ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

Asma: una visione psicosomatica

La respirazione è una funzione essenziale per la vita. Pochi minuti senza ossigeno e il nostro corpo muore.

Da una ricerca su Google ho scoperto che attualmente il record mondiale di apnea statica è del croato Budimir Šobat, che con 24 minuti e 33 secondi è entrato nel Guinness World Records. Il mio pensiero si sposta dunque a noi non atleti allenati alle apnee, per cui questo tempo si riduce drasticamente!

Possiamo considerare che l’ossigeno sia la prima fonte di nutrimento essenziale per il nostro organismo, disponibile in larga abbondanza nel mondo in cui viviamo e a cui possiamo accedere con la facilità e l’immediatezza di un’inspirazione. Il nostro corpo a riposo e in condizioni di tranquillità emotiva, si stima compia circa 12 atti respiratori al minuto, perciò idealmente 17.280 in un giorno. Tutto questo accade senza nemmeno accorgerci: il nostro corpo respira autonomamente senza richiedere attenzione alcuna da parte nostra. Molto diverso è per chi soffre di disturbi a carico dell’apparato respiratorio.

Uno tra questi è l’asma, un’infiammazione in molti casi cronica delle vie polmonari. Si manifesta con   broncospasmi e ipersecrezione mucosa, che portano ad una respirazione faticosa, con conseguente tosse, respiro sibilante e senso di soffocamento. L’innesco delle crisi, nelle persone predisposte geneticamente, proviene da stimoli allergici o irritanti o forti stress psico-fisici. Nelle condizioni più gravi può portare anche alla morte.

Secondo l’OMS la diffusione di questo disturbo, nella popolazione di tutto il mondo, è in continuo aumento, e le ragioni si ipotizza possano essere ricercate nello stile di vita sempre più urbanizzato, che spinge a passare molto tempo in luoghi chiusi a contatto con aria spesso stagnante o condizionata, acari, smog e polveri sottili.

Durante la crisi asmatica, la persona sperimenta un’angosciante “fame d’aria”, con tentativi disperati di trattenerla dentro di sé, aggrappandosi alla sostanza esterna vitale, l’ossigeno, che in quel momento sembra non essere accessibile in misura sufficiente per la propria sopravvivenza. Il soffermarsi da parte della persona sulla polarità vitale della respirazione, l’inspirazione, sposta l’attenzione sul bisogno pressante di rimandare a tutti i costi il momento mortifero, abbandonico del lasciare andare l’aria-vita-nutrimento. Questo introduce al tema profondo che caratterizza il disturbo: un conflitto che si gioca sul continuum dipendenza-indipendenza in relazione al mondo nutritivo materno.

Edoardo Weiss, psicanalista, nel 1913 descrisse l’attacco asmatico come espressione di un pianto represso o inibito, che veicola  l’angoscia esistenziale di restare tagliati fuori dalla possibilità di accedere alle fonti di nutrimento e protezione. Da numerosi casi clinici è possibile osservare che chi presenta il disturbo, trovi difficile piangere, quasi come se i mezzi classici per ottenere attenzione, cura e risorse vitali, non fossero percorribili. Si può constatare che molte crisi asmatiche trovano fine con il pianto o il riso. Nell’osservazione della relazione tra madre e figlio asmatico, si rilevano spesso momenti o condizioni di indisponibilità della figura di accudimento per distanza e/o inaccessibilità fisica ed emotiva. Ciò genera nel bambino un “complesso di abbandono”.

Il tema esistenziale di chi soffre di asma è decisamente legato alla dualità vita-morte, che si gioca nella relazione con sé stessi e con l’altro fuori da sé.

I percorsi psicoterapeutici possono essere di grande aiuto in questi casi, per prendere maggiore consapevolezza di sé, familiarizzare con le proprie risorse interiori utili allo sviluppo di una maggiore indipendenza emotiva e per esplorare e fare proprie nuove modalità relazionali.

Bibliografia:

Agresta F., Il linguaggio del corpo in psicoterapia. Glossario di Psicosomatica, Roma, Alpes Italia, 2010

Caprioglio V., Fornari P., Marafante D., Morelli F., Parietti P., Dizionario di psicosomatica, Milano, Edizioni Riza, 2007.

Asma – EpiCentro – Istituto Superiore di Sanità (iss.it)

Asma situazione epidemiologica (iss.it)

Dott.ssa Erika Gerardi

Psicologa – Psicoterapeuta

ANCHE LA TRISTEZZA È INDISPENSABILE

Il sole, le vacanze, il dolce far niente… in estate ci si sente come obbligati ad essere felici. E anche il resto dell’anno, soprattutto condizionati dai mass media, dagli influencers, si vive una certa imposizione alla felicità.

E se, invece, essere infelici di tanto in tanto desse un senso alla vita? Se contribuisse a legarci agli altri, a renderci “più umani”? L’arte di vivere consiste anche nel fare spazio alla sventura e al dolore, divenuti tabù e indesiderabili nelle nostre società. Perché, subordinatamente al diktat dell’efficienza, i disturbi della felicità e le loro processioni di lacrime non fanno parte della dinamica dei vincitori.

E se, paradossalmente, le prove della vita, creando significato e connessione, potessero essere anche fonte di felicità?

FELICITA’ MATERIALE VS FELICITA’ AUTENTICA

Vacanze, feste, progetti da sogno… la società ha la tendenza a volerci far credere che tutti siano perfettamente felici. E invece, gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri non hanno mai avuto così tanto lavoro. Il fatto è che noi siamo preoccupati da una definizione di felicità che è piuttosto materiale, che a che fare con il successo e la perfezione, mentre la felicità autentica è più profonda, più duraturacreare una vita ricca, piena e significativa… con l’altro.

ESSERE CON L’ALTRO

Viviamo in una società individualista, intrisa dall’ossessione della ricerca della felicità. Ma la felicità è legata agli altri, all’essere insieme. E che la tristezza ha la sua importanza. Senza riferirci ai grandi traumi che possiamo attraversare, tutti i giorni della nostra vita viviamo piccole cose imperfette che ci rendono tristi. Allora se ne parla agli altri, ai familiari, agli amici. Ed è che si crea la felicità, questo legame profondo con gli altri, vero e autentico. Ci si sente ascoltati dall’altro, compresi. L’altro sente di aiutarci. E così, entrambi, ci sentiamo più felici.

IL SENSO DELLA VITA

Si corre, a volte, tutta la vita incontro all’idea che la felicità si costruisca facendo cose, raggiungendo obiettivi (lavoro, matrimonio, figli, la pensione...). Ora, il punto non è di cercare la felicità a tutti i costi, ma di trovare un senso alla vita. Prendersi cura degli altri, dividere la felicità con l’altro, solo questo genera una felicità vera, durevole e autentica. E sono proprio le cose sgradevoli o tristi che ci incitano a legarci agli altri.

LA TRISTEZZA È NORMALE

L’essere umano non ha voglia di vivere le emozioni sgradevoli, le vede subito come dei problemi, le evita, eppure sono emozioni normali, naturali e hanno una funzione biologica ed evolutiva. La tristezza ci lega agli altri. Senza questa relazione profonda e vera con l’altro, non si può essere felici. Si ha tutto materialmente ma si ha una sensazione di vuoto, di niente. Prendersi cura dell’altro dona senso, la relazione è alla base della nostra vita terrena.

PIU’ FORTI INSIEME

Si ha la tendenza a pensare che essere tristi o mostrarsi infelici di fronte agli altri renda vulnerabili. La nostra cultura, spesso, ci porta a considerare la tristezza come un qualcosa che è meglio nascondere, non mostrare. Questo perché si ha in mente un ideale di “uomo che si fa da sé” che è totalmente illusorio. Tutto quello che l’uomo ha costruito nella storia dell’umanità, l’ha fatto insieme a qualcuno. Sfortunatamente, nel corso di questi ultimi due anni, non abbiamo potuto essere insieme e con la morte che bussava alle nostre finestre con il Covid… ci si è allontanati dagli altri. Ma anche la morte partecipa a dare un senso alla nostra vita, perché ci permette di legarci agli altri, di fare dei rituali insieme, di condividere, di raccontarsi cose, di connettersi. Quindi di creare felicità. Si ha bisogno dell’altro quando si è felici, certo, ma soprattutto quando si è tristi.

Dott.ssa Giulia Giacone

Psicologa-psicoterapeuta

Per approfondire:

De Wachter, D., Cyrulnik, B., Michel, N. (2021). L’Art d’êtremalheureux. La Martinière editore.
Harris, R. (2010). La trappola della felicità. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere. Erikson editore, Trento.

I TRE “ATTORI” DELLA NOSTRA PSICHE E LE LORO MANIFESTAZIONI: BAMBINO, GENITORE E ADULTO

E’ capitato a tutti di avere pensieri nella testa contrastanti, di pensare in un modo e nel giro di poco di avere l’impressione di aver cambiato idea del tutto. Alle volte ci sentiamo “strani” e temiamo di essere “pazzi”: diventa, così, difficile poter comunicare agli altri le nostre sensazioni, poichè di fatto siamo i primi a non riuscire a comprenderle.

Perché questo accade?
Ognuno di noi porta con sé diverse parti che nella vita di tutti i giorni interagiscono, comunicano, s’impongono e spesso ci fanno soffrire.
Imparare a vederle, conoscerle e ascoltarle può essere un punto di svolta sorprendente ma bisogna spesso potersi affidare ad un professionista per non perdersi in questo percorso a tratti difficile, ma illuminante.

Di quali “parti” stiamo parlando? E quante sono?
Ognuno di noi porta dentro di Sè tre stati mentali dell’Io. Il primo è stato chiamato da diversi autori in modo differente: è la parte che assume il nome di Infante, Innocente o Bambino interiore.

In terapia mi trovo molto spesso a guidare i pazienti a sintonizzarsi con questa parte: è importante sapere che il Bambino che siamo stati rivive in noi per tutta la vita, ci accompagna nella nostra quotidianità e, a volte, le sue paure o le sue insicurezze prendono il sopravvento.
Le persone che incontriamo comunicano spesso sofferenza ed il proprio Bambino interiore cerca di comunicare qualcosa proprio attraverso essa.
Si tratta di un piccolo Sè che probabilmente è stato spaventato, ferito, trascurato, deluso, abusato, bullizzato, isolato e che è alla ricerca di qualcuno che possa prendersi cura di lui.

È alla ricerca di un adulto che possa essere in grado di “prenderlo per mano” e con tono rassicurante possa sussurrargli: “Va tutto bene, ci sono qui io”.

Questa parte, in un primo momento, viene interpretata dal professionista che diventa per il Bambino interiore del paziente l’Adulto di cui avrebbe avuto bisogno da piccolo.
Ma, affinché la psicoterapia sia funzionale, è indispensabile guidare la persona a diventare l’Adulto significativo di cui il Bambino interiore ha bisogno.

Bisognerà imparare ad essere rassicuranti, amorevoli, accoglienti e aperti al mondo, proprio come un buon genitore avrebbe fatto con il proprio bambino.
Molte volte è capitato che i pazienti che si sintonizzano con il proprio Bambino interiore siano perplessi nel doverlo “sentire” per tutta la vita. Ma un bambino che viene rassicurato e protetto, non sarà un bambino che piangerà o urlerà per tutta l’esistenza. Potremmo godere della sua compagnia, quella di un bambino sorridente e sereno.

Sembrerebbe che all’interno di ciascuno di Noi la “scena” sia occupata esclusivamente dal Bambino interiore, ma sul “palcoscenico” in realtà troviamo altre due figure: il Genitore e l’Adulto. A loro modo queste due parti intervengono e si schierano con l’intento di difendere il Bambino interiore dal pericolo e dal dolore. Ma non sempre le nobili intenzioni bastano.

Il Genitore si crea mettendo insieme tutto ciò che abbiamo assorbito dai caregiver, da coloro che ci hanno accudito. Spesso in questo stato mentale ritroviamo il comportamento, le emozioni, gli schemi dei nostri genitori o di chi ci ha cresciuto.
Ed ecco che la critica, la svalutazione, la disapprovazione, la delusione spesso viene manifestata da questa figura proprio sul Bambino interiore.

L’Adulto, invece, è la parte più intellettuale, razionale e spesso risulta essere una parte “congelata” che non riesce a passare all’azione.

Mi piace pensare che questo stato dell’Io possa diventare un giusto mediatore tra il Bambino e il Genitore, ovvero quella parte che sia in grado di riflettere tenendo in considerazione i bisogni degli altri due stati mentali, per poter agire in modo proficuo.

Vedere queste tre figure (o stati mentali dell’Io) e comprendere come esse si manifestino, apre la strada verso il cambiamento.
E’ importante riuscire a “sbloccare” l’Adulto e renderlo comprensivo, benevolo, consapevole di come questi sentimenti passati condizionino, inconsciamente, la nostra vita di tutti i giorni.

“I presupposti non sono facili da attuare. Dovrai pensare, anche se non sei abituato a pensare. Ti capiterà di doverti buttare, anche se non sei abituato a buttarti. Ti capiterà di dover mettere a tacere le tue lamentele, anche se sei abituato a piagnucolare. Ti capiterà di dover sopportare un’ansia tutta nuova e delle strane sensazioni.
Diventando un genitore lucido e dinamico per il tuo bambino del passato, tenero ma severo quando è necessario, puoi fare qualcosa che nessun’altra può fare. Al posto tuo: inventare per te una vita nuova e appagante…. E un nuovo modo di vedere te stesso e chi ti vive accanto.”

(W. Hugh Missildine “Il bambino che sei stato” 1963, ed 2004).

 

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

NON È UN PAESE PER MAMME

Tutti ci chiedono di fare figli, dal Papa ai governi, la natalità è a i minimi storici e per incentivarla si adottano modalità discutibili quali rendere illegale l’aborto (vedere alla voce America) o elargire 4mila euro una tantum alle mamme per convincerle a non interrompere le gravidanze (Piemonte).

Ma com’è che il viaggio della maternità è diventato così disincentivante?

Partiamo dall’inizio.

In Italia le donne fanno figli sempre più tardi, in media intorno ai 31 anni. E negli 10 ultimi anni in Europa il numero di donne che partorisce il primo figlio dopo i 40 anni è raddoppiata, con l’Italia che si piazza al secondo posto dopo la Spagna su questa classifica.

Il perché è presto detto: mancanza di occupazione, fatica a raggiungere un reddito stabile, enorme difficoltà nel potersi permettere una casa. E se questa combinazione di fattori riguarda tutti i giovani, sulle donne ha un impatto maggiore. Il tasso di occupazione femminile è fermo al 50% e i datori di lavoro hanno da sempre la tendenza ad investire meno sulla formazione e la promozione delle loro dipendenti donne che potrebbero un giorno assentarsi per maternità o per far fronte al carico famigliare che, ancora, ricade in gran parte su di loro. Ma su questo torneremo più avanti.

Alla luce di quanto detto, prima che una donna arrivi anche solo a pensare di mettere su famiglia (se lo desidera), facilmente sarà over 30. E, come è noto, la biologia non è così interessata alle umane vicende. Dunque, spesso, presenta il suo conto e allora i tempi per arrivare ad una agognata maternità possono allungarsi ancora. A volte si attraversano anni di cure psicologicamente e fisicamente provanti e, purtroppo, si può incappare in cliniche della fertilità più o meno serie che lucrano sulla sofferenza altrui.

Quando finalmente si riesce a concepire, inizia un viaggio di trasformazione fisica e mentale senz’altro potente e interessante, ma non sempre così idilliaco come viene dipinto, o almeno non per tutte.

È un aspetto di cui si comincia a parlare, ma non ancora pienamente sdoganato. C’è una sorta di ritrosia nel raccontare con schiettezza anche gli aspetti meno amabili dell’essere incinte, anche tra le amiche. L’immagine mentale della donna che nel riprodursi attraversa il momento di gioia più grande della sua vita, è dura a morire.

Stessa sorte silenziosa tocca ancora all’aborto, benché sia molto comune: basti pensare che circa 1/3 delle gravidanze termina con un aborto spontaneo. Purtroppo le pratiche ospedaliere sono ancora molto carenti nel prendersi cura di una donna dopo tale evento e la società non è affatto preparata ad essere di supporto. L’aborto viene spesso sminuito, silenziato, messo da parte con frasi crudeli e sbrigative e, troppo spesso, le madri si ritrovano anche a gestire un aleggiante senso di colpa, come fossero portatrici di qualche difetto o inidoneità. Invece, sappiamo che gli aborti spontanei avvengono per la gran parte dei casi per una selezione naturale del corpo e non per un accudimento inadeguato. In questo, il nostro termine italiano aborto (ab-ortus, allontanato dalla nascita) è più corretto dellinglese miscarriage (mal tenuto, mal contenuto).

Quando la gravidanza procede e arriva al termine, le donne affrontano il temuto momento del parto. E se il dolore non fosse sufficiente come preoccupazione, si aggiunge anche il terno al lotto della gestione ospedaliera. È importante sapere, infatti, che lItalia presenta un numero eccessivo di parti cesarei. Nel 2020 veniva fatto ricorso al cesareo nel 31% dei casi, nonostante siano state create delle linee di indirizzo per la riduzione di questa tipologia di parto, proprio perché eseguito in misura troppo frequente rispetto alla reale necessità. Il problema del ricorso eccessivo al cesareo, a onor del vero, accomuna tutta Europa e il tentativo di invertire la tendenza si sta diffondendo, anche se troppo lentamente. I paesi più virtuosi in tal senso sono Finlandia e Svezia che vi ricorrono solo nel 16% dei casi.

Un’altra pratica abusata (60% dei parti) è quella dell’episiotomia, una vera e propria chirurgia vaginale che consiste nell’effettuare un taglio nella parte bassa della vagina per aumentare lo spazio e favorire l’uscita della testa e del corpo fetale al momento del parto. L’episiotomia, nonostante la sua natura chirurgica, viene ancora troppo spesso praticata senza il consenso della madre (e talvolta senza nemmeno informarla). L’idea che diminuisca il rischio di lacerazioni è stata confutata e, anzi, oggi si sa che può provocarne un peggioramento. Inoltre, se non ben effettuata, rischia di lasciare dei danni permanenti dal punto di vista funzionale, sessuale, oltreché estetico.

L’episiotomia oggi è ritenuta una pratica da utilizzare in rari casi perché il solo fine dell’aumento di spazio può essere ragionevolmente raggiunto attendendo i fisiologici tempi (a volte molto lunghi) dell’espulsione.

A tutto questo, si aggiunge la violenza ostetrica (di cui è parte l’episiotomia non concordata, così come la manovra di Kristeller) che riguarda tutta una serie di abusi verbali e fisici subiti durante l’assistenza al parto e al post-partum, che sono lesivi dei diritti alla salute riproduttiva e dell’autonomia decisionale della donna sul proprio corpo e la propria sessualità. Inutile dire che queste pratiche impattano profondamente sulla qualità della vita della donna e non solo durante e dopo il parto. Secondo un’indagine del 2017, su un campione di 5 milioni di donne, il 21% ha subito violenza ostetrica. Numeri che fanno paura ma che smuovono poca reazione, quasi a richiamare l’idea che partorire con dolore implichi anche tacere e sopportare. L’informazione tra le future mamme rispetto a queste pratiche è ancora molto bassa, motivo per cui le donne stesse spesso non le riconoscono come violenza. Non ne hanno gli strumenti, non sono mai state informate sui propri diritti anche relativi al momento del parto e, facilmente, lì per lì non hanno la forza né la lucidità di opporsi.

Se siamo giunte fin qui e tutto quanto è andato, più o meno, liscio, arriviamo al fatidico rientro a casa e all’adattamento alla vita da neo-mamme.

Come sappiamo, nel 2021 in Italia il congedo di paternità è stato portato a 10 giorni ed è stato reso obbligatorio. Prima del 2021, solo il 40% dei papà lo richiedeva e molti non erano a conoscenza di questo diritto. Nonostante il miglioramento, il congedo di paternità in Italia resta ancora tra i più bassi d’Europa (in Spagna sono 16 settimane): ciò significa che, salvo pochi giorni, al rientro a casa le donne sono spesso sole ad affrontare la fatica e l’adattamento fisico e mentale ad una nuova vita. Il principale appoggio è ancora rappresentato dai nonni, se sono in pensione.

Questo è il periodo in cui fa capolino il rischio della depressione post-partum, che colpisce circa il 15% delle neo-mamme, mentre l’85% sperimenta il “baby blues” cioè un lieve disturbo dell’umore dovuto al rapido mutamento degli ormoni nel corpo dopo il parto. La privazione del sonno, il recupero fisico e la fatica fanno il resto.

La ricerca ha ormai concordato sull’importanza del sostegno e del supporto alle neo-mamme in questo periodo delicato. Il supporto sociale ed emotivo è fondamentale per sentirsi ascoltate, rilasciare paure e sensi di inadeguatezza e ritrovare benessere e fiducia in stesse.

È chiaro che lasciare le mamme sole in questo periodo, non sia la scelta ottimale, e 10 giorni di congedo di paternità sono una goccia nel mare. Le donne si adoperano nel creare reti con amiche e compagne di corso pre-parto o rivolgendosi ai consultori, ma non tutte e non sempre è sufficiente a scongiurare la solitudine.

A questo si aggiunge che non tutte le donne possono o vogliono fermarsi dal lavoro molto tempo dopo il parto. Ad esempio, ci sono donne che non si trovano nel ruolo di accudimento primario, ci sono donne libere professioniste che non possono permettersi una maternità lunga, ci sono donne che non possono contare sul sostegno del partner o dei nonni, ecc. Il problema è che quando un bimbo è sufficientemente grande per l’asilo nido, i posti bastano in media per 3 bambini su 10!

Questo è un fatto davvero interessante: se consideriamo che una mamma dipendente ha diritto a 5 mesi di congedo di maternità obbligatorio (pagati all80% della retribuzione e distribuiti in modo flessibile tra pre e post partum), verrebbe da pensare che intorno al 5° mese del bebè la società provveda con un servizio di assistenza e di inserimento scolastico adeguato e atto a conciliare lavoro e famiglia. Ma così non è. Il posto non c’è e i bambini andrebbero iscritti quasi prima ancora di nascere. Il nido privato, di contro, è una soluzione per pochi visto che si avvicina in media al costo di un affitto.

La cura dei cuccioli d’uomo di questa società è ancora chiaramente delegata ai nuclei famigliari (leggi mamma e nonni) nel loro privato. Si conta sulla capacità dei singoli di arrangiarsi, non sulla necessità di una società evoluta di fornire servizi ai nuovi nati che ne costituiranno il futuro. Come se la procreazione non riguardasse la collettività, insomma.

Un diritto facoltativo di cui le famiglie possono comunque avvalersi è il congedo parentale. In Italia sarebbe a disposizione di entrambi i genitori nella misura di 6 mesi ciascuno, ma con un limite di 10 mesi a famiglia (allungabili a 11 se è il padre ad astenersi dal lavoro per almeno 3 mesi) e con un’indennità pari al 30% della retribuzione. Il congedo parentale va utilizzato dalla nascita del bambino fino ai 12 anni di età, ma viene retribuito al 30% dello stipendio solo fino ai 6 anni, in seguito non è prevista indennità.

Non è una sorpresa scoprire chi ne usufruisce. La pandemia ci ha ben mostrato come l’accudimento ricada ancora in massima parte sulle spalle delle donne, facendo solo emergere un dato che è sempre rimasto costante negli anni: l80% dei congedi parentali viene richiesto dalle donne. Questo significa che quando le famiglie sono costrette a scegliere tra cura della prole e avanzamento lavorativo, sono le donne a fare un passo indietro.

Come abbiamo già detto, i datori di lavoro non trovano conveniente investire su una risorsa femminile che sarà più assente e quindi anche la possibilità di crescita professionale diminuisce. Tutto ciò perpetra un meccanismo che alimenta la disuguaglianza: quando ci si ritrova a scegliere chi nella coppia debba rinunciare al lavoro o prendere permessi per farsi carico di un lavoro di cura non retribuito, chiaramente la scelta ricadrà su chi già occupa una posizione più bassa e percepisce un salario minore.

Le tabelle dell’Inps, così, ci mostrano chiaramente come la maternità costituisca la principale fonte di discriminazione sul lavoro. Dopo la nascita di un figlio, le carriere delle donne naufragano drasticamente: a 15 anni dalla nascita i salari lordi annuali delle madri sono di 5700 euro in meno rispetto a quelli delle donne senza figli.

Per chi invece riesce, coi salti mortali, a far stare in piedi sia il lavoro che la famiglia, arrivano i vissuti di colpa e inadeguatezza. Perché viviamo in una società che, al netto delle sue mancanze, non fa sconti alle madri: chiede loro di lavorare come se non avessero figli e di accudire i figli come se non lavorassero. Tutto ciò crea un’asticella di mamma perfetta e multitasking ovviamente inarrivabile, a meno di scarificare tutte se stesse e la propria salute mentale.

Il problema è che finiamo per crederci e vivere annaspando, cercando di essere presenti come madri, tenere la casa in ordine, lavorare al meglio della nostra concentrazione e puntando in alto sennò non siamo ambiziose, cucinando manicaretti e tenendo viva la passione di coppia, nel mentre che ci alleniamo per rientrare nei canoni estetici della nostra società e dedichiamo tempo a noi stesse e alle amiche perché sennò ci trascuriamo. Tutti obiettivi valevoli e degni del nostro tempo, se solo fossero condivisi in un progetto di cura con i nostri partner (che per fortuna, soprattutto dalla generazione Millenial in avanti, stanno facendo molti passi di presenza) e con una società che si faccia vero carico delle sue mamme e dei suoi piccoli cittadini, invece di relegare i servizi all’infanzia ad una questione da risolversi in privato.

Alla luce di tutto questo, più che chiedersi perché non facciamo più figli, verrebbe da chiedersi perché mai li facciamo ancora nonostante tutto!

Per il futuro, il tanto chiacchierato PNRR fa parte del progetto chiamato Next Generation UE che, sulla carta, già dal nome, dovrebbe rappresentare un’opportunità di finanziamento per i diritti dellinfanzia e il raggiungimento della parità di genere. Insieme a questo, serve una rivoluzione culturale per rimettere al centro della politica e della società il discorso della cura e della sua condivisione.

Una madre (o un padre, n.d.r.) che sta allevando suo figlio nel modo giusto, fa per il suo paese infinitamente di più di quanto fanno tutti i governanti, Werner Braum.

Se sei una futura mamma o una mamma e ti trovi a sperimentare alcune delle situazioni descritte in questo articolo, non sei sola! La maternità può metterci in contatto con esperienze reali e psicologiche difficili da gestire in solitudine. LAssociazione Eco può aiutarti, trovi tutte le informazioni utili ai seguenti link:

https://www.ecoassociazione.it/mentre-attendo-te-mi-prendo-cura-di-me/

https://www.ecoassociazione.it/servizi/psicoterapia-low-cost/

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

IL DISTURBO AFFETTIVO STAGIONALE – Come le variazioni stagionali influenzano il nostro umore

A livello storico sappiamo che Ippocrate già nel 400 a.C. parlava di una specie di depressione dovuta all’andamento stagionale, avendo già allora intuito come l’umore possa essere influenzato dalle variazioni ambientali delle stagioni. Sappiamo anche che nel II secolo a.C. i medici greco-romani trattavamo le persone che provavano sentimenti di eccessiva tristezza facendole stare e osservare la luce del sole.

A livello diagnostico, iDisturbo Affettivo Stagionale (SAD) è descritto nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come “Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente con andamento stagionale” caratterizzato da un pattern di esordio e remissione di episodi depressivi maggiori in periodi dell’anno caratteristici, con assenza di episodi non stagionali, durante un periodo di almeno due anni (American Psychiatric Association, 2014).

Il Disturbo Affettivo Stagionale (Seasonal Affective Disorder – SAD) venne nominato e descritto per la prima volta da Norman E. Rosenthal e colleghi del National Institute of Mental Health nel 1984. Esso si configura come un’alterazione psicofisica stagionale con variazioni dell’umore (verso il polo della tristezza e della depressione) soprattutto all’inizio dell’autunno con la riduzione delle ore di luce solare (SAD invernale) e, seppur in misura minore, anche all’inizio della primavera con il risveglio della natura (SAD estiva).

La Dott.ssa Mc Mahon dell’Università di Copenaghen e altri ricercatori nel 2006 hanno rilevato una correlazione tra il disturbo affettivo stagionale e la sovrapproduzione di melatonina, l’ormone prodotto nella ghiandola pineale alla base del nostro cervello che regola biologicamente il ciclo sonno-veglia, la cui produzione è stimolata direttamente dai raggi solari.

Quest’ultimi rilevano anche una correlazione tra il SAD e una sottoproduzione di serotoninaanche questa è una molecola che riveste il ruolo di neurotrasmettitore e di ormone (noto anche come l’ormone della felicità) responsabile principalmente della stabilizzazione dell’umore.

La SAD è stata intesa da questi studiosi come un vero e proprio squilibrio biochimico nel cervello che avviene, nel caso di SAD invernale, nelle ore diurne più brevi provocando uno sfasamento del ritmo circadiano interno e di alcuni aspetti umorali che giustificherebbero il sentirsi un po’ più stanchi, tristi, assonati e/o apatici in quei giorni.

La SAD invernale è la forma più comune e presenta la sua sintomatologia depressiva durante la stagione autunnale raggiungendo il picco durante l’inverno e migliorando in primavera. Sembrerebbe colpire molto le persone in giovane età, specie donne, che si ritrovano a vivere varie condizioni come deflessione dell’umore, difficoltà di concentrazione, astenia, ansia, ipersonnia o insonnia, irritabilità, iperfagia, fatica psicofisica etc.

Inoltre, nelle persone con SAD, una minore esposizione della pelle alla luce solare (tipica del periodo invernale) con conseguente disregolazione della serotonina può causare anche un deficit di vitamina D collegato allo sviluppo di sindromi depressive.

Uno studio del 2014 ha dimostrato come la fototerapia o Light Therapy, il trattamento considerato più efficace per la cura del SAD, organizzato in misura quotidiana di almeno 30 minuti a un’intensità di 10.000 lux simulante la luce naturale, abbia risultati soddisfacenti sul disturbo affettivo stagionale. La luce catturata dalla retina, infatti, andrebbe a stimolare le aree del cervello in cui avviene la sintesi degli ormoni citati prima (Rohan, Lindsey, Roecklein & Lacy, 2004).

Essendo quindi il cambio stagione un momento delicato, ricordiamo che le alterazioni sull’organismo psicofisico a carico dell’ambiente accentuano sia disturbi preesistenti come sindromi d’ansia, depressive o di altro tipo ma anche chi presenta “solo” uno stile di vita stressante e/o irregolare.

Sebbene la SAD invernale sia più comune, alcune persone vivono una specie di lieve depressione estiva definita anche come SAD estiva o “blues estivo” dovuto al doversi nuovamente riadattare alle condizioni ambientali della stagione primaverile/estiva con sensazioni di affaticamento psicofisico.

Regolare il nostro stile di vita a livello di un’alimentazione sana ed equilibrata, regolare esercizio fisico e una vita sociale attiva può aiutare a fronteggiare sentimenti di tristezza stagionali; quando la SAD è accompagnata da altri disturbi e/o sintomatologie, se necessario, può essere gestita con l’aiuto di un professionista della salute mentale per sviluppare strategie di intervento specifiche al singolo individuo.

BIBLIOGRAFIA:

– Norman E. Rosenthal, MD and Co., (1984) Seasonal affective disorder: A description of the syndrome and preliminary findings with light therapy. Arch. Gen. Psychiat. 1984, 41: 72-80

 Mc Mahon, Brenda; Norgaard, Martin; Svarer, Claus; Andersen, Sofie B; Madsen, Martin K ;Baa, William F C ; Madsen, Jacob; Frokjaer, Vibe G ; Knudsen, Gitte M. / Seasonality-resilientindividuals downregulate their cerebral 5-HT transporter binding in winter – A longitudinalcombined C-DASB and C-SB207145 PET study. In: European Neuropsychopharmacology. 2018; Vol. 28, No. 10. pp. 1151-1160.

Rohan, K. J., Lindsey, K. T., Roecklein, K. A., & Lacy, T. J. (2004). Cognitive-behavioraltherapy, light therapy, and their combination in treating seasonal affective disorderJournal of Affective Disorders, 80(2-3), 273–283.

 Rosenthal, N. E., Mazzanti, C. M., Barnett, R. L., Hardin, T. A., Turner, E. H., Lam, G. K., Ozaki, N., & Goldman, D. (1998). Role of serotonin transporter promoter repeat length polymorphism in seasonality and seasonal affective disorderMolecular Psychiatry3(2), 175-177. 

Rosenthal N.E., MD and Co., Seasonal affective disorder: A description of the syndrome and preliminary findings with light therapy. Arch. Gen. Psychiat. 1984, 41: 72-80

– Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.

 

Dott. Maria Grazia Esposito

Psicologa – Psicoterapeuta

I BENEFICI DI VIVERE CON UN ANIMALE DOMESTICO

Gli animali domestici, che siano cani, gatti, conigli o criceti, spesso e volentieri vengono considerati veri e propri membri della famiglia.

Oltre a tenerci compagnia, gli animali domestici, specie i cani e i gatti, ci regalano molti benefici psicofisici, consentendoci di avere una salute complessivamente migliore.

Ma quali sono davvero i benefici del vivere con un amico a quattro zampe?

1) Uno dei maggiori punti a favore del vivere con un animale domestico è il contrasto alla solitudine: non solo i nostri amici a quattro zampe ci fanno compagnia, ma ci costringono ad essere più attivi, riempiendo la vita anche delle persone più solitarie. Non è un caso che molti studi riportino che avere un animale domestico abbia enormi benefici su chi soffre di depressione: oltre a tenerci compagnia, i nostri animali ci costringono ad una vita più movimentata, basti solo pensare alle passeggiate quotidiane con il cane o al portare il nostro animale domestico dal veterinario, al negozio di animali, ecc. Tutte queste attività diventano spunto per una vita sociale più attiva e possono anche permetterei di stringere nuovi legami e amicizie.
2) Secondo un recente studio, la compagnia di un animale domestico è un valido alleato nellelaborazione del lutto, oltre ad essere un fattore protettivo per la depressione che spesso si sviluppa in seguito alla perdita di una persona cara. Secondo uno studio condotto da Brown nel 2011 il legame che si crea tra lumano e lanimale è assolutamente unico, tanto da poter essere paragonato ad un rapporto genitore-figlio o marito-moglie, stimolando ormoni quali lossitocina e la serotonina, responsabili del buonumore.
3) Altre evidenze scientifiche dimostrano che la vita insieme ad un animale domestico è migliore in quanto aumenta lautostima e il senso di sicurezza e diminuisce significativamente la solitudine, soprattutto tra gli adulti che vivono da soli.
4) Vivere con un animale domestico aiuta anche a ridurre ansia e stress. La sensazione di benessere data dallaccarezzare un cane o un gatto favorisce una serie di processi regolatori del sistema neurovegetativo: rallenta il battito cardiaco e regolarizza la respirazione, producendo un benessere generalizzato. Uno studio effettuato su 249 studenti universitari americani ha rilevato come i contatto quotidiano di soli 10 minuti al giorno con un animale domestico (cane o gatto) riducesse considerevolmente ansia e stress, migliorando la qualità della vita e le prestazioni accademiche.
5) Alcuni studi dimostrano che chi vive a contatto con gli animali ha un sistema immunitario più forte ed è meno soggetto a sviluppare allergie nel corso della vita.
6) Avere un animale domestico ci insegna la responsabilità di prenderci cura di qualcuno che dipende esclusivamente da noi, in tutto e per tutto. Molti studi dimostrano che questo aspetto è importante nello sviluppo dei bambini: crescere con un cane o un gatto implementa le capacità relazionali e lempatia.

Condividere la vita insieme ad un amico a quattro zampe migliora le nostre vite, ci aiuta a regolare le emozioni e ci regala anche molti benefici sulla salute, oltre a sviluppare competenze relazionali ed emotive.

E tu hai un animale domestico? Se si, in che modo ha cambiato la tua vita?

Dott.ssa Totaro Rossella

 

BIBLIOGRAFIA:

Bayram N., Bilgel N. (2008) The prevalence and socio-demographic correlations of depression, anxiety and stress among a group of  university students. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, 43 (8), 667-672.
Beetz A., Kerstin U.M., Henri J., Kotrschal K. (2012) Psychosocial and psychophysiological effects of human-animal interactions: the possible role of oxytocin, Front. Psychol., 3, 234.
Carr D.C., Taylor M.G., Gee N.R.& Sachs-Ericsson N. (2019) Psychological Health Benefits of Companion Animal Following a Social Loss. The Gerontologist. Doi:10.1093/geront/gnz1.
Pendry P., Vandagriff J.L. (2019) Animal Visitation Program (AVP) Reduces Cortisol Levels of University Students: A Randomized Controlled Trial, AERA Open, 5(2), 2332858419859.
Protopopova A. (2016) Effects of sheltering on physiology, immune function, behaviour and the welfare of dogs, Pays. Beah., 159, 95-103
Shoda T.E., Stayton L.M., Martin C.E. (2011) Friends with benefits: on the positive consequences of pet ownership, Journ. Pers. Soc. Psychol., 101(6): 1239-52
Settimo G. (2011) Gli animali che curano, Red Edizioni, Milano

L’INTESTINO “CEREBRALE” – L’importanza delle funzioni intestinali per il benessere psicofisico

È sempre più frequente sentir parlare dei cosiddetti due cervelli. Sappiamo realmente a cosa facciamo riferimento e come mai?

Quando parliamo di cervello, la nostra mente si dirige in automatico all’organo collocato nella nostra testa. Ad oggi, la teoria dei “due cervelli” sostenuta scientificamente dal neurobiologo Michael D. Gershon (1998), ci permette di porre attenzione all’importanza dell’asse intestino-cervello, individuando non uno ma ben “due cervelli”.

L’intestino è stato da sempre considerato come una struttura periferica deputata a funzioni vitali marginali come l’assorbimento di sostanze nutritive o la digestione. Le attuali ricerche scientifiche invece, sostengono e dimostrano l’importanza che tale organo avrebbe a livello del nostro sistema immunitario. A differenza di ciò che si possa pensare, l’intestino è l’unico organo, oltre il cervello, ad essere dotato di un vero e proprio sistema nervoso. Si tratta infatti, di quello che viene definito come il sistema nervoso “enterico” che agisce sia autonomamente che in connessione con il primo cervello, quello “cranico”, per intenderci.

L’importanza attribuita al nostro intestino non è legata solo al possedere un proprio sistema nervoso ma anche al fatto che, come il primo cervello, è anch’esso la sede delle nostre emozioni. Entrambi i nostri due cervelli comunicano tra di loro prevalentemente, attraverso il nervo vago, grazie a neurotrasmettitori comuni come la serotonina, nota anche come il neurotrasmettitore della felicità. Per questo motivo, i due cervelli possono influenzarsi a vicenda, sia da un punto di vista emotivo che immunologico.

Tensioni emotive, stress, abitudini di vita scorrette come sedentarietà e una cattiva alimentazione sono, non a caso, spesso associate a problemi della sfera digestiva. La letteratura scientifica internazionale evidenzia che il 20% della popolazione occidentale soffre di disturbi tra cui coliti, spasmi, gonfiore, nausea, bruciori di stomaco, sazietà precoce, distensione addominale, irregolarità della funzione intestinale. Questi sono i sintomi più frequenti associati ai disturbi intestinali che colpiscono in prevalenza la popolazione femminile rispetto a quella maschile, sia in adulti che in bambini o adolescenti e che spesso, non sono correlati a cause organiche evidenti. Tuttavia, non è da tralasciare neanche l’effetto opposto, vale a dire come un intestino in disordine possa portare a sviluppare alcune forme di ansia e di depressione. Alcuni studi recenti infatti, hanno dimostrato che il tratto gastrointestinale svolgerebbe una funzione importante nel riconoscimento di alcuni processi infiammatori. È considerato infatti, la prima barriera con il mondo esterno: il cibo che ogni giorno ingeriamo non è di certo sterile, porta con sè una carica batterica che induce una reazione da parte dei nostri globuli bianchi che sono deputati a riconoscere la presenza di infezioni all’interno del nostro organismo.

Il microbiota, detto più comunemente flora intestinale, ha proprio la funzione di intervenire in questo processo, ostacolando, ad esempio, il proliferare di agenti dannosi per la nostra salute. Inoltre, il microbiota intestinale è capace di comunicare e interagire con il primo cervello. Basti pensare che, quando mangiamo un cibo gustoso, l’intestino attiva i suoi recettori aumentando la produzione di serotonina, il neurotrasmettitore deputato alla felicità e a sensazioni di benessere. La serotonina è coinvolta infatti, in diverse funzioni biologiche fondamentali come il ciclo sonno – veglia, il desiderio sessuale, il senso di fame – sazietà e l’umore. Avere un livello basso di serotonina può infatti, comportare una serie di disturbi correlati all’umore, ansia, stati depressivi, problemi di natura sessuale, problemi del sonno e della motilità intestinale. All’interno dell’asse intestino-cervello, questo neurotrasmettitore svolge un ruolo fondamentale poiché favorisce la comunicazione e l’interazione tra questi due organi. Se pensiamo per esempio, a quando avvertiamo un calo dell’umore, cosa accade dentro ognuno di noi? È molto comune sentire un bisogno crescente di dolci, come ad esempio il cioccolato, alimento non a caso che contiene e favorisce la produzione di serotonina. Secondo lo stesso meccanismo, in presenza di un’infiammazione in sede intestinale, si attiva un enzima che è in grado di demolire la serotonina, causandone di conseguenza, un deficit a livello cerebrale e sensazioni di umore deflesso.

L’intestino inoltre, gioca un ruolo cruciale anche nelle nostre emozioni. Se per un attimo ci soffermassimo ad ascoltarle, potremmo subito notare come paura, rabbia, tristezza, felicità e disgusto abbiano una chiara risonanza nell’intestino. Basti pensare, per esempio, a quando siamo tanto arrabbiati e sentiamo lo stomaco irrigidirsi e attorcigliarsi al punto da avere la sensazione di “stomaco chiuso”, o quando la paura ci muove tutte le viscere, sconbussolandole o ancora, alla sensazione delle “farfalle nello stomaco” quando siamo innamorati. Quando si affronta un periodo di vita particolarmente stressante emotivamente, è possibile avvertire in modo chiaro, fastidi intestinali. Questo accade proprio perché i batteri intestinali possono rispondere ai segnali di stress provenienti dal primo cervello provocando sintomi somatici come bruciore di stomaco, mal di stomaco, nausea o dissenteria.

Secondo M. D. Gershon quindi, il nostro intestino proprio perché  “assimila e digerisce non solo il cibo, ma anche informazione ed emozioni che arrivano dall’esterno” necessità di maggiore ascolto, attenzione e cura.

E come prendersene cura? Uno stile di vita sano è certamente il primo passo per lenire i malesseri che ne possono derivare. Già nella medicina tradizionale, vi era l’idea che le alterazioni della flora microbica intestinale fossero strettamente legate all’insorgenza di alcune malattie e che il cibo fosse da considerare proprio come una buona medicina, come sosteneva lo stesso Ippocrate. Una sana ed equilibrata alimentazione può quindi, esserci di aiuto. È possibile inoltre, prendersi cura del proprio intestino anche praticando attività come la meditazione e lo yoga che permettono di ridurre i livelli di stress che come ormai sappiamo, incidono notevolmente sulla nostra qualità di vita ma anche sul nostro benessere psicofisico.

Dott.ssa Di Piero Antonia

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia


Gershon D. Michael, Il secondo cervello, titolo originale “The Second Bain: a Groundbreaking New Understanding of Nervous Disorders of the Stomach and Intestine”, UTET S.p.a., 2013

Gershon D. Michael, Serotonin and its implication for the management of irritable bowel syndrome, Rewievs in gastroenterological disorders, 2003; 3 (supp. 2): S25-S34

Giacosa, A (2018) Disturbi digestivi funzionali e stile di vita: il ruolo del sistema nervoso enterico, ovvero del “secondo cervello” in Rivista Società Italiana di Medicina Generale

COME DISFARSI DELLE REAZIONI AUTOMATICHE – Vivere il tempo anziché lasciarsi vivere dal tempo

Come mai reagiamo spesso nello stesso modo in alcune situazioni? E come mai non riusciamo a smettere di farlo, anche quando le conseguenze sono decisamente negative? Vediamo insieme come possiamo gestire le nostre reazioni emotive in maniera più consapevole e funzionale.

Vediamo qualcosa che non ci piace, una situazione ci fa rizzare i peli… e tutto d’un tratto… reagiamo! Ci infiammiamo, ci lasciamo trasportare dal turbine emotivo…

Ciascuno di noi, nel corso del tempo, ha imparato a rispondere ad alcuni stimoli con delle reazioni automatiche. Solitamente, si tratta di stimoli che attivano in noi un qualche stato emotivo spiacevole: ansia, tristezza, rabbia. La reazione che ne consegue, quindi, è un tentativo di gestire le emozioni negative che si provano in determinate situazioni.

Il fatto è che non siamo quasi mai consapevoli del perché reagiamo proprio con quella modalità, eppure, tendiamo a riproporla in maniera automatica ogni volta che ci troviamo di fronte a uno stimolo scatenante. Si tratta di automatismi appresi nel corso del tempo, soluzioni adottate in passato e che in qualche modo hanno “funzionato”. Si sono cioè rivelate efficaci nell’alleviare o nell’eliminare la sofferenza di quella situazione. Non ci importa che magari la “soluzione” comporti altre conseguenze, a volte persino peggiori della sofferenza che mirano a estinguere. I nostri meccanismi automatici di gestione non si fermano a riflettere ma, sono reazioni “istintive” che non ponderano e non distinguono conseguenze a breve e a lungo termine.

Spezzare il meccanismo della reazione automatica, non significa smettere di avere una opinione, di riflettere sulle cose, di reagire o di essere passivi, significa semplicemente disattivare un automatismo riprendendo il controllo e smettendo così di soffrire. Noi risentiamo della collera, dello stress, dei blocchi esperienziali, che fanno dapprima soffrire noi e che finiscono per intaccare il nostro ambiente.

DEFINIRE COSA CI FA REAGIRE

La prima cosa da fare per non entrare nella spirale infernale del circolo vizioso, è quella di notare quali sono le situazioni che ci fanno reagire in un certo modo. Sono delle situazioni, sovente le stesse, che ci stressano e che ci fanno partire con il pilota automatico. Per esempio, ci si arrabbia ogni volta che si fa la coda in un negozio o ci si infastidisce quando nostro figlio prende un brutto voto.

Osserviamo, poi, cosa scatena in noi quella situazione. Gola serrata, oppressione al petto, nodo allo stomaco, respiro corto… Quello che ci fa reagire, ci fa soffrire fisicamente e psicologicamente. La nostra reazione ci ricorda i nostri valori, cosa conta per noi. Facciamo un esempio: se mio figlio mi porta a casa un brutto voto, ho immediatamente dei pensieri negativi “È sempre il solito”, “Perderà l’anno” e posso provare rabbia o delusione. Ora, questa reazione mi ricorda cosa è importante per me e quindi posso decidere di connettermi a quello, prima di far partire la reazione automatica e, per esempio, invece che criticarlo, posso provare a stargli vicino, perché lo amo, e a soffermarmi sul fatto che, anche se non va bene a scuola, ha delle altre qualità.

TORNARE ALL’INTERNO

I nostri pensieri valutano. I ricordi ci portano indietro. Le emozioni confondono. In quel momento, è importante rallentare perché tutto va troppo veloce e noi non siamo realmente consapevoli di quello che sta succedendo. Se reagiamo in modo automatico, non stiamo scegliendo davvero come reagire e questo può, per esempio, degradare i nostri rapporti con gli altri. Se ci si prende il tempo per guardare sé stessi, di respirare quello che sentiamo, si può reagire alle situazioni in modo diverso. Quando si parte con la propria reazione automatica, non si vede che attraverso i propri schemi. Tornare all’interno permette di allargare il campo di quello che si vede. C’è una parte di noi che è tranquilla, calma e che può farci reagire diversamente, facendoci mettere nei panni dell’altro ed esprimendo le cose in maniera differente. Questo non significa sopprimere il malessere e non esprimerlo davanti all’altro, ma semplicemente farlo in una maniera più cosciente, più pacata, più affine a cosa conta per noi.

Facendo questo, riprendiamo il controllo; anche se automatiche, queste reazioni, non sono inevitabili e anzi, possiamo crearne di nuove. Portando un po’ di attenzione consapevole a quel momento, contattando i nostri valori, possiamo decidere di rispondere in modi diversi, che siano più utili o salutari per noi e chi ci sta attorno. E, saremo noi a decidere come rispondere.

LA PRATICA MEDITATIVA PUO’ AIUTARCI

Meditare regolarmente permette di allenarsi a rallentare, a sganciare il pilota automatico, per essere più presenti. In tal modo, non si impronta più tutto sulla reazione automatica e si fa un passo a fianco alle storie che ci si racconta ogni volta. Durante la pratica di meditazione non si fa nulla, non si cerca nulla, non ci si aspetta nulla, si smette di volere che le cose siano diverse da quelle che sono perché non ci si lotta, al contrario, si accoglie quello che si vive, l’esperienza, momento dopo momento. Questo allena a essere più consapevoli. Questo non vuol dire che dopo non si reagisca. Al contrario, chi è più cosciente, non si lascerà influenzare dai propri pensieri automatici e agirà allineandosi ai suoi valori. La meditazione è dunque al servizio della nostra azione.

CHIAVI PER REAGIRE DIVERSAMENTE

1- Prendi una situazione scomoda che ti genera sofferenza emotiva.
2- Valuta la tua sofferenza sulla tua scala da 1 a 10 dove 1 significa assenza di perturbazione emotiva e 10 massima sofferenza.
3- Nota dove trattieni questa valutazione e dove la senti nel corpo.
4- Osserva che tutta la tua energia, la tua attenzione è assorbita da questo dolore. Ci si focalizza, si gira in tondo, si resiste.
5- Sottolinea che se tu sei consapevole della sofferenza e del linguaggio nella tua testa, se ne sei cosciente, sai che è possibile cambiarla.
6- Scegli allora come vuoi reagire in piena consapevolezza.

ANDARE OLTRE

1- Osserva quello che scatena la tua reazione automatica. Esempio di situazione: la sveglia suona, il mio compagno prende subito il suo telefono e questo mi infastidisce.
2- Vai incontro alle tue sensazioni. Noto cosa sta succedendo nel mio corpo: le tensioni che sono presenti e come evolvono. Può essere, per esempio, che diminuiscano mentre le osservo.
3- Nota cosa c’è di altro in te, altre emozioni, pensieri che valutano, che giudicano e nota che c’è anche pace… puoi connetterti ad essa piuttosto che lasciarti trasportare dal tuo malessere. A partire dal momento in cui sei consapevole di cosa succede, il tuo malessere diminuisce. Ti apri ad altre cose, alla pace, allo spazio da cui osservare la tua reazione automatica.
4- Molla la presa. Non hai bisogno di combattere con i tuoi pensieri, con le tue emozioni o con la situazione presente. Sei ancorato in questo spazio di calma che hai in te e hai fiducia nel fatto che puoi modificare questa energia negativa che ti sta invadendo. Prenditi il tempo di rallentare.
5- Nota cosa si nasconde dietro questa reazione. In questa situazione, ti esasperi perché hai l’impressione di non sentirti amato e vicino all’altro, qualcosa che fa parte dei tuoi valori.
6- Agisci. Prendi il tuo compagno tra le braccia e parlagli di quello che per te è importante. Se aggiungi empatia, è ancora meglio: “Io so che è molto importante per te aggiornarti sulle ultime notizie, ma per me sarebbe prezioso poter stare con te prima che ci si separi per andare a lavoro”.

Ricordiamoci che non siamo destinati a reagire sempre allo stesso modo. Possiamo cambiare. Possiamo scegliere come rispondere. Una volta imparato questo, dopo aver sperimentato le possibilità che un nuovo modo di rispondere può regalarci, potremo scegliere e reagire secondo i nostri valori. Vivere è inevitabilmente essere costantemente sottoposti a stimoli, alcuni positivi e altri negativi. Ciò che non è inevitabile è come decidiamo di rispondere. E questo, è nelle nostre mani.

Dott.ssa Giulia Giacone

Psicologa – Psicoterapeuta

Per saperne di più…

Hayes, S.C., Strosahl, K.D., Wilson, K.G. (2013). ACT. Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy. Raffaello Cortina, Milano.
Kabat-Zinn, J. (2019). Dovunque tu vada ci sei già. In cammino verso la consapevolezza. Corbaccio, Milano.
Kang, J., Gruber, J., & Gray, J. R. (2013). Mindfulness and De-Automatization. Emotion Review, 5(2), 192–201.

 

Social Network e Sessualità

Gli scambi sui social network hanno il loro corso in un’intimità che non ha più confini.

Chi risponde sui social ad una richiesta di amicizia da parte di un utente sconosciuto, o parzialmente conosciuto, già compie un primo abbattimento di una barriera emotiva e convenzionale.

Le distanze tra individui diventano sempre meno ampie quando, prima di scambiarsi dei messaggi, si appongono delle reazioni, emoticon che identificano con quale stato d’animo la persona reagisce agli stimoli pubblici di un “amico” virtuale. Sono segnali importanti, che possono apparire nel loro ripetersi come sintomi inequivocabili di un’attenzione, carichi di sottointesi, proprio per il loro essere espliciti e sotto l’occhio di molti.

Lasciarsi contaminare dal social network produce l’immersione in un ambiente mentale ed emotivamente allettante, contiguo alla vita reale. Secondo uno studio condotto nell’Università di Chapel Hill in Nord Carolina, ogni volta che riceviamo un mi piace, il nostro organismo rilascerebbe una piccola scarica di dopamina, neurotrasmettitore che viene coinvolto nei fenomeni di ricompensa ma anche di dipendenza. Il bisogno di gratificazione da social crescerebbe nel tempo, proprio come accade ad un dipendente da sostanze e come accade in una relazione amorosa.

I social diventano così, un farmaco immersivo che dilata emotivamente chi lo usa per rappresentarsi, è un palliativo dell’ansia collettiva di allontanarsi anche momentaneamente dal quotidiano. Non è frequentato solo dai giovanissimi, ma anche da adulti che hanno sperimentato nel cambio di status un’efficace maniera per lanciare messaggi. Il potenziale seduttivo dei social network avviene sulla capacità di prolungare la propria “ombra digitale” attraverso frasi e foto postate. A creare intimità condivisa sono le immagini proprie, delle abitudini alimentari, delle ricorrenze. Ogni utente ambisce ad esporre un’immagine il più appetibile possibile di se stesso.

Se da un punto di vista esteriore il social network possa apparire “casto”, ciò che si osserva soprattutto negli ultimi anni è il sexting.

Per sexting intendiamo l’atto di inviare materiale sessualmente esplicito su dispositivi mobili o in generale nella rete. E’ un fenomeno che può trovare terreno fertile nei nuovi strumenti di social media, la cui funzione di videochiamata rappresenta una delle modalità privilegiate, soprattutto tra gli adolescenti, per esplorare le proprie fantasie e impulsi sessuali.

Il fenomeno del sexting, non risparmia nemmeno applicazioni “neutre”  come ad esempio WhatsApp. Per condividere materiale intimo o sessualmente esplicito, sempre più persone ricorrono ad applicazioni che utilizzano modalità di conversazione “end-to-end”, per le quali i messaggi scambiati hanno una visibilità ridotta nel tempo evitando il timore di eventuali ritorsioni qualora il rapporto con l’altro dovesse degenerare. Come ad esempio Telegramm e Snapchet.

L’ultimo fenomeno che lega il mondo dei social alla sessulaità è quello legato al social cruising e alle hook-up apps. In questo mondo le più famose app sono Tinder e Grindr, entrambe permettono attraverso un sistema di geolocalizzazione di individuare persone disponibili garantendo in pochissimo tempo la possibilità di mettersi in contatto con tanti potenziali partners sessuali e incontrarli di persona.

E’ importante soffermarsi e interrogarsi sugli effetti di questo mondo virtuale, potenziando la formazione, l’educazione e la prevenzione sociale, partendo dai più giovani, a volte ignari dei pericoli che si celano dietro l’utilizzo di queste app.

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo, Psicoterapeuta

Dovremo tutti essere femministi?

 

La parola femminismo è più antica di quanto si possa pensare. Anche se la nostra memoria la lega al secolo scorso essa è stata coniata nel 1882 da Hubertine Auclair.

Ancora prima nel 1792  Olympia de Gouges scrisse la dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina.

Le prime femministe si batterono in Francia per poter ottenere il diritto al divorzio.

Successivamente le donne, con il movimento delle suffragette, si batterono per il diritto di voto.

E’ stato a partire dagli anni sessanta del XX secolo che il femminismo si è organizzato come movimento per modificare la divisione sociale dei ruoli tra donne e uomini e mettere in discussione questa gerarchizzazione umana. I temi sono nuovi: sessualità, aborto, violenza domestica, contraccezione, parità sul posto di lavoro, abolizione del delitto d’onore.

Negli anni novanta il tema principale è l’abolizione del divario salariale ed una legislazione che protegga le donne dalle molestie sessuali sul lavoro.

Cominciano ad aderire al movimento le prime femministe islamiche e di colore.

La storia del femminismo è la storia della lotta contro uno stereotipo: che la donna è inferiore all’uomo, ma intorno ad esso ruotano tanti stereotipi. Una femminista è una che non si depila, che brucia i reggiseni, che è sempre arrabbiata, che vuole comandare lei. Stereotipi che guardano ad aspetti manifesti, perdendosi il significato dietro quegli aspetti: avere gli stessi diritti degli uomini.

Come ci ricorda la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie mille anni fa era normale che fossero gli uomini a dirigere gruppi sociali, perché il requisito per farlo era la forza e la struttura fisica. Uomini e donne hanno strutture fisiche differenti, questo è ovvio, ma al giorno d’oggi dove per dirigere dei gruppi lavorativi i requisiti sono di tipo intellettuale, creativo, e legati alle capacità di innovazione. Questi requisiti non sono legati alla forza fisica, non sono legati al genere sessuale di appartenenza, ma al fatto di essere esseri umani.

“Ci siamo evoluti, ma le nostre idee sul genere non si sono evolute molto”.

Per cambiare queste idee si deve partire dall’educazione, già in famiglia. Insegnare ai maschi che si è virili se si hanno soldi, muscoli, se non si mostrano emozioni di paura e dolore, significa ingabbiarli in uno stereotipo che renderà fragile la loro autostima.

Scrive ancora Chimamanda nel suo Dovremmo tutti essere femministi, che di riflesso educhiamo le femmine ad occuparsi dell’ego fragile degli uomini insegnando loro a non essere una minaccia per i maschi. “Sii ambiziosa, ma non troppo. Occupa la stessa posizione ma guadagna di meno.[…]  Siccome sei una donna devi aspirare al matrimonio. […] Non essere sposata è un fallimento personale”

Il problema del genere, ci ricorda Chimamanda, è che prescrive come dovremmo essere, invece di riconoscere come siamo. Saremmo più liberi senza il peso delle aspettative legate al genere.

Le femmine e i maschi sono diversi sul piano biologico, ma le altre differenze sono create a livello sociale.

Educhiamo i figli concentrandosi sulle capacità e sugli interessi, invece che sul genere.

Ma se il femminismo si occupa di diritti umani, perché chiamarlo femminismo? Si domanda questa scrittrice. La risposta è che scegliere di usare una definizione vaga come “diritti umani”, significa non tenere conto della specificità del problema del genere.

Femminista, conclude l’autrice, dovrebbe essere un uomo o una donna che riconosce che c’è un problema culturale legato al genere e che vuole fare meglio. Tutti noi, donne o uomini, dovremmo essere femministi.

Dr.ssa Luigina Pugno