescenti sentano la necessità di mascherare questi cambiamenti, anche solo temporaneamente come per prenderne confidenza, talvolta però il disagio può trasformarsi in una sofferenza importante che può richiedere un percorso psicoterapeutico. Quindi, a volte, fare sport e indossare indumenti troppo aderenti o con i quali non ci si sente a proprio agio può essere uno dei fattori che fa allontanare dall’attività.

Inoltre, i potenti stereotipi culturali in merito alla bellezza promossi dai media, e non solo, penalizzano i fisici delle agoniste promuovendo invece un’estetica vittoriana.

Le ginnaste olimpioniche tedesche, decidendo di indossare divise dai pantaloni lunghi (detti accademici), hanno ribadito un importante messaggio, già lanciato in precedenza da altre ginnaste, per ribellarsi alla sessualizzazione dei corpi delle atlete; oltretutto questa scelta le tutela da eventuali spiacevoli incidenti che potrebbero causare loro imbarazzo, dal momento aggiustare il body durante la gara comporta delle penalità. La promozione di un abbigliamento che faccia sentire a proprio agio ha anche l’obiettivo di avvicinare le giovani alla pratica sportiva contrastando anche il fenomeno del drop-out.

Cambiare costume si può ed è responsabilità di ciascuno di noi.

Dr.ssa Debora Tonello

Bibliografia e sitografia

  • Paola Carbone (2010): L’adolescente prende corpo. Il pensiero scientifico editore.
  • Elena Riva (2009) Adolescenza e anoressia. Corpo, genere, soggetto. Raffaello Cortina Editore
  • Giuseppe Vercelli (2016). Vincere con la mente. Come si diventa campioni: lo stato della massima prestazione. Ponte alle Grazie
  • Eva Cantarella, Ettore Miraglia (2021). Le protagoniste. L’emancipazione femminile attraverso lo sport. Feltrinelli
  • Piano Nazionale per la Promozione dell’Attività Sportiva, Tangos (Tavolo Nazionale per la Promozione nello Sport) settembre 2012
  • Indagine annuale “Aspetti dela Vita Quotidiana”, Istat anni 2012 e 2011
  • Educazione Fisica e sport a scuola in Europa, Eurydice (Commissione Europea) 2013
  • nutrimente.org
  • treccani.it

 

 

 

 

 

I disturbi del desiderio sessuale

Oggigiorno, la nostra società è bombardata da un modello basato essenzialmente sull’apparenza, la bellezza, il denaro, modelli che risultano sempre più difficili da raggiungere. In ambito sessuale, l’attenzione ormai viene data principalmente alla prestazione dimenticandosi dell’origine dell’atto sessuale; il toccare, l’entrare in sintonia con l’altro, il focalizzarsi sul vissuto soggettivo del piacere. Le disfunzioni sessuali, soprattutto nelle relazioni di coppia, diventano sempre più sintomo di incomunicabilità tra i partner.

Nella vita sessuale dell’uomo, a differenza di quella degli animali, troviamo implicata tutta la sfera affettiva dell’individuo, ed è proprio questo che permette di cogliere tutta la complessità delle funzioni che vi sono alla base, cioè quelle funzioni di riproduzione e di piacere.

Si può osservare come nell’animale questi sistemi interagiscono sinergicamente tra di loro in un comportamento stereotipato e istintivo, mentre nell’uomo intervengono anche componenti psicologiche, norme sociali e culturali che andranno a influire in maniere diversa sul vissuto che l’individuo avrà della propria esperienza sessuale. La complessità dell’uomo porta inevitabilmente a un’indubbia risonanza nella dimensione patologica.

Il desiderio sessuale è l’espressione di una funzione associativa complessa; questa fase è attivata da stimoli che possono essere sia endogeni che esogeni, che non faranno altro che indurre l’individuo al comportamento sessuale. Degli stimoli endogeni, fanno parte l’immaginario erotico, le fantasie sessuali spontanee e volontarie e le emozioni. Mentre, gli stimoli esogeni sono segnali veicolati attraverso gli organi di senso che possono essere percepiti dall’individuo come attraenti.

La fase del desiderio è un processo multidimensionale, infatti sono importanti i fattori motivazionali, affettivi, cognitivi e stimoli biologici e istintuali che fanno parte del bagaglio evolutivo dell’uomo.

Quindi si può definire il desiderio sessuale come la risultante di fattori biologici, psicologici e relazionali. Rappresenta importanti significati affettivi e relazionali, come espressione di amore e passione, è un vero e proprio termometro della qualità della relazione. Il desiderio è un processo che varia lungo un continuum che parte dalla passione, all’interesse, al bisogno.

Sia negli uomini che nelle donne declina con l’età con una valenza maggiore nelle donne che va a coincidere con la menopausa. Nell’uomo continua in maniera relativamente costante dall’adolescenza alla tarda maturità per poi trovare un graduale declino.

La mancanza di interesse verso il sesso è uno dei più frequenti problemi sessuali presenti sia nel sesso maschile che in quello femminile. Recenti studi affermano come il disturbo da desiderio sessuale coinvolga maggiormente il sesso femminile. Mancanza di desiderio sessuale può essere associato anche ad altri problemi sessuali, infatti può rappresentare il sintomo principale, ma anche

 

come conseguenza del disagio emotivo derivante da altri disturbi sessuali. Individui che presentano questo disagio, possono avere problemi nella costruzione di relazioni sessuali stabili, in quanto il partner interpreta, molto spesso, la mancanza di desiderio come un disinteresse nei suoi confronti.

Tra i disturbi del desiderio troviamo:

  • Disturbo del desiderio sessuale ipoattivo;
  • Disturbo da avversione

 

Il disturbo del desiderio sessuale ipoattivo è definito come una persistente e ricorrente carenza di fantasie sessuali o recettività per l’attività sessuale, che provoca stress personale. Uno scarso desiderio sessuale può essere globale e includere tutte le forme di espressione sessuale o può essere situazionale e limitato a un partner o a un’attività sessuale specifica. Nell’individuo, si assiste a una mancanza di motivazione a cercare gli stimoli, la frustrazione diminuisce quando manca la possibilità di avvicinarsi all’esperienza sessuale. E’ importante nel lavoro clinico, prendere in considerazione la coppia infatti, lo scarso desiderio sessuale in un partner può riflettere un eccessivo bisogno di espressione sessuale da parte dell’altro partner.

Il disturbo da avversione sessuale è caratterizzato prevalentemente da avversione, evitamento attivo del contatto sessuale con un partner. I soggetti riportano ansia, timore o disgusto quando si trovano a vivere l’esperienza sessuale.

L’avversione, però, può anche essere circoscritta a un particolare aspetto dell’esperienza sessuale come ad esempio le secrezioni genitali, la penetrazione e così via. Altri riportano una repulsione generalizzata verso lo un qualsiasi stimolo sessuale come i baci, le carezze, l’intimità. In risposta a questi stimoli, l’individuo può provare un’ansia moderata con mancanza di piacere fino ad arrivare ad un’estrema sofferenza psicologica.

L’individuo che non è a suo agio con un livello più o meno elevato di desiderio, può porsi delle domande, di come ciò accada. A volte è possibile che nasca in associazione a fattori contestuali (figli, lavoro, assenza di privacy), lavorando su questi aspetti è possibile che la problematica sessuale sparisca. Se il disagio persiste è possibile che il problema abbia un’origine più profonda data dalla propria storia di vita. In alcuni casi, infine, il disagio vissuto è collegato solo apparentemente al disturbo del desiderio e che in realtà è la conseguenza della presenza di un altro disturbo sessuale, portando la persona ad evitare la sessualità per evitare le difficoltà associate.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo Psicoterapeuta e Sessuologo clinico

 

Bibliografia:

 

APA. (American Psychiatric Association) (2014). DSM-V, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Cortina, Milano.

Boncinelli, Rossetto, Veglia (2018), Sessuologia Clinica, modelli di intervento, diagnosi e terapie integrate, Erickson.

Giddens,(1994) La trasformazione dell’intimità,Il Mulino, Milano.

Giusti, Mariani, Salerno, (2012) Terapia del desiderio. Maschile e femminile, Sovera edizioni.

Leiblum S.R., Rosen R.,(2004b). Principi e pratica di terapia sessuale. CIC Edizioni Internazionali, Roma. Master W.H., Johnson V.E.,(1987). Il sesso e i rapporti amorosi, Cortina, Milano.

Pridal C.G., LoPiccolo J.,(2004). Trattamento multimodale dei disturbi del desiderio: Integrazione della terapia cognitiva, comportamentale e sistemica. In e a cura di Graziottin A., Principi e pratica di terapia sessuale, CIC Edizioni internazionali, Roma.

Veglia F.,(2006). I disturbi sessuali, in B.Bara, Manuale di psicoterapia cognitiva, Bollati Boringhieri.

ZONA BIANCA E LIBERA USCITA: CHE APPROCCIO CON I NOSTRI RAGAZZI? Disregolazione Emotiva in adolescenza e post lock down. Facciamo il punto.

Finalmente in zona bianca, più tempo per condividere e fare, le tanto agognate vacanze si avvicinano, via alle mascherine all’aperto e…non c’è più il coprifuoco! Tutto meraviglioso, fino a quando non ti ritrovi nuovamente a discutere con tuo figlio adolescente sugli orari, sui limiti, sui comportamenti a rischio fuori casa, sul “Che palle ma’”. E ti chiedi: “Forse era meglio quando potevo controllarlo a casa, certo, stava sempre in camera e al cellulare ma almeno sapevo dov’era?”

È opinione comune, dimostrata dalle molte ricerche in merito, che la lunga chiusura forzata, dovuta alle restrizioni del lock down, abbia causato effetti devastanti su un periodo già di per sé complesso come quello adolescenziale, ma, restituire con gli interessi libertà e concessioni mai avute, sarà troppo? Esiste un labile confine tra la cura della socialità dei nostri figli ed un eccesso di permissivismo? Per non parlare dei rischi che un genitore può o meno assumersi nel corso di una crisi sanitaria tutt’altro che vicina ad un epilogo.

Quindi occorre fare un passo indietro, perché quello della gestione adolescenziale, è sempre stato un aspetto complesso, ben prima del Covid – che come sappiamo, ha acutizzato queste ed altre problematiche.

Analizziamo un attimo la situazione: l’adolescenza è una fase di vita straordinaria ma allo stesso tempo disorientante, sia per quanto riguarda il vissuto degli adolescenti, sia per il vissuto di coloro che degli adolescenti devono prendersi cura. In questa fase di costruzione identitaria (corporea, sessuale, sociale), è fondamentale per l’adolescente la possibilità di esplorare il mondo esterno e di mettersi alla prova, confrontandosi con il gruppo dei pari. L’adolescente tende a ricercare maggiore indipendenza, mettendo in discussione l’autorità genitoriale e testandone e trasgredendone, frequentemente, limiti e confini.

Sappiamo che i cambiamenti che avvengono a livello cerebrale nei primi anni dell’adolescenza predispongono alla comparsa di caratteristiche mentali specifiche come ricerca di novità, coinvolgimento sociale, maggiore intensità emotiva ed esplorazione creativa e come tutto questo possa portare a disregolazione emotiva. Di cosa si tratta?

La regolazione delle emozioni è quel processo di generazione, monitoraggio, valutazione e modifica delle reazioni emotive al fine del raggiungimento di un obiettivo (Thompson, 1994). Una regolazione delle emozioni pienamente funzionale richiede la capacità di riconoscere il significato emotivo degli stimoli percepiti, di attivare un processo regolativo e di scegliere e attuare una strategia appropriata, processo che richiede il coordinamento di processi cerebrali multipli ad alto livello, e le competenze cognitive sociali, come la capacità di comprendere e considerare il punto di vista dell’altro e dove anche il ruolo genitoriale gioca un ruolo fondamentale (Sheppes et al., 2015).

Su quest’ultimo fondamentale punto, si teorizza, come lo sviluppo di un attaccamento sicuro nei confronti di persone significative nella prima infanzia sia essenziale per lo sviluppo di una regolazione emotiva. Un danneggiamento nella formazione di una rappresentazione interiore sicura può compromettere sostanzialmente l’acquisizione delle capacità di regolazione emotiva nell’infanzia e portare a uno scarso adattamento sociale più avanti. Già Bowlby, il padre della teoria dell’attaccamento, sottolineava come la caratteristica più importante nell’essere genitore sia il fornire una base sicura da cui partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui tornare sapendo che si sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato (Bowlby, 1989).

Capiamo, quindi, come in questo processo di maturazione sia possibile incontrare stati di disregolazione emotiva nell’adolescente, in cui il comportamento espresso traduce l’incapacità di regolare i propri stati emotivi interni, organizzare l’esperienza e le risposte comportamentali in modo funzionale; le emozioni possono essere vissute in modo eccessivo, con livelli di attivazione al di sopra dei limiti della finestra di tolleranza – “iperattivazione” oppure al di sotto dei limiti della finestra di tolleranza – “ipoattivazione” (con finestra di tolleranza si intende il range di intensità emotiva che ognuno di noi è in grado di tollerare senza interrompere la funzionalità del nostro sistema, per un approfondimento, Siegel, 2013).

In tutto questo già complesso quadro, l’attuale emergenza sanitaria ha implicato un contesto fisico, sociale e culturale che ha reso ancor più difficile fronteggiare questo delicato momento evolutivo. Lo stravolgimento delle abitudini di vita, il distanziamento sociale, il senso di incertezza e precarietà, il maggior tempo trascorso davanti agli schermi, la ridotta attività fisica, sono alcuni degli elementi che hanno ostacolato la possibilità e la necessità di sperimentare ed esplorare tipica di questa fase evolutiva. Vari studi recenti hanno messo in luce come vi sia stata una correlazione tra l’isolamento protratto e il rischio di incorrere in disturbi depressivi, soprattutto nel genere femminile (Loaded at al, 2020), e come la percezione di solitudine sia correlata a maggiore stress attivando una cascata neurobiologica con effetti nefasti sul piano fisico e psicologico (Park, et al., 2020).

Quindi, se tuo figlio adolescente, soprattutto dopo il lock down e le varie restrizioni che ha comportato, non vede l’ora di uscire, protesta rispetto alle regole e all’autorità genitoriale, è impulsivo, ha frequenti sbalzi d’umore e non ha interesse nel confrontarsi con te… benissimo, segnale positivo che ci troviamo nel regolare processo! Ed è anche assolutamente normale che tu genitore abbia questa ambivalenza nel dare limiti, dopo un periodo così complicato, trovandoti di fatto ad oscillare tra uno stile genitoriale molto rigoroso, e una modalità indulgente, che tende a minimizzare regole, aspettative e richieste. Quindi, come muoversi in tutto questo?

L’obiettivo da porsi è quello di trovare un equilibrio “tra clemenza e rigore”. In che modo? Bilanciando il supporto e la guida, quando è necessario o i ragazzi lo richiedono, concedendo al tempo stesso spazi di libertà per aiutare il ragazzo a diventare indipendente; ponendo dei limiti ma offrendo possibilità di scelta, in un mix di fermezza e gentilezza, per cui scegliere le priorità non negoziabili nel rapporto genitori-figli; fornendo le radici dell’appartenenza e le ali per esplorare e conoscere la vita da sé (Harvey & Rathbone, 2021).

Possiamo, inoltre, sforzarci di non giudicare direttamente i comportamenti dei nostri ragazzi come buoni o cattivi in sé, ma come espressione di bisogni che si esprimono nella relazione di attaccamento. Provando a mettere da parte temporaneamente i nostri pensieri e emozioni, possiamo ascoltare empaticamente quelli dei nostri ragazzi, comprendendo come il conflitto faccia parte dell’attaccamento e sia costruttivo. Nel conflitto, infatti, gli adolescenti cercano di bilanciare i loro bisogni di indipendenza con quelli di connessione.

Nel far questo, occorre che il genitore non dimentichi che l’unico modo per avere energie e risorse sufficienti a prendersi cura del proprio figlio adolescente sia prendersi cura di sé stessi. Come già sosteneva la Lihenan nel 1993, insegnare a sé stessi come calmarsi, distrarsi e consolarsi in circostanze difficili e dolorose è fondamentale per ridurre l’intensità delle emozioni e superare il momento di crisi senza peggiorare le cose.

In sostanza: prova a fare un passo indietro prima di reagire al comportamento, respira, ascolta, mettiti nei panni e confrontati empaticamente con tuo figlio, senza dimenticarti il tuo ruolo di autorità genitoriale in grado di imporre regole e limiti anche non concordi al desiderio di tuo figlio ma agite al fine ultimo del suo benessere e tutela. Una crescita sana passa anche attraverso la rottura di equilibri in un costante tiro alla fune con il genitore, chiamato a lasciar liberi i figli, dar loro fiducia, accettarne le scelte – contenendo le proprie naturali ansie, come gli inevitabili disaccordi – ma anche a porre limiti, regole e confini, e a fare da “base sicura” a cui poter fare ritorno nei momenti di bisogno.

 

Dott.ssa Giacone Giulia

 

Riferimenti bibliografici:

Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Harvey, P., & Rathbone, B. H. (2021). Adolescenti con emozioni intense: Come gestire con la DBT le sfide emotive e comportamentali di tuo figlio. FrancoAngeli Editore, Milano.

Linehan, M. (1993). Skills training manual for treating borderline personality disorder (Vol. 29). New York: Guilford press. Trad.it. DBT Skills Training. Manuale-schede e fogli di lavoro. Con USB card. (2015). Raffaello Cortina Editore, Milano.

Loades, M. E., Chatburn, E., Higson-Sweeney, N., Reynolds, S., Shafran, R., et al., (2020). Rapid Systematic Review: The Impact of Social Isolation and Loneliness on the Mental Health of Children and Adolescents in the Context of COVID-19. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry, 59(11):1218–1239.

Park, C., Majeed, A., Gill, H., Tamura, J., Ho, R.C., Mansur, R.B., Nasri, F., Lee, et al. (2020). The Effect of Loneliness on Distinct Health Outcomes: A Comprehensive Review and Meta-Analysis. Psychiatry Research, 294:113514.

Sheppes, G., Suri, G., Gross, J.J. (2015). Emotion regulation and psychopathology. Annu. Review of Clinical Psychology. 11, 379–405.

Siegel, D. J. (2013). La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Thompson, R.A. (1994). Emotion regulation: a theme in search of definition. Monographs of the Society for Research in Child Development Society for Research in Child Development. 59, 25–52.