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IL SOTTILE CONFINE TRA IL MANGIARE SANO E L’ORTORESSIA

Nel corso degli ultimi anni l’attenzione rispetto al tema dell’alimentazione è progressivamente aumentata, portando una parte più ampia della popolazione ad interrogarsi frequentemente sulla qualità della propria dieta, anche su suggerimento medico.
Nella società del benessere, l’abbondanza e di cibo e la sua facile accessibilità hanno portato molta attenzione su come ognuno di noi si rapporta al mangiare, facendo emergere una grande sfaccettatura di approcci diversi alla nutrizione, alcuni sani, altri patologici, altri talvolta patologici mascherati da sani: cosa si intende?
Il cibo è uno strumento di sostentamento per la sopravvivenza, ma è anche indubbiamente un rituale sociale, a volte uno strumento di consolazione per la gestione delle proprie emozioni, altre una prova di volontà per mantenere il controllo su di se’.
L’ iperfocalizzazione sul mantenere una sana alimentazione viene alimentata, soprattutto negli ultimi anni, dal proliferare di protocolli alimentari forniti gratuitamente o a pagamento attraverso la Rete e i Social Network, creando una maggiore attenzione sull’argomento, ma anche la diffusione di informazioni spesso non scientificamente verificate e false credenze. Questo meccanismo ha avuto l’effetto di accrescere un’ossessione per gli alimenti giusti e sbagliati e per la diffusione di stili alimentari restrittivi, sotto forma di varie tipologie di diete, più o meno ipocaloriche, fino ad approdare anche a veri e propri digiuni.
Perdersi all’interno di questo labirinto è davvero facile, soprattutto se non si è degli specialisti del settore e, all’interno di questo contesto, la linea di confine tra regimi alimentari sani e patologici, diventa sempre più sfumata: è pertanto davvero sottile la demarcazione tra alimentazione salutare e patologia, come nel caso dell’ortoressia.
L’ortoressia nervosa, termine che deriva dal greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito), viene descritta per la prima volta nel 1997 dal medico Steven Bratman e si configura nella condizione caratterizzata da un’ossessione patologica rispetto all’assunzione esclusiva di cibo sano.
Il desiderio di mangiare sano non è di per sé un disturbo dell’alimentazione: chi soffre di questa patologia però è controllato da un vero e proprio fanatismo alimentare, si verifica quando l’attenzione per la qualità del cibo assume le caratteristiche tipiche di un’ossessione, risultando pervasiva e costante, con significative ripercussioni negative e durature sulla qualità di vita dell’individuo.
La persona affetta da ortoressia arriva ad investire molto tempo della propria giornata a pensare al cibo, a quali alimenti evitare, a selezionarli e a prepararli, al fine di mantenere una buona condizione di salute, tanto da arrivare talvolta a sviluppare un complesso di superiorità basato sul cibo, che lo porta a disprezzare chi non mangia sano e allontanarlo dalla propria rete relazionale.
I pensieri intrusivi e ricorrenti sono esplicitamente relativi al cibo e alla salute, alla preoccupazione profonda per il rischio di contaminazione e impurità e al forte bisogno di organizzare e consumare i pasti secondo modalità ritualistiche. In modo analogo a quanto si verifica nei casi di DOC infatti, l’Ortoressia Nervosa influisce negativamente sulla qualità di vita degli individui, determinando un progressivo isolamento dall’ambiente sociale e una costante difficoltà nel portare a termine i compiti della vita quotidiana. Ciò che distingue l’Ortoressia dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo è la natura egosintonica dei pensieri ossessivi: gli ortoressici percepiscono infatti i contenuti delle proprie ossessioni, relativi alla qualità del cibo, come coerenti e in linea con i propri bisogni, credenze e valori.
In genere la patologia si sviluppa all’interno in un contesto che rinforza l’idea che alimentarsi in modo sano, concetto culturalmente accettato e condivisibile, persegua un’idea di salute e di bellezza: pertanto all’inizio è facile scambiare l’insorgenza dell’ortoressia con un semplice e benefico prendersi cura della propria salute correggendo comportamenti alimentari errati.

Alla base dell’insorgere della deriva patologica si riscontra spesso la paura di ingrassare o di non essere in perfetta salute (ipocondria), talvolta connesse ad una percezione distorta della propria immagine corporea: è la paura ad assumere le caratteristiche di una vera ossessione per il cibo, il quale perde la sua funzione di appagamento e diventa un veicolo per esercitare controllo e alleviare la tensione.
Le maggiori cause dell’ortoressia riguardano principalmente il bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti. Da una parte i modelli estetici dei mass media, spingono sempre di più le persone verso fisici innaturali (troppo magri e/o muscolosi), portando al sentirsi inadeguati ed esteticamente poco gradevoli.
Inoltre televisione, internet, canali on line, insistono sempre di più sulla possibile pericolosità del cibo (antibiotici, pesticidi, ormoni, conservanti, ecc.) creando ansie e preoccupazioni per la propria salute. Tuttavia, anche se bisognerà tenere alta l’attenzione per una miglior qualità degli alimenti, dobbiamo ricordarci che i cibi non sono mai stati controllati e sicuri come ai giorni nostri. Anche se il consumatore si sente sempre di più minacciato dagli interessi delle multinazionali del cibo, a livello normativo le regole, soprattutto in Europa, sono sempre più stringenti e severe. Questa falsa percezione di pericolo, porta molte persone a preoccuparsi eccessivamente della qualità del cibo, escludendo a priori e senza ragione, alcune categorie di alimenti. L’ipocondria e la paura di ammalarsi sono inoltre spesso ulteriori cause dell’ortoressia. Se il cibo ha una relazione diretta con la nostra salute, questo dipende sia dalla qualità, ma soprattutto dalla quantità. Non sono gli zuccheri o i grassi ad essere pericolosi di per sé, ma un loro consumo in eccesso: non servirebbe eliminarli completamente ma moderarli, senza ricorrere a restrizioni inutili.
Oggi sono largamente diffusi regimi alimentari diversi dal più diffuso onnivorismo, come il vegetarianismo e il veganismo, i quali quando seguiti e studiati in modo scientifico, gestiti da professionisti della nutrizione, sono in grado di conferire all’individuo un piano alimentare completo in cui sono presenti tutte le sostanze nutritive di cui l’essere umano ha bisogno per mantenere equilibrati e corretti i propri parametri di salute. Tuttavia è stato rilevato come queste scelte alimentari, più di altre, rischino, quando non vi sia conoscenza approfondita o siano presenti preconcetti ideologici di negazione di alcuni cibi, di diventare un fattore di rischio per lo sviluppo dell’ortoressia.
Il vegetarianismo è una scelta alimentare caratterizzata dall’esclusione delle carni di qualsiasi animale, che può avere alla base motivazioni etiche, principi religiosi, attenzione all’ambiente e alla salute. All’interno di questa pratica alcune persone scelgono regimi alimentari ancora più restrittivi tra i quali si distinguono poi delle sottocategorie, come il veganismo, il crudismo vegano e il fruttarismo. Hanno in comune l’esclusione di alcuni alimenti dalla dieta, differenziandosi però nella scelta di quali includere e quali no: il veganismo rifiuta qualsiasi forma di sfruttamento animale, dunque non comprende nella dieta alimentare né la carne, né i prodotti di origine animale; il crudismo vegano aggiunge al veganismo la limitazione ai soli cibi crudi, o cotti al di sotto dei 42°, perché più ecologici, più sani e più facilmente digeribili; il fruttarismo, invece, prevede un’alimentazione di sola frutta e ortaggi .
Quest’ultimo stile alimentare è associato, ancora più frequentemente dei precedenti, ad una vera e propria filosofia di vita connessa con un ritorno alle origini, secondo la quale è necessaria una maggiore attenzione alle richieste del corpo e la valorizzazione dell’istintualità. Quelle citate sono pratiche del tutto riconosciute e socialmente accettate, sempre più supportate da studi che ne dimostrano la sostenibilità e non rappresentano patologia.
Ciò su cui ci si intende soffermare però è la possibilità che dietro a stili alimentari legittimati dal contesto socio-culturale si possano nascondere situazioni che esulano da uno stile di vita consapevole e che piuttosto riguardino un rapporto problematico con il cibo. E’ necessario mantenere l’attenzione sulla linea sottile esistente tra una scelta sana e un utilizzo “strumentale” del cibo al fine di sostenere, più o meno consapevolmente, problematiche emotive: è infatti più frequente, all’interno della popolazione che intraprende queste tipologie di stili alimentari, che emergano a lungo termine disturbi legati all’alimentazione e alla salute fisica.

Ma, allora, come è possibile distinguere una scelta alimentare sana da una patologica? Quando uno stile alimentare può essere considerato “normale”?
E’ impossibile discriminare in modo dicotomico tra sanità e patologia. È però possibile cogliere la problematicità e la disfunzionalità di alcune situazioni in base al grado di flessibilità che propongono: un comportamento alimentare può essere considerato patologico quanto più assume caratteristiche di rigidità, pertanto la differenza starà nella modalità con cui viene messo in atto, nel significato che gli si attribuisce, nei simboli che il cibo veicola. È importante quindi interrogarsi sulla funzione specifica che il cibo ricopre e porre attenzione a quei comportamenti che, seppure comuni o condivisi, possono essere importanti segnali, se colti in tempo.
Lo scivolamento verso l’isolamento sociale è spesso un vero campanello d’allarme, in quanto esito di una scelta di vita rigida, che non può essere condivisa da chi non ha le stesse abitudini, che limita la compartecipazione al momento del consumo del cibo e fa emergere un atteggiamento di intolleranza verso chi non condivide le proprie scelte ideologiche, arrivando ad eliminare anche un semplice aperitivo o una pausa caffè.
Le persone che si affacciano alla patologia ortoressica, iniziano a mettere in atto moltissimi comportamenti di evitamento, inventando scuse di circostanza fino al rendere impossibile andare al ristorante o accettare un invito a cena: l’attenzione maniacale alla qualità del cibo diventa un valore morale, compromettendo le relazioni sociali, lavorative e affettive e minando il funzionamento globale e il benessere dell’individuo, oltre che il proprio benessere fisico.
Nelle persone ortoressiche il cibo si associa spesso a pratiche sportive frequenti, pianificate rigorosamente e talvolta estenuanti. Allenamenti e cibo diventano strumento per definire il proprio senso di identità, ma allo stesso tempo, per via del rigido controllo che richiedono, tendono a condurre la persona verso l’isolamento sociale e alla compromissione della vita relazionale e talvolta lavorativa. Il mantenimento della forma fisica e del regime alimentare restrittivo, inducono a sperimentare un senso di superiorità rispetto agli altri, viceversa in caso di sgarro o di discontrollo l’acuirsi di sentimenti di colpa e fallimento, spesso mascherati da una ricerca del limite come sfida con se stessi in termini di ambizione agonistica.
Il grande paradosso è che partendo dall’idea di voler tutelare la propria salute attraverso cibo sano e attività fisica, queste persone arrivano a depauperare il proprio stato di salute, procurandosi squilibri nutrizionali e complicazione mediche.
Quando diagnosticata, la cura dell’ortoressia non è affatto semplice: alla luce della ferma convinzione di agire in modo corretto, le persone che soffrono di questa patologia sono estremamente sicure delle loro convinzioni, che diventano veri e propri ideali di purezza interiore. Il loro senso di superiorità nei confronti di chi non esercita un simile autocontrollo, il rifiuto nel riconoscere il loro problema porta a non investire e impegnarsi attivamente nel trattamento.
Un trattamento efficace pertanto deve essere graduale e procedere, da un lato, attraverso un lavoro sulle emozioni (in particolare, sulle paure di contaminazione e di malattia che mantengono l’ossessione) e, dall’altro, una reintroduzione dei componenti alimentari eliminati, puntando anche su eventuali malesseri fisici che possono essere causati dalla dieta squilibrata. E’ indispensabile che chi soffre di ortoressia si riappropri di una corretta percezione del proprio corpo, affinché questo non venga più privato di nessun principio nutrizionale, soprattutto quelli contenuti in dolci e grassi (può essere utile sottolineare l’importanza della tradizionale piramide degli alimenti per l’equilibrio alimentare).

Riguardo la tipologia di trattamento, esistono evidenze scientifiche di esiti positivi con l’utilizzo di trattamenti combinati di psicoterapia cognitivo-comportamentale e farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) (Bryteck-Matera, 2012), tuttavia il rischio di drop out è elevato. Il trattamento dell’ortoressia dovrebbe avvalersi di un’équipe multidisciplinare composta da psicoterapeuti, medici e dietisti, attraverso un’azione integrata tra il paziente e la famiglia.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologa – Psicoterapeuta

IL MASSAGGIO SHANTALA

Tra il giorno e la notte non indugia forse l’alba 

e la lenta, maestosa gloria dell’aurora?

Lasciate alla nascita la sua lentezza e la sua gravità

(F. Leboyer)

È noto oramai da tempo l’importanza del tocco e dell’abbraccio nei confronti dei bambini e, per la verità dei “cuccioli” in genere: si pensi al leccamento che gli animali riservano ai loro cuccioli, cos’è se non una forma di carezza?!

Nell’ambito degli studi psicanalitici Donald Winnicott è stato il primo a definire tra i ruoli della funzione materna la cura del bambino proprio attraverso il tocco e le mani. Secondo Winnicott, infatti, la formazione e crescita del Sé oltre ché l’adeguata coesione psiche-soma passa attraverso l’esperienza tattile. Sono le capacità materne di tenere in braccio il bambino (holding) e la capacità di toccarlo e manipolarlo (handling) che consentono l’acquisizione e l’elaborazione delle esperienze sensoriali e motorie che andranno a costituire la base del vero Sé.

L’holding comprende quelle attività quali tenere in braccio il bambino mentre lo si allatta, cullarlo mentre lo si addormenta, insomma il contenimento fisico che diventerà poi conseguentemente anche contenimento emotivo. L’handling è per l’autore inglese un toccare meno stretto e coinvolgente che ritroviamo in tutti quei gesti con le mani che la madre compie quando si prende cura del suo bambino, quando lo veste, lo accarezza, lo lava. 

Per comprendere ancor meglio l’importanza di toccare e contenere i neonati con gesti delicati, ma avvolgenti basta provare ad immaginare le sensazioni che il bambino sperimenta per 9 mesi e che poi si interrompono bruscamente per catapultarlo in un mondo totalmente nuovo e a tratti spaventoso. 

Il tepore uterino, le luci e i suoni offuscati, il lento cullare dei movimenti materni, lasciano improvvisamente spazio a sensazioni mai sperimentate e a tratti violente. Nell’utero il neonato è protetto, avvolto, coccolato, al di fuori la perdita del confine conosciuto, determina un forte stress che, per esempio, i neonati pretermine conoscono molto bene. Numerose ricerche hanno evidenziato come il contatto pelle a pelle, il contenimento e la vicinanza fisica migliorano nei neonati ospedalizzati le principali funzioni vitali (attività cardiocircolatoria, respiratoria, neuromotoria e sensoriale, digestiva, dell’organizzazione del sonno).

Frederick Leboyer è il ginecologo francese che ha introdotto in sala parto pratiche dolci per agevolare il più possibile il contatto mamma bambino ed ha per primo sottolineato in occidente l’importanza del contatto fisico e del massaggio infantile sin dai primi momenti dopo il parto. 

I piccoli hanno bisogno di latte – diceva – ma più ancora di essere amati e di ricevere carezze come modo per ristabilire l’equilibrio che c’era prima nella nascita, per fare ri-sentire al bambino quel calore, quel contatto, quel senso di appartenenza sperimentati nel grembo materno. 

Nel libro “Shantala. L’arte del massaggio indiano per far crescere i bambini felici”, Leboyer parla della donna che vide praticare il massaggio Balabhyangam, tratto dalla tradizione indiana e dalla medicina ayurvedica.

Il massaggio che oggi viene solitamente chiamato proprio col nome di quella donna – Shantala – è una forma di massaggio molto delicato, in cui si compiono una serie di movimenti lenti e rilassati proprio per ricreare quelle dolci sensazioni e quel legame presente nella vita intrauterina. 

Gli effetti benèfici riscontrati riguardano la diade caregiver/bambino facilitando la creazione del legame e di momenti rilassanti e positivi per entrambi. Il massaggio, infatti, sia per chi lo riceve che per chi lo pratica aumenta la produzione di ormoni quali endorfine e ossitocina che favoriscono sensazioni positive e abbassano il livello di stress percepito. 

Tutto questo favorisce nel bambino il rilassamento profondo, la regolazione del ritmo sonno veglia, la prevenzione delle coliche gassose, il rafforzamento del sistema cardiocircolatorio e immunitario oltre che lo sviluppo della percezione di sé e il senso di sicurezza interno. 

Può essere praticato sin dai primi giorni dopo la nascita, anche se può essere più indicato aspettare almeno dopo il primo mese, anche per permettere la completa cicatrizzazione del cordone ombelicale. Non richiede una durata determinata, anzi sarà proprio il bimbo a darci indicazioni su questo, manifestando qualche volta una maggiore attitudine altre volte un netto rifiuto. Come dicevamo non richiede nemmeno uno studio preciso di movimenti da praticare, ma piuttosto un assetto mentale in cui porsi. 

L’Associazione Eco all’interno del suo Progetto “Mentre aspetto te, mi prendo cura di me”, proporrà alle neomamme incontri in piccoli gruppi dove poter non solo apprendere il massaggio Shantala, ma anche ritrovare uno spazio dove sentirsi accolte e ascoltate. 

Dott.ssa Chiara Delia

Psicologa – Psicoterapeuta

DALLA SEPARAZIONE ALLA FAMIGLIA ALLARGATA

“Cari genitori separati, Non usate i figli come ostaggio”

Papa Francesco

 

Le separazioni legali rappresentano ancora oggi in Italia il fenomeno più rappresentativo dell’instabilità coniugale. Nei primi nove mesi del 2021 l’aumento rispetto allo stesso periodo del 2020 (+36,4% per le separazioni e +32,8% per i divorzi) riporta a livelli simili a quelli del 2019 annullando gli effetti della pandemia che avevano visto una riduzione.

Secondo Robert Neuburger (2004), se qualche decennio fa promettersi fedeltà “finché morte non ci separi” implicava un impegno limitato nel tempo a causa dell’alto tasso di mortalità, oggi, invece la promessa di una relazione stabile, si proietta in un futuro a lungo termine, sulla base delle aumentate aspettative di vita. Pertanto è plausibile che molte coppie entrino in crisi: può succedere subito (un picco delle separazioni si registrano già nel primo anno), in corrispondenza del fatidico settimo anno oppure più tardi, quando l’emancipazione dei figli porta la coppia a fare i conti con il cosiddetto “nido vuoto” quel passaggio  in cui vede esaurirsi la funzione di coppia genitoriale per fare spazio nuovamente a quel “tu e io”della coppia conuigale (Cirillo, 2018).

In funzione delle situazioni in cui la coppia viene a trovarsi è auspicabile e doveroso che i genitori si interroghino sulle conseguenze che la separazione potrà avere sui propri figli, soprattutto se ancora piccoli. La separazione se da una parte può essere vissuta con un profondo senso di fallimento per il progetto in cui ciascuno aveva creduto e investito, dall’altra può essere vista anche come una risoluzione magica offrendo a sé stessi e ai propri figli un nuovo legame, privo delle caratteristiche negative di quello attuale.

Una prospettiva del genere può rivelarsi estremante dannosa, non si può delegare al “nuovo” partner la risoluzione dei propri problemi esistenziali, al contrario si corre il rischio trascinare i figli in una situazione altrettanto dolorosa. E’ logico e umano coltivare la speranza di un futuro migliore, ma ciò si potrà raggiungere solo se si ha la consapevolezza della propria parte di responsabilità nella fine della relazione.

Ogni separazione ha in se una componente più o meno intensa di aggressività, che come un carburante alimenta il difficile processo separativo, se così non fosse non ci si separerebbe. Tuttavia, sopratutto in presenza di figli, è bene allargare l’orizzonte ricordando anche i momenti positivi che hanno caratterizzato la relazione (Cirillo, 1989). Riguardate con i bambini le fotografie dei momenti felici che avete vissuto tutti insieme per ricordare a loro che sono frutto di questi momenti e soprattutto non abbiate paura che i bambini piangano, siano tristi e arrabbiati: è una tappa che devono attraversare. Devono elaborare il lutto della famiglia unita per poterla lasciare andare.

Quando dirlo?

L’annuncio della separazione deve essere accuratamente ponderato dai genitori. Infatti, non si può agire pensando di poter tornare sui propri passi o farlo per valutare la reazione dei propri figli. Dopo aver dato la comunicazione, occorre comportarsi di conseguenza evitando oscillazioni destabilizzanti. Pertanto se la coppia sta ancora tentando di gestire la crisi è bene mantenere la discrezione per non coinvolgere i figli nel conflitto.   

Molti genitori tendono a procrastinare la comunicazione in vista delle condizioni adatte e pensando che i figli non si accorgano della situazione in atto. Al contrario, i bambini vivono la quotidianità familiare e, dunque, si rendono conto se qualcosa sta cambiando. Sono abili osservatori e percepiscono i mutamenti nel clima familiare e nei comportamenti non verbali.

Prima di comunicare la separazione, è fondamentale che i genitori si accordino su come farlo, mettendo da parte il rancore e la tristezza individuali per concentrarsi sul bene dei propri figli (Cirillo, 2018).

Quando i genitori sono sicuri di volersi separare, è importante parlarne con i propri bambini, con lo scopo di chiarire la situazione prendendosi tutto il tempo necessario. I figli avranno bisogno di tempo per elaborare la notizia.

Come dirlo?

Una delle prime preoccupazioni delle coppie che hanno deciso di separarsi è in che modo comunicarlo ai figli. I genitori si sentono inevitabilmente in colpa nell’infliggere una sofferenza al proprio figlio e cercano in tutti i modi di trovare le giuste parole per cercare di attutire l’impatto di questo tipo di comunicazione. Purtroppo ciò è impossibile, ricorrere a bugie o mezze verità renderebbe ancor più dolorosa la situazione, la verità per quanto dolorosa, va detta. La separazione dovrebbe essere comunicata con chiarezza e coerenza, in termini comprensibili per l’età dei bambini e possibilmente con i genitori insieme. Questa scelta di parlare insieme rassicura implicitamente i figli che potranno contare su entrambi i genitori, i quali appaiono ai loro occhi come una squadra unita da un compito comune. Allo stesso modo anche i genitori si rafforzeranno in un’immagine positiva della loro capacità di collaborare. Non sempre però è possibile comunicare insieme la decisione di separarsi, spesso accade che la separazione è subita da uno dei due partner a seguito di comportamenti inaccettabili dell’altro, in tal caso è impensabile che il discorso ai figli venga fatto di comune accordo: è meglio che ciascuno per conto proprio comunichi la decisione presa con la consapevolezza che i figli hanno bisogno di conservare un’immagine sufficientemente positiva di entrambi i genitori, evitando così di creare possibili schieramenti.  Se analizziamo un certo numero di famiglie separate, è possibile rintracciare con una certa regolarità la seguente dinamica:

  • il genitore che è andato via, aveva un rapporto più debole con il figlio già prima della separazione;
  • il genitore che resta ha vissuto la separazione come un vero e proprio torto;
  • il bambino si assume il compito di riparare le ingiustizie proteggendo il genitore abbandonato o castigando l’altro.

Massimo Recalcati (2013) nel suo libro Il complesso di Telemaco, dice: “Non è l’assenza del padre a essere traumatica in sé stessa , dipende da come essa viene trasmessa simbolicamente dalla madre”, in generale il genitore ferito potrebbe  trasmettere tutto il suo dolore al figlio creando così un’alleanza, ma con la conseguenza ultima di avere accanto a sua volta un figlio amareggiato e irrimediabilmente ferito dalla convinzione di avere un padre irresponsabile e disinteressato. I figli non solo devono essere tenuti fuori, ma desiderano rimanere fuori dalla sfera privata dei genitori e il confine tra le generazioni va attentamente presidiato.

Accettare le emozioni negative

Precipitarsi a rassicurare il figlio che per lui non cambierà niente e che i genitori continueranno a volergli bene significa omettere che invece il cambiamento ci sarà. 

E’ importante riconoscere e accettare le emozioni negative rabbia, tristezza e paura del bambino e allo stesso tempo rassicurarlo spiegandogli chiaramente che i genitori gli resteranno accanto per aiutarlo prima a sopportare e poi, piano piano, a superare le emozioni e le difficoltà che incontrerà, senza mai minimizzare il dispiacere che sta provando in quel momento poiché la sua visione di sé inserito in una famiglia unita viene sconvolta (Cirillo,2018).

Alcuni bambini possono attribuirsi la colpa delle liti tra i genitori e della separazione. E’ quindi importante che la spiegazione sia concreta e chiara, per evitare che elaborino autonomamente un racconto. Altri possono manifestare la paura dell’abbandono per cui diventano più insicuri quando sono soli, faticano nei distacchi dai genitori e chiedono continue rassicurazioni, altri ancora possono mostrarsi indifferenti alla separazione, è bene in questi casi interrogarsi sull’autenticità dei sentimenti apparenti. Può capitare che alcuni figli mostrino disturbi nell’alimentazione, nel sonno e comportamentali, a volte compiendo delle regressioni come chiedere di dormire nel lettone.

Questi comportamenti possono essere comprensibili in funzione del periodo che stanno vivendo, ma non devono essere sottovalutati se si protraggono a lungo.

Spesso gli adulti sono convinti che le informazioni comunicate una volta vengano subito comprese e interiorizzate, ma non è così, poiché ciascuno di noi rielabora a modo proprio le informazioni che riceve. Sulla base di ciò possiamo quindi immaginarci quanto faticano i bambini a fare propria un’informazione inattesa come quella della separazione dei propri genitori.

Dove parlarne?

Spesso capita che i genitori decidano di comunicare la loro decisione in un ambiente neutro e gratificante come può essere per esempio andare a mangiare una pizza un gelato o fare una passeggiata al parco, con l’obiettivo di trasmettere serenità e quasi sminuendo quel momento specifico. Invece, il luogo migliore per questa comunicazione è casa propria, in quanto è un posto sicuro in cui i figli possono reagire spontaneamente e  non sono inibiti dalla presenza di estranei e situazioni nuove.

Sarebbe meglio non dare l’annuncio in cameretta per evitare che un luogo sicuro e personale sia invaso e conservi in sé il ricordo di quella comunicazione. Inoltre, è utile anche dare loro la possibilità di allontanarsi e chiudersi in camera propria se ne sentiranno il bisogno.

L’ago della bilancia 

I genitori spesso si illudono che il bambino non senta (“Di solito discutiamo dopo cena, quando lui è a letto”) o comunque non capisca (“è troppo piccolo per capire”), in realtà i bambini, sono attentissimi a cogliere  i segnali di malessere di mamma e papà e non per altruismo, ma per la propria sopravvivenza: è di vitale importanza che i genitori stiano bene per potersi occupare  efficacemente di loro (Cirillo, 1989).

Quando i figli si muovono su un terreno minato, la prima precauzione che imparano a prendere è quella di non raccontare mai a un genitore quello che fanno a casa dell’altro. Inoltre fino ad una certa età, i bambini si correggono se i grandi non sono contenti della loro risposta, poiché per loro non c’è  una risposta vera e una falsa, ma una giusta e una sbagliata, se una non va bene provano con l’altra (CAM, 2006). 

A scuola

Il sentimento negativo a cui sono maggiormente esposte le nuove generazioni è la vergogna, poiché una delle cose cui i bambini aspirano maggiormente a essere come gli altri, uniformarsi ai coetanei. Il genitore può fornire al proprio figlio una risposta semplice e chiara che possa soddisfare la curiosità dei suoi compagni, evitando il sentimento di vergogna (Omer, 2016). La condizione di figlio di genitori separati non è che una delle numerose varianti della famiglia umana e non una differenza che implica un giudizio di valore. Un’altra questione importante è “se” e “come” parlarne con gli insegnanti. Se la separazione avviene durante un ciclo o nell’anno scolastico è importante parlarne con gli insegnanti per evitare di esporre il bambino a commenti fuori luogo, ma allo stesso tempo è necessaria una comunicazione  di tipo neutro che si limiti ad esporre il fatto senza caricarlo di una nota drammatica che  accentuerà il senso di vergogna. In ultimo, evitate di offrire una spiegazione stereotipata per qualunque difficoltà di vostro figlio: “è distratto perché ci siamo separati,… è aggressivo con i compagni perché ci siamo separati”.

Dalla famiglia nucleare a quella allargata

Negli ultimi tempi a seguito di un separazione o divorzio, si assiste sempre di più al fenomeno sociale della famiglia allargata in cui sono presenti anche i nuovi partner dei genitori, con le loro relative famiglie, e gli eventuali figli della nuove coppie.

In altre parole, al nucleo familiare precedente si aggiungono altri membri, e questo porta alla formazione di relazione interpersonali inedite che non riguardano più solo genitori e figli, ma anche altre figure, come genitori e fratelli acquisiti. Vivere in una famiglia allargata dunque, pone molte criticità e questioni da affrontare. Costruire una famiglia allargata è un processo delicato, fondato su momenti importanti e che richiede tempo. Cercare di venire incontro ai bisogni di ciascuno, e avere predisposizione all’ascolto e alla pazienza sono i primi passi per creare un nuovo equilibrio. È di fondamentale importanza, quindi, che i genitori:

  • Abbiano un rapporto sereno e di fiducia tra di loro e con i bambini
  • Continuino a essere un punto di riferimento per i propri figli
  • Rispettino i tempi di adattamento dei propri figli.

Inoltre, per gestire una famiglia allargata è importante che nessuno dei componenti si senta escluso. Il rispetto reciproco, e il rispetto del proprio ruolo all’interno della nuova formazione familiare permettono di costruire rapporti sani e sereni e costruttivi (Van Cutsem, 1999).

Accordini, utilizza con il termine “dissincronia” per spiegare come nelle famiglie allargate, i cicli di vita familiari, coniugali e individuali siano spesso in conflitto tra di loro (Accordini, 2017).

In una “prima” famiglia, i partner arrivano insieme alla convivenza, insieme diventano genitori e insieme affrontano le sfide dell’educazione dei figli, al contrario in una famiglia allargata, i figli sono già presenti quando la coppia si forma e la neo coppia senza aver avuto la possibilità di consolidare il loro rapporto, si trova subito a dover fare delle scelte educative. Un’altra caratteristica è che spesso i due partner abbiano età differenti e che si trovino dunque in una tappa differente della propria evoluzione personale, per esempio l’aver avuto figli riguarda quasi sempre uno solo dei due per cui la genitorialità non solo precede la formazione della coppia ma spesso non è neanche un’esperienza condivisa. In presenza di figli provenienti da legami precedenti, le nuove unioni si muovono su equilibrio delicatissimo, tra la capacità del nuovo arrivato di saper stare al proprio posto, rispettando il ruolo del genitore “vero” e il desiderio di stabilire una relazione affettiva con il figlio del partner, trovando la giusta misura di coinvolgimento, né troppo né troppo poco.

L’esperienza mostra come le donne si lascino coinvolgere di più nella relazione con il figlio del partner, quasi volendosi sostituire alla mamma in una specie di competizione tra donne, gli uomini invece, sono più inclini a mantenere una certa distanza e indifferenza. In questi casi, è possibile assistere a crisi di gelosia dell’uomo nei confronti del legame che la compagna mantiene con il figlio. Per questo è fondamentale in presenza di figli, scegliere un compagno che abbia il desiderio di svolgere un ruolo genitoriale. 

Una famiglia allargata necessita di confini flessibili che tengano conto di tutti i membri e della nuova costituzione ma che allo stesso tempo quando è necessario sappia riconoscere e rispettare l’identità dei due nuclei originari, solo questa flessibilità potrà legittimare l’esistenza della famiglia allargata che si è andata a formare.

 

Dott.ssa Angela Pia Giampalmo

Psicologa- Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

  • Accordini, M., La specificità della famiglia ricomposta, in Vetere, M., La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico, Roma, Alpes Italia, 2017.
  • CAM-Centro ausiliario per problemi minorili. I figli dei genitori separati. Ricerca e contributi sull’affidamento e la conflittualità. Milano, Franco Angeli, 2006.
  • Cirillo, S., Le famiglie allargate. Separazioni, divorzi e nuove unioni. Le letture di Gedi, Roma 2018.
  • Cirillo, S., e Di Blasio, P., La famiglia maltrattante. Diagnosi e terapia. Milano, Raffaello Cortina, 1989.
  • Neuburger, R., Nouveaux couples, Parigi, Editions OdileJacob, 2004.
  • Omer, H., La nuova autorità. Famiglia, scuola e comunità, Milano ed. Ermes, 2016.
  • Recalcati, M., Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre. Milano, Feltrinelli, 2013.
  • Van Cutsem, C., Le famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico, Roma, AlpesItalia, 2017.

LA PIGRIZIA ESISTE?

La pigrizia andò al mercato

ed un cavolo comprò.

Mezzogiorno era suonato

quando a casa ritornò.

Mise lacqua, accese il fuoco,

si sedette e riposò.

Mentre il sole a poco a poco

dietro i monti tramontò.

Così, persa ormai la lena,

sola al buio ella restò

ed a letto senza cena

la meschina se ne andò.

E. Berni

Nel mio lavoro di psicoterapeuta, mi capita spessissimo di imbattermi nel concetto di pigrizia. Molti miei pazienti hanno la convinzione di essere pigri e che per questo loro “difetto” non riescono a stare al passo con le richieste del lavoro, della casa, della società. Si sentono perdenti nel confronto con gli altri che invece sembrano più “performanti”.

Ho sempre trovato interessante il concetto di pigrizia e il fatto che, comunemente, venga associato ad una sorta di difetto di nascita.

Lo possiamo vedere anche nelle definizioni della Treccani:

pigrìzia s. f. [dal lat. pigritia, der. di piger «pigro»]. – Il fatto d’esser pigro; la qualità, e quindi anche l’atteggiamento, il comportamento di chi è naturalmente pigro nell’agire, nell’operare, o anche soltanto nel muoversi

pigro agg. [dal lat. piger -gra -grum]. – 1. a. Di persona che, per natura, rifugge dalla fatica, dallo sforzo, dall’impegno fisico o intellettuale, e dall’azione in genere, o che agisce e opera con lentezza e senza entusiasmo

Pigri lo si è per “natura”, dunque, ma al contempo si viene biasimati per questo, come se ci si dovesse sforzare di invertire questa stortura. 

Questa visione mi ha sempre convinta poco, perché mi dava l’impressione che cozzasse con l’evoluzione della specie. Dubito che in natura ci sia spazio per un’indole pigra: l’agire umano, di solito, è teso alla sopravvivenza e la pigrizia non è funzionale. Inoltre, fin da piccolo il cucciolo d’uomo è caratterizzato dalla curiosità: il suo modo di crescere e maturare è sostanzialmente legato al fare esperienza del mondo e delle sue leggi e, se osserviamo i neonati, possiamo vedere chiaramente questa tensione verso il comprendere, il collegare, l’esperire. Così come si coglie chiaramente la soddisfazione che traggono dal saper fare e dal mostrarlo agli altri.

Dopodiché l’uomo tende anche a riposarsi, è vero, ma anche questo è funzionale alla sopravvivenza. Col riposo, assolviamo ad una serie di compiti fondamentali al nostro organismo e alla nostra mente. Non ultimo, il fatto che mentre dormiamo riorganizziamo le informazioni e le esperienze appena raccolte e le immagazziniamo, aggiungendo conoscenza ai nostri modelli del mondo. Pertanto dormire, rientra in parte nel processo di apprendimento! 

Tuttavia, quando parliamo di persona pigra, di solito non intendiamo una persona che dorme molto, piuttosto una che, come dice la Treccani, rifugge dalla fatica e dallo sforzo. 

Da psicologa tendo a interrogarmi su ciò che guida o non guida l’agire umano e dunque questo aspetto del voler fuggire da un’esperienza di frustrazione mi ha attivata e ho cominciato a chiedermi quand’è che le persone, invece, affrontano la fatica e lo sforzo con buona lena. Di solito, avviene quando sono molto motivate. Quando la motivazione è sufficientemente alta, le persone manifestano una tenacia e una resistenza notevoli, anche di fronte ad ostacoli importanti. 

È possibile dunque che la pigrizia sia più semplicemente mancanza di motivazione? E che la mancanza di motivazione porti a tralasciare o rimandare un compito percepito come frustrante? E in tal caso non potremmo allora forse, più propriamente, chiamare la pigrizia procrastinazione?

Ho fatto un po’ di ricerche per verificare questa ipotesi e ho avuto, innanzitutto, conferma del fatto che l’essere umano ha una naturale tendenza ad agire, produrre e scoprire, perché questo è funzionale alla sua crescita e alla sua sopravvivenza. A ciò si aggiunge, anche, il naturale bisogno di gratificazione e di approvazione per i risultati raggiunti. Questa spinta fa parte della Piramide dei bisogni di base di Maslow e ci ricorda che la tendenza a produrre non riguarda solo noi come individui, ma anche la nostra rete sociale perché il progresso di uno è il progresso di tutti. Forse è proprio per questo che, storicamente, la pigrizia si accompagna al biasimo sociale. 

Se ci pensiamo, il cattolicesimo l’ha inserita col termine accidia nei 7 peccati capitali, in quanto le persone accidiose rifiutano la vita, si lasciano andare alla noia, all’inerzia, al non far nulla, non mettono a frutto i propri doni. E questo era considerato un torto verso Dio e verso gli altri.

L’operosità, invece, è sempre stata ritenuta una virtù da lodare. La fatica, il lavoro, avvicinavano l’uomo a Dio e lo facevano entrare nelle sue grazie. Ci portiamo uno strascico di questa visione quando nelle società occidentali giudichiamo negativamente la moralità delle persone povere, bollandole appunto come pigre, indolenti, con poca voglia di lavorare e di elevarsi dalla loro condizione. In questo c’è molto del capitalismo, ovviamente, ma il capitalismo ha a sua volta in sé molto della morale calvinista che porta il ragionamento all’estremo: chi lavora e ha successo è stato baciato dalla benevolenza di Dio; chi è povero è fuori dalla grazia divina per i suoi peccati ed è dunque macchiato da un difetto morale, causa della sua condizione. 

Tralasciando gli aspetti religiosi, è innegabile che esser bollati come pigri risulti ancora oggi una condanna. I bambini che faticano nel fare i compiti e vengono tacciati di pigrizia, finiscono per perdere ancora più la motivazione. Se le difficoltà che sperimentano sono già frustranti, veder misconosciuto il problema o l’impegno aggrava la perdita di motivazione e così la nomea di indolente diventa una profezia che si autoavvera.

La stessa cosa succede quando siamo noi stessi a chiamarci pigri, magari perché condizionati dalla facilità con cui affibbiamo questo aggettivo anche agli altri. “Se non riesco, se faccio fatica, se non sento la spinta è perché ho un difetto di nascita: sono pigro. E dovrei sforzarmi di lottare contro questa mia natura, ma poiché sono pigro rifuggo dalla fatica e allora non posso cambiare”. Questa è una visione paralizzante per chiunque, toglie spazio a qualsiasi tensione verso un miglioramento; è una condanna alla quale non si può sfuggire. 

Quanto cambia se invece escludiamo la pigrizia dal quadro e ipotizziamo che se non riusciamo, facciamo fatica, non sentiamo la spinta forse è perché manca qualcosa? Se c’è una mancanza, c’è un bisogno. Questa è una visione che apre a delle domande: “cosa mi manca? di cosa ho bisogno? come posso colmare questo bisogno? posso colmarlo da solo o mi serve che il contesto mi venga in aiuto?” 

Ecco che si fa spazio la ricerca di risposte, che porta in sé azione, problem solving, curiosità e un ventaglio di possibilità. 

Ovviamente, talvolta la risposta è molto intuitiva e ciò che manca non è altro che l’energia per fare e progettare. In tal caso, se non si è in presenza di una condizione fisica o mentale, il bisogno da soddisfare è semplicemente quello del riposo. 

Tralasciando questo scenario, alla domanda “Cosa manca?” la psicologia ha più spesso dato la mia stessa risposta: motivazione.

Dunque, gli esseri umani da cosa traggono motivazione? Di solito, dall’avere un obiettivo, un progetto da raggiungere che vada nella direzione di soddisfare un loro bisogno. 

Sembra facile, ma non lo è! 

Capire quali sono i nostri obiettivi non è scontato e capita spesso che le persone ne scelgano alcuni che sono in realtà distanti dal loro essere o magari indotti o guidati da aspettative esterne. Soffermarsi a chiederci quale bisogno ci guida, quale bisogno stiamo cercando di soddisfare e perché, può essere una buona bussola per sfrondare gli obiettivi ingannevoli. 

Nel mondo moderno, gli obiettivi più motivanti sono solitamente legati ai bisogni di autonomia (essere indipendenti, poter dirigere la nostra vita), di padronanza (crescere e migliorarsi) e di scopo (la pulsione a servire qualcosa di più grande di noi). 

Una volta compreso quale potrebbe essere un obiettivo valido, esso va scomposto in piccoli passi. Non c’è nulla che ci faccia perdere la motivazione come trovarci di fronte ad una montagna che sembra insormontabile. Gli obiettivi devono infatti essere raggiungibili per motivarci, rientrare in quella che Vigotskij chiamava “zona di sviluppo prossimale”. Un obiettivo ci spinge all’azione se si trova appena al di fuori delle nostre competenze, della nostra zona di comfort, perché mette in moto il desiderio di migliorarci quel tanto che basta per agguantarlo. Al contrario, un fine che si trovi troppo al di là della nostra capacità di sviluppo, finirà per somministrarci dosi massicce di frustrazione quotidiana che minano il nostro senso di autoefficacia e bloccano l’iniziativa. 

Per esemplificare, possiamo dire che è utile non concentrarsi sull’intera scala, non guardare alla sua sommità, ma interessarsi solo al singolo gradino. Una vota che il progetto è tracciato, il compito va, come dicevo, scomposto nelle sue singole parti che lo rendono maneggevole, avvicinabile. Ogni parte, ogni gradino sfida ovviamente una nostra capacità, ma quel tanto che basta per permetterci di raggiungere il gradino successivo e sfruttare la spinta della gratificazione ottenuta dal piccolo successo raggiunto. Alla fine della scala avremo pian piano sviluppato tutte le competenze necessarie, che a guardar troppo in lungo ci sembravano soverchianti. 

Detto questo, per gli esseri umani non è sufficiente che l’obiettivo corrisponda ad un mero calcolo di costi-benefici/sforzi-risultati. Le ricerche hanno ben presto messo in luce che, in quanto esseri irrazionali, la gratificazione derivante dal solo raggiungimento dell’obiettivo spesso non è abbastanza per tenerci motivati, specie sul lungo periodo. Ci serve anche sentirci coinvolti nell’esperienza creativa, entrare in uno stato di flusso, perfettamente presi e immersi nell’attività che stiamo facendo, alimentati dal puro piacere di farla. Quando si raggiunge questo stato di motivazione intrinseca, lo scopo viene raggiunto senza quasi percepirne lo sforzo. Ovviamente, non tutti gli obiettivi che ci diamo possono condurci allo stato di flusso, ma sarebbe bene tenere presente che un buon obiettivo dovrebbe stimolare anche un lato di gioco e di divertimento. 

Se usiamo queste lenti per accostarci alla questione, possiamo vedere che una persona che procrastina non è una persona pigra: è una persona con dei bisogni inevasi che deve capire come colmare e spesso è anche alle prese con emozioni negative. 

Di solito, infatti, se si chiede alle persone “pigre” come si sentono all’idea di fare quel che stanno rimandando si otterranno risposte tipo:

  • Ho l’ansia 
  • Ho paura di sbagliare o di fallire 
  • Temo che gli altri possano giudicare il mio operato 
  • Non penso di farcela o di averne le capacità
  • Non so da che parte cominciare 
  • Temo che gli altri scoprano che non sono bravo come pensano 
  • Temo di scoprire che io non sono capace come penso 

Non è difficile notare che, allora, una persona che procrastina è spesso una persona che si sta autosabotando. Evitare un compito che ci spaventa o ci mette ansia è un modo di proteggerci, di evitare di mettersi in gioco pensando così di preservare la nostra autostima da una eventuale caduta. 

In realtà però, ogni volta che ci tiriamo indietro la nostra autostima si abbassa, perché essa non è alimentata solo dal successo, ma più spesso dal sapere di aver tentato. Il tentativo, inoltre, anche se imperfetto, ci regala il feedback necessario a correggere il tiro e a riprovare, alimentando la spinta a migliorare. 

È da tener presente, infine, che l’autosabotaggio può essere anche controintuitivo. Alle volte, cioè, evitiamo di metterci alla prova non perché temiamo di fallire, ma perché temiamo di scoprire che siamo capaci. A quel punto, dovremmo poi prenderci la responsabilità di mettere a frutto i nostri doni e passare all’azione, rinunciando al doloroso ma al contempo consolatorio pensiero del “SE avessi/facessi/potessi….la mia vita cambierebbe”. 

Ovviamente l’autosabotaggio non è consapevole: le persone non scelgono coscientemente di mettersi i bastoni tra le ruote! A volte, chiedersi se l’azione che si sta evitando possa essere migliorativa per la propria vita, può già essere sufficiente per approfondire cosa ci manca per metterci in moto. Altre volte, è il contesto a doversi interrogare su ciò che manca di fornire a chi non agisce. Altre volte ancora, può darsi che si abbia bisogno di un aiuto esterno per comprendere meglio quali meccanismi ci bloccano e provare a smuoverli. 

In ogni caso, la prossima volta che pensate di esser pigri provate a guardarvi con maggior benevolenza e a chiedervi, invece, di che cosa avreste bisogno per sentirvi stimolati ad agire!

 

 

Dott.ssa Valeria Lussiana 

Psicologa Psicoterapeuta

 

VOLTI E RISVOLTI DEI SOCIAL NETWORK E DELLE APP DI DATING

Indiscutibile appare, nell’epoca contemporanea della digitalizzazione, il ruolo determinate occupato da Internet nella modifica delle nostre abitudini, costumi, stili, valori. Immaginiamoci come molte delle cose prima svolte in luoghi fisici, come lo shopping, la lettura di un giornale, il planning di un viaggio, possano adesso svolgersi comodamente davanti ad uno schermo di un pc in tempi molto più celeri. E per rendere ancor meglio l’idea di come Internet abbia rivoluzionato il nostro modo di vivere basti dare un’occhiata al modo in cui stanno mutando le nostre abitudini relazionali, rendendo sempre più possibile conoscere nuove persone indipendentemente dalla distanza fisica e affettiva che le separa. Fenomeno, quest’ultimo, che ha portato al ridimensionamento del ruolo degli intermediari tradizionali, svincolando gli individui per la prima volta dalle loro cerchie sociali di appartenenza, permettendo loro di istaurare nuove conoscenze al di fuori di esse.  

Ed è proprio in questo clima di maggiore e indistinta connessione interpersonale che si sono diffusi nel tempo siti ed app di incontri, specialmente a seguito dei recenti confinamenti, lockdown e restrizioni che ne hanno accelerato la diffusione.  

Oggi ci si avvale dell’espressione “online dating” proprio per far riferimento alla pratica di utilizzo dei siti web e delle applicazioni di incontri con lo scopo di trovare dei partner a breve o a lungo termine.  

Come dimostrato da una ricerca condotta dalla Stanford University da ricercatori quali M.J. Rosenfeld e dall’Università del new Mexico con R.J. Thomas sulla base dei dati relativi al 2017, circa il 39% delle nuove coppie eterosessuali e il 69 % delle coppie gay si sarebbero formate da primi contatti avvenuti online. L’innamoramento sulle app di dating appare pertanto godere di pari dignità rispetto a quello scoccato nei più tradizionali luoghi di incontro, tanto da migliorarne l’opinione sociale. 

Accedendo dal sito, scegliendo l’uso di Google, di Facebook, oppure del proprio numero di cellulare come riferimento nelle app, diventa possibile, una volta ottenuto il codice di accesso, iniziare a costruire il proprio profilo, dandosi un’identità online oppure, secondo le indicazioni dello studioso Floridi, un’identità online, abbattendo i confini e la distinzione netta tra mondo virtuale e quello reale. Applicazioni, pensiamo a Meetic, Facebook, Instragram, Tinder, Badoo, Bumble, Once, Happn etc., che tentano di far combaciare gli appetiti omo ed eterosessuali, sulla base di interessi, gusti, aree geografiche, range di età, sia per l’instaurarsi di relazioni stabili che per effimeri appuntamenti sessuali. L’obiettivo delle frequentazioni nel mondo del dating diventa, dunque, quello di aggiudicarsi il match, nell’incrocio tra il proprio profilo e quello di altri, sulla base dello swipe (scorrimento con le dita sul touch screen del proprio smartphone dei profili proposti), selezionando quelli più interessanti, scartando gli altri, con il consueto meccanismo dei LIKE, ovvero dei “mi piace”. 

Alla luce delle ricerche condotte è stato possibile costatare come la scelta dei partner conosciuti sulle app di dating non appaia affatto priva di criterio; non si prende appuntamento indiscriminatamente, con chiunque; si predilige, piuttosto, uno scenario immaginario ben preciso che il soggetto tenderebbe a reiterare in quanto oggetto di desiderio. Gli spazi di autonomia degli individui si rilevano, alla fine, meno ampi di quanto sembri. Emerge quanto sia più importante il dettaglio della fotografia, o del corpo, a discapito della specifica persona vista per intero sullo schermo, nella pervasività di una ricerca orientata al “particolare” in grado di suscitare eccitazione e/o godimento. Esempi a tal proposito si possono ravvedere nelle ricerche sui social di uomini adulti, situati in posizioni di potere e di prestigio sociale o di giovani ragazze in pose più sensuali, procaci e lascive(nelle fotografie con le quali presentano il proprio profilo), o ancora di donne mature che si presume siano maliziose e sessualmente esperte etc.. . Si tratta di reazioni che riguardano scelte di cui l’individuo è parzialmente consapevole, in quanto imperniate sul desiderio che si lega ad oggetti libidici in grado di stuzzicare la fantasia erotica. Si potrebbe trattare del modo di una donna di esibire le proprie scarpe con il tacco, oppure il suo taglio di occhi, un seno formoso che viene lasciato intravedere, oppure un modo sensuale di accavallare le gambe, o rispetto all’uomo la sua muscolatura possente, il suo portamento affascinante nell’indossare abiti eleganti, la sua divisa istituzionale, la maestria nel praticare una certa disciplina sportiva etc.

Si tratta, come direbbe Miller recuperando una celebre espressione di Vladimir Nabokov autore di Lolita, del “divino dettaglio”. 

Una domanda che sorge spontanea è, pertanto, chi siano questi utenti delle app di dating e da cosa siano accomunati. 

L’esperimento condotto dall’autore Botnen nel 2018 insieme ad Hallem ha permesso l’abbattimento delle stereotipie legate al genere come unica variabile incidente, predittiva delle motivazioni sottostanti l’utilizzo delle app di dating: assecondare i propri desideri sessuali o ricercare relazioni stabili. L’asimmetria del comportamento sessuale legata al genere appare in linea con la teoria dell’investimento parentale di Trivers (1972) che avrebbe visto l’uomo impegnarsi in relazioni a breve durata al fine di massimizzare la riproduzione e le donne biologicamente vincolate all’impegno promesso al proprio partner. Queste ultime, considerato i limiti fisici imposti dalla maternità, apparivano più motivate a stabilire una relazione più duratura che fornisse loro risorse durante la gravidanza e nella crescita della prole. Differenza biologica, quest’ultima, che protraendosi nel tempo avrebbe stabilito ruoli di genere ben precisi, traducendosi oggi in una diversa modalità di pensare le motivazioni sottese agli incontri che hanno luogo tra un uomo e una donna. La ricerca avrebbe evidenziato soprattutto l’incidenza esercitata dalla variabile dell’orientamento socio-sessuale, concetto messo a punto da Kinsey nel 1948 e introdotto nella pratica della ricerca solo negli anni ’90 una volta ultimato il Sociosexual Orientation Inventory (SOI) nel 1991. Tale inventario ha permesso l’acquisizione di misure self report di desideri, comportamenti, propensione dei soggetti, tradotti poi in un valore all’interno delle polarità “ristretto” (tendenza del soggetto a intrattenere rapporti sessuali esclusivamente all’interno di relazioni ad alto coinvolgimento emotivo, con un impegno verso l’Altro) e “non ristretto” (tendenza del soggetto a preferire relazioni che richiedono basso impegno, minimo coinvolgimento emotivo e scarsa intimità). Se è vero che nelle ricerche focalizzate sul genere gli uomini sono quelli  più inclini nella ricerca di  relazioni sessuali occasionali rispetto alle donne, l’indagine e l’approfondimento della variabile dell’orientamento socio-sessuale, ha reso possibile render giustizia a quel “quantum” di uomini, dall’orientamento più “ristretto,” che quivi non rientrino nella casistica sopra esemplificata; lo stesso vale per quelle donne che al contrario, connotate più da un orientamento “non ristretto” dimostrino preferire relazioni sessuali meno impegnative e più fugaci.  Si è trattato di una ricerca che ha modificato il modo di pensare, spingendo e orientando più l’attenzione sull’unicità del singolo individuo, definendo meno i suoi comportamenti sulla sola base della categoria sociale di appartenenza, di fronte ad una lenta ma progressiva rivoluzione dei ruoli sociali legati al genere. 

Diventa adesso possibile far confluire l’attenzione sulle conseguenze dell’utilizzo delle app di dating. 

Nonostante molti riferiscano di aver trovato la propria anima gemella mediante l’uso delle app di dating, altrettante se ne lamentano. L’incontro reale spesso conduce alla delusione delle aspettative e all’insorgenza di sentimenti di inadeguatezza e di pensieri negativi del tipo “se va sempre male, se nessuno mi richiama dopo il primo incontro vuol dire che qualcosa non va, che non sono abbastanza attraente e interessante da essere richiamato/a”. 

Nell’uso dello “swiping” in cui l’Altro viene scelto basandosi esclusivamente sulla mera apparenza fisica, ecco che a diventare totalizzante e centrale è l’attenzione posta sull’immagine, sull’apparenza, causando in molti l’insorgenza di problematiche legate all’autostima. A conferma di quanto sopra menzionato i risultati emersi dalla ricerca di Strubel e Petrie nel 2017 in merito agli effetti dell’utilizzo delle app su costrutti quali la soddisfazione corporea, la tendenza dell’individuo a confrontarsi con gli altri, l’internalizzazione di canoni estetici culturalmente esaltati. Gli autori riportano lo sviluppo di sintomi di natura ansiosa-depressiva, di disturbi alimentari, di disfunzioni sessuali, di distress psicologico, unitamente a sentimenti di vergogna come conseguenza di questa eccessiva attenzione riposta sul corpo e sulla bellezza. 

Fattori di rischio sempre più preoccupanti e allarmanti, alla luce di quanto sopra riportato, sono i noti fenomeni del sexting (invio di proprie immagini intime a terzi, soprattutto da parte delle adolescenti) e del body shaming (tendenza a presentare la propria immagine nelle foto o in brevi video nella versione più seducente possibile). Diviene comune, pertanto, rendersi nelle pose maggiormente seducenti, attraenti, mediante l’uso dei filtri, nascondendo imperfezioni, adiposità, che pur riflettendo le specificità del soggetto mal si conciliano con i canoni estetici correnti. Fenomeni che espongono al rischio dell’angoscia del disincanto, quando dalla “luna di miele” del chattare o del telefonarsi si passa poi all’appuntamento in presenza, conducendo alla derisione per il proprio aspetto estetico con un conseguente identificarsi del soggetto con un “essere di scarto”. 

Sebbene appaia indiscusso il successo riscosso dall’utilizzo delle app di dating, poco si menziona il rischio di diventarne “addicted”. Si tratta di un vero e proprio supermercato di appuntamenti tra sconosciuti che prima incuriosisce, poi eccita e infine sfianca, richiedendo al soggetto un notevole investimento e dispendio di energie e risorse per non soccombere, nel durante, sotto i colpi del ghosting (fenomeno in cui l’altro scompare, smette di rispondere improvvisamente) o delle dickpick (condivisione di dettagli anatomici non richiesti). 

Interessante come la logica algoritmica dei meccanismi tecnici sottesi all’uso delle app ingabbi la vulnerabilità arcaica edipica del funzionamento del soggetto nella stretta morsa ideata dal mercato capitalistico. Una lettura illuminante a tal proposito sembrerebbe esserci offerta da Lacan nell’elaborazione di un’evoluzione dei suoi quattro discorsi nella variante del discorso del capitalista. Cornice di riferimento che funga al tempo stesso da premessa teorica è la metafora del nome del padre, con la quale Lacan rivisita in una chiave originale la visione edipica freudiana. Il termine “Nome-del-padre”, inventato nel 1953, fu utilizzato da Jacques Lacan nel 1956 per designare il significante della funzione paterna”, quale funzione del padre simbolico, quindi metafora paterna”. Funzione ritenuta necessaria per la formazione della struttura edipica del soggetto, nello spezzare il legame fusionale, di invischiamento simbiotico della diade madre-figlio, nell’introduzione di un oggetto terzo “il fallo” nel registro simbolico- linguistico.

Appare dunque presente sin dall’inizio, nella struttura psicologica dell’individuo, una triangolazione, un rapporto a tre tra la madre, il bambino e il Fallo; quest’ultimo in quanto “significante” dell’espressione del desiderio della madre. La prima conflittualità esperita dal bambino sarà vissuta nell’ottica di “essere o non essere il fallo” per la madre, a partire dal quale si strutturerà la funzione simbolica della figura paterna (o di chi ne fa le veci) del farsi portavoce della Legge, dell’autorità, nella misura ora ordinante ora proibizionistica-castrante nel “non essere il figlio il fallo per la madre”. Lacan si affida ad una concezione strutturalista dell’esistenzialismo, distinguendo tre registri di interfaccia con il soggetto: reale, immaginario e simbolico. La castrazione, di cui viene investito il soggetto in fase edipica, non deve essere confusa con la mancanza immaginaria, che è la mancanza di un oggetto reale (non c’è realtà nella castrazione), quanto piuttosto pensata come mancanza simbolica, ovvero mancanza rivolta all’oggetto immaginario, costituente quello che si possa pensare essere “l’oggetto del desiderio dell’Altro (altro maiuscolo perché significativo, come la madre). E’ mediante tale espediente che diventa possibile iscrivere il soggetto nel registro del simbolico con una rappresentazione di sé come soggetto diviso, passando dal “non essere oggetto di desiderio dell’altro” (castrazione del fallo) al divenire desiderante, “in ricerca”, desideroso di ri-trovare il proprio oggetto del piacere altrove, al di fuori della diade materna, venendo a contatto con la Legge che regola la dimensione del reale (usi, costumi e valori morali-cosa si può e cosa non si può fare). L’oggetto del desiderio deve essere smarrito(castrato) perché io soggetto mi possa rappresentare, esistere, pensare simbolicamente nel mio essere diviso, sbarrato. Ed è proprio in questa divisione, in questa semiotica linguistica che si cela il vuoto struggente di un soggetto nella spasmodica ricerca dell’oggetto del piacere che lo completi, che lo saturi, che gli permetta di esperirsi come desiderato e non desiderante, mancante di. 

Nel discorso del capitalista, Lacan riprende anche l’analisi marxista della logica capitalistica di mercato. Nel luogo dell’agente che muove le dinamiche del dialogo e dell’azione Lacan colloca il capitalista che agisce sull’Altro, posizione occupata dal sapere, per aumentare la produzione, nell’ottenimento del plusvalore.  “Ho bisogno del sapere fare (del proletariato) per essere quello che sono”, verità (oggetto del desiderio) per definizione irraggiungibile, inaccessibile per l’individuo. “Se io pago, diversamente da quanto avrei dovuto, per la mole di lavoro svolta dal proletariato per produrre un determinato prodotto, quello che ottengo è un plus”, definito da Marx “plusvalore”, che verrà re-investito al fine di incrementare la produzione. Il proletariato, a propria volta, nel lavoro svolto trova la propria sopravvivenza nel salario con cui viene retribuito. Ecco che pertanto ciò che appare davvero far muovere le fila del discorso non è più il Capitalista, il Meitre (padrone) quanto piuttosto l’oggetto del desiderio (la verità inaccessibile per il soggetto). Quest’ultimo da un lato muove il capitalista in una spasmodica ricerca costante di un “di più”, costringendolo a non potere fare a meno di reinvestire, per arricchirsi, incrementando la produzione, perché perennemente insodisfatto; dall’altro muove il proletariato nell’incrementare incessantemente le proprie fortune, sapendo di venir pagato, aumentando le ore lavorative svolte. 

Analogamente diventa possibile leggere le dinamiche sottese all’utilizzo delle app di dating; a muovere gli algoritmi per i match è l’oggetto del desiderio (verità all’individuo ignota, poco comprensibile). Da una parte i produttori delle app che si avvalgono di un sapere non proprio ma legato alla sfera del marketing, per osare sempre di più, con continue contro-offensive, facilitando gli abbinamenti e il prevedibile successo degli incontri, acquisendo così sempre maggior prestigio, successo, grandiosità, introiti, e dall’altra gli utenti che si iscrivono alle app di dating per colmare l’angoscia legata al vuoto di ferite edipiche arcaiche. 

Il bisogno di costruire, avere relazioni costituisce un bisogno sano e innato; ciò che diventa utile rammentare è il cercare di fare esperienze relazionali positive, che rinforzino l’immagine che abbiamo di noi stessi, senza celarla, alterarla o falsificarla, contribuendo proattivamente al nutrimento della propria autostima, rendendo ciascuno più responsivo e consapevole degli intenti, degli strumenti e degli atteggiamenti di cui si avvale. 

Essere consapevoli che esistono diverse possibilità, tra loro complementari, di fare esperienze relazionali con l’Altro (da quelle tradizionali a quelli virtuali) da selezionare e gestire in modo responsivo e congruo alle proprie specificità.  

Dott.ssa Silvia Longo

Psicologa- Psicoterapeuta

Sitografia: 

– Privitera R., Usi e costumi nei siti di incontri online, https://www.stateofmind.it/2020/12/app-incontri-online-motivazioni/.

-Pozzetti R., Social network e app di dating: quando l’amore sboccia online, https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/social-network-app-dating-amore-online/. 

– Milano psicologo centro di psicoterapia, App-untamenti: quali i rischi psicologici, https://www.milanopsicologo.it/app-di-dating-quali-i-rischi-psicologici/. 

– Bonelli S., I giovani e i rapporti affettivi al tempo del dating online, https://www.che-fare.com/almanacco/societa/dating-online-giovani-bonelli/. 

– Di Monica P., Smetto quando voglio. Il dating online e altre dipendenze, https://www.elle.com/it/emozioni/amore/a35808872/dating-online-dipendenza/.

– Terminio N., La divisione del soggetto, https://www.nicoloterminio.it/psicoanalisi-psicoterapia/psicoanalisi-lacaniana/la-divisione-del-soggetto.html#:~:text=Il%20significante%2C%20in%20quanto%20segno,al%20potere%20rappresentativo%20del%20significante. 

– Wikipedia, Nome del padre (concetto), https://it.frwiki.wiki/wiki/Nom-du-p%C3%A8re_(concept).

– Terminio N., I quattro discorsi di Lacan tra simbolico e reale, https://www.nicoloterminio.it/psicoanalisi-psicoterapia/psicoanalisi-lacaniana/i-quattro-discorsi-di-lacan-tra-simbolico-e-reale.html#:~:text=I%20quattro%20discorsi%20lacaniani%20sono,prodotto%20e%20quella%20della%20verit%C3%A0.  

– Terminio N., Lacan, il Nome del Padre e il significante fallico, https://www.nicoloterminio.it/psicoanalisi-psicoterapia/psicoanalisi-lacaniana/lacan-il-nome-del-padre-e-il-significante-fallico.html#chapter1.

QUANDO LA MUSICA DIVENTA CURA viaggio attraverso la nascita della musicoterapia

L’idea di utilizzare la musica in modo terapeutico ha attraversato i secoli con i loro capovolgimenti sociali, politici, culturali, scientifici e musicali e non ne è mai uscita scossa. In ogni epoca i concetti  di musica e musicoterapia sono rimasti legati a ciò che è definibile “armonia universale”. Innumerevoli sono gli scritti sulla musicoterapia provenienti da diverse culture; ne sono stati trovati dell’antichità fino ai giorni nostri e si accomunavano per gli stessi termini, gli stessi propositi e le medesime constatazioni riguardanti proprio la musica come terapia.

In tutte le culture dall’antichità, musica e medicina erano praticamente una cosa sola. I medici e gli sciamani sapevano che il mondo è costituito secondo principi musicali, che la vita del cosmo, ma anche quella dell’uomo, è dominata dal ritmo e dall’armonia; sapevano che la musica ha un potere incantatorio sulla parte irrazionale, che procura benessere e che nei casi di malattia può ricostituire l’armonia perduta.

Nell’antica grecia, Platone ed Aristotele furono, oltre che pensatori e filosofi, anche dei musicologi convinti che le arti del ritmo contribuissero a migliorare la calma interiore, la serenità e la morale. E non solo, Pitagora aveva individuato tre orientamenti musicali: adattamento (la musica deve adattarsi a musiche diverse e lontane dalla sua personalità accentandole), cambiamento (la musica può modificare lo stato d’animo profondo dell’individuo agevolandogli una maggiore accettazione di sé ed un maggiore uso delle proprie capacità) e purificazione (la musica può liberare l’anima e il corpo dalle tensioni giornaliere).

In epoca medievale la musica ha continuato ad insinuarsi nelle arti mediche tanto da essere utilizzata dai monaci, che divennero i depositari sia della scienza medica che della musica. Nella stessa epoca, gli arabi promuovevano l’uso del flauto come mezzo terapeutico per curare i disturbi mentali. Ma è nel rinascimento che viene creata la nozione di “simpatia universale”, stabilendo i rapporti di vibrazione che si creano tra i “corpi sonori”, tra i quali viene riconosciuto quello umano. In questo periodo molti medici si convinsero che imarando a suonare qualche strumento musicale, la loro capacità di ottenere guarigioni si sarebbe affinata e sviluppata.

Lo strumento musicoterapico aveva soprattuto due finalità: l’intervento catartico e l’utilizzo con finalità sedative. L’uso catartico della musica era frequente durante i baccanali tanto quanto oggi nelle discoteche e nei concerti o in certe feste tribali e in alcune meditazioni religiose. Ogni popolazione umana usa queste tecniche con il fine di provocare disinibizione, estasi o trance. Nel 1650 Kircher, musicologo e filosofo, considerava l’uso della musica per scopi sedativi, come una delle principali forme di musicoterapia.

Ma l’evoluzione dell’intervento musicoterapeutico non si ferma davanti neanche davanti ai secoli successivi che man mano sembrano perdere poesia con lo sviluppo tecnologico. Sono stati rilevati, molti altri risultati dell’intevento musicoterapico, alcune delle quali sono: il ristabilirsi di un equilibrio perduto, la stimolazione, la sedazione, la rivitalizzazione. La musica in questi casi, oltre a controllare e calmare le passioni viene prescitta anche per risvegliare le emozioni. Tra il settecento e l’ottocento si moltiplicano le osservazioni intorno ai poteri dei suoni e della musica sulla mente e sul corpo umano e sbocciano scoperte relative alla relazione tra ritmi corporei e ritmi musicali, fra pulsazioni e battute musicali, tra ritmo del respiro e ritmo musicale. Grazie a ciò nell’ottocento si propongono le prime forme di sedute di musicoterapia, consistevano nell’organizzazione di concerti o nella costituzione di corali e orchestre per pazienti. La musicoterapia prende le vesti di “terpaia di gruppo”.

Arriviamo così alla seconda metà del nostro secolo, quando questa tecnica progredisce grazie anche allo sviluppo di tecniche di registrazione e di riproduzione musicale. Ad avvalorare la musicoterapia nel ventesimo secolo sono sprattutto quelle tecniche che hanno come obiettivo lo studio del complesso suono- essere dal punto di vista fenomenologico, neuropsicologico, cognitivo e psicodinamico. Nella sua evoluzione la musicoterapia ha raggiunto un livello che le ha permesso di cominciare a sviluppare una propria metodologia, continuando ad essere in contatto con le discipline correlate.

Con la musica si cerca di mettere in contatto diversi individui. Fornisce a tutti un’opportunità di stabilire un rapporto di fiducia con il terapeuta. La musica diviene il mezzo per il raggiungimento di un fine.

La musica, con la musicoterapia perde il suo valore estetico e si fa più flessibile, si modifica per andare incontro alle esigenze e alle necessità multisensoriale del soggetto, lasciando che egli impari ad ascoltare i suoi bisogni e stimolare le sue capacità in una dimensione creativa, emotiva e relazionale. Questa terapia viene così intesa come il “prendersi cura” della persona che in difficoltà ha bisogno di tornare a rivivere “dal di dentro”. In musicoterpia le esperienze musicali ed i rapporti che si sviluppano servono come forze dinamiche del cambiamento. Si distingue dalle altre terapie per il suo affidamento alla musica vista come metodo e come modalità principale del trattamento, piuttosto che per i problemi clinici che è chiamata ad affrontare.

La musica non è semplicemente un linguaggio ma è presente in ogni linguaggio, è un’arte che va oltre la parola, un’arte di comunicazione in senso globale. Quando il linguaggio non è acquisito, quando lo sviluppo si presenta problematico, quando la relazione con l’altro è difficile, la musicoterapia rappresenta uno degli strumenti con cui poter contattare la persona e darle l’ooportunità di esprimersi attraverso un linguaggio non verbale che spesso si rileva di facile accesso; grazie alla comunicazione tramite la propria “musica interna”, si possono così rivivere vissuti personali. Partendo dal presupposto che l’individuo è parlante nella totalità dei comportamenti psico-senso-motori, la musicoterpia può rivelarsi un aiuto all’espressione, all’essere capito, al sentirsi adeguato, accompagnato e supportato nel processo dal terapeuta, che restituirà senso musicale ad ogni espressione del soggetto, armonizzandolo.

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo, psicoterpeuta e sessuologo clinico

 

Bibliografia:

Frova A., Fisica della musica, Zanichelli, Bologna 1999.

Mattia M, Rumore e musica, convegno internazionale Musica Urbana, 2002

Pistorio G. Scarso G., Musicoterapia, metodologie, ricerche cliniche, interventi. Centro scientifico Milano, 1998.

Vigorelli L. Esperienze emotive e cognitive in musica. Logopaedia 2 , 2004.

YOGA. Quando corpo, mente, respiro ed energia si uniscono

Per anni, il termine Yoga ha assunto differenti significati a seconda delle interpretazioni di coloro che lo praticavano. Nell’immaginario comune occidentale, alla parola Yoga riecheggiavano rappresentazioni di monaci seduti a gambe incrociate su di una montagna, uomini vestiti di arancione o strane posizioni da circensi. L’opinione comune, a riguardo è sempre stata un po’ confusa. 

La parola Yoga deriva dalla radice sanscrita “yuj” che significa mescolare, unire. Il suo significato è quindi, unione. Unione di mente e corpo. Lo Yoga è lo studio del funzionamento del corpo e della mente che permette di acquisire una maggiore conoscenza di Sé che non deriva solo dai sensi e dalla ragione. È un luogo in cui arte, filosofia e scienza si incontrano. 

Oggigiorno, è possibile individuare quattro tipi di Yoga: 

  1. fisico, basato su posture statiche, sequenze in movimento ed esercizi respiratori (Haṭhayoga, Vinyāsa Yoga, Ashtanga Yoga ecc.); 
  2. intellettuale, basato su approccio simile alla filosofia platonica, alla teologia cristiana e alla filosofia tedesca del XIX secolo (Jñāna Yoga); 
  3. religioso o devozionale che si propone di entrare in contatto con una divinità (Śiva, Viṣṇu, Kṛṣṇa…) e riprende, in parte, forme e contenuti della religione cristiana e delle moderne correnti spirituali nate con la New Age (Bhakti Yoga e Karma Yoga); 
  4. psicologico (Yoga Based Practice -YBP), una pratica terapeutica psicofisica caratterizzata dalle tre principali componenti dello yoga vale a dire, le posture statiche o sequenze di movimento, le pratiche di respirazione e l’attenzione consapevole (Schmalzl, Powers, & Henje Blom, 2015). 

Questi quattro tipi di Yoga spesso integrati tra loro, altre volte rigidamente separati e altre ancora, in conflitto sono sempre stati tollerati all’insegna del motto e principio di base: “lo Yoga è unione”. 

Nell’ottica di questo stesso principio, alla base di qualsiasi tipologia di yoga, sono state individuate tre principali funzioni, come:

  1. “lente d’ingrandimento” per far emergere il proprio dialogo interiore (Bertolo 2016);
  2. insieme di tecniche pratiche per migliorare la salute, la concentrazione e la presenza nel qui e ora (Mori, 2019);
  3. scienza e tecnologia olistica, in quanto metodo disciplinato che “funziona a tutto campo per l’individuo contemporaneo” (Squarcini 2015).

Lo yoga, quindi, va oltre le mere tecniche di esecuzione degli esercizi e gli insegnamenti dalla tradizione millenaria. È una disciplina che insegna a concentrarsi su sé stessi per trovare e ritrovare il proprio equilibrio interno ed esterno utile poi, per ottenere una più chiara immagine di sé.

Attraverso il lavoro disciplinato sul corpo, lo yoga stimola la mente alla propriocezione, vale a dire ad una maggiore percezione e consapevolezza di ogni singola parte del proprio corpo all’interno dello spazio (Bassetti 2009). Si acquisiscono così, informazioni importanti che consentono di imparare come ogni arto, muscolo e tendine del proprio corpo si muove e funziona; così come, stimola ad un ascolto attento e consapevole del proprio respiro per imparare poi, a controllarlo.

Il controllo del respiro o Pranayama, infatti è indispensabile per una buona pratica perché da esso ne derivano la calma della mente, la tranquillità del sistema nervoso e la tolleranza vissuta a livello del corpo della mente. Notiamo quindi, quanto siano strettamente connessi corpo e mente all’interno dello Yoga. Occupandosi del corpo, infatti sarà possibile calmare la mente. Il saggio Patanjali ha definito lo Yoga non a caso, come “controllo delle divagazioni della mente, dell’intelletto e dell’ego”. Solo se la nostra mente è calma e tranquilla anche il nostro corpo e la nostra anima lo saranno. “Così come la luna non si riflette interamente nelle acque di un fiume torbido, l’anima non si manifesta in una mente agitata” (Iyengar G.S, 1992). 

Lo studio e la pratica della disciplina yogica sono elementi fondamentali per controllare le oscillazioni della mente. L’utilizzo di metodi di rilassamento derivanti da tecniche di meditazione e concentrazione permetteranno l’affiorare graduale di stati di benessere, calma e lucidità mentale. 

Attraverso una pratica costante e regolare, sarà possibile far emergere tutte quelle grandi potenzialità insite in ognuno, di cui spesso non si è del tutto consapevoli, e che possono essere utili a direzionare il proprio cammino quotidiano per affrontare al meglio e sotto una nuova luce, le sfide di ogni giorno.

In sintesi, ecco alcuni dei benefici che possiamo ottenere da una pratica disciplinata dello Yoga.

Benefici fisici:

  • Migliora la forza, flessibilità, equilibrio e concentrazione
  • Migliora le funzionalità di organi, tessuti, apparati
  • Favorisce un’azione disintossicate dell’organismo
  • Rallenta l’invecchiamento
  • Previene e cura il mal di schiena
  • Riduce il dolore cronico
  • Mantiene il sistema cardio-circolatorio in buona salute
  • Aumenta la qualità del respiro e la capacità respiratoria
  • Migliora le performance sportive

Benefici mentali

  • Riduce l’ansia, depressione, attacchi di panico
  • Aiuta a gestire le emozioni
  • Aiuta a gestire lo stress
  • Aiuta a promuovere sane abitudini di vita
  • Favorisce una migliore qualità del sonno
  • Migliora la capacità di attenzione e concentrazione

 

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

Bassetti C. (2009) Riflessività-in-azione. L’incorporamento dello sguardo spettatoriale come sapere pratico professionale nella danza, in “Etnografia e ricerca qualitativa, Rivista quadrimestrale” 3/2009, pp. 325-352.

Bertolo C, Giordano G. (2016) Spiritualità incorporate. Le pratiche dello Yoga. Milano – Udine: Mimesis Edizioni;

Iyengar G.S, Yoga per la donna (1992) Ed. Mediterranee;

Mori L., Squarcini F., (2019) Nel nome dello Yoga. Filosofia, disciplina, stile di vita; Milano: RCS MediaGroup S.p.A. Edizione Kindle;

Squarcini F., Guagni M.A. (2015) Yogasūtra di Patañjali Torino, Einaudi, vol. 14, pp. 1-176;

Schmalzl, L., Powers, C., Henje Blom, E. (2015). Neurophysiological and neurocognitive mechanisms underlying the effects of yoga-based practices: towards a comprehensive theoretical framework. Frontiers in Human Neuroscience, 9.

Sitografia

https://muysalud.com/it/salute/14-benefici-dello-yoga-per-la-salute/

https://www.yogaitalia.org/

PERCHE’ LEGGERE FA BENE?

“Leggere fa bene, si sa!”. Fin da bambini abbiamo sentito ripetere questa frase da maestri, professori, genitori e chi più ne ha più e metta; per alcuni queste raccomandazioni hanno fatto breccia, dando il via ad una vera e propria passione che prosegue anche da adulti, per altri no.

Ma cosa si intende davvero quando si dice che leggere fa bene? Scopriamolo insieme in questo articolo:

1) Ti aiuta a tenere la mente attiva.  Leggere è una vera e propria palestra per la nostra mente, così come lo sono attività come giocare a scacchi, fare le parole crociate oppure i puzzle. La lettura è un’attività che richiede attenzione, concentrazione e ragionamento, dunque ci aiuta a tenere allenata la mente e a prevenire, o rallentare, alcune patologie neurodegenerative come l’Alzheimer o la demenza senile.

2) Migliora le capacità mnemoniche. La lettura implica un certo sforzo al livello della memoria. Se pensiamo a quando leggiamo un romanzo, è implicito che dovremmo ricordarci il nome dei personaggi, il ruolo che hanno e la loro storia, se vogliamo seguire la trama intessuta dall’autore. Allenare la memoria tutti i giorni è molto importante, soprattutto in tempi in cui è il telefono a ricordarci di fare qualunque cosa.

3) Amplia le tue conoscenze. Qualunque informazione con la quale entriamo in contatto diventa nostra e si aggiunge al bagaglio di conoscenze che amplieremo per tutta la vita. A volte ci sembra di aver dimenticato tutto e, quando meno ce lo aspettiamo, i cassetti della memoria si aprono, talvolta fornendoci soluzioni inaspettate.

4) Aumenta il tuo vocabolario. Quando leggiamo ci imbattiamo in un sacco di parole nuove che spesso entrano a far parte del nostro modo di parlare. Questo ci aiuta ad esprimerci in una maniera più chiara ed esaustiva, rendendoci anche più comprensibili agli altri.

5) Ti aiuta a scrivere meglio. Questa è una diretta conseguenza del punto 4, ovvero dell’implementazione del vocabolario. Sarà capitato a tutti di avere un pensiero o un concetto in testa e di non riuscire a trasporlo su un foglio in maniera efficace. Scrivere è un modo di comunicare con gli altri e avere più parole per farlo ci aiuta ad essere più sicuri di noi e più chiari con gli altri.

6) Migliora le capacità di analisi e di pensiero critico. Spesso leggere ci pone davanti a innumerevoli domande: che si tratti di un giallo o di un saggio di filosofia, mentre leggiamo siamo in qualche modo portati ad anticipare il pensiero dell’autore, a cercare di intuire cosa succederà nella pagina successiva e a farci un’idea di come siano andate le cose, ancor prima di averle lette. La capacità di analisi e di pensiero critico è importantissima per avere una nostra idea del mondo.

7) Riduce lo stress. Leggere ci porta in un’altra dimensione, quella immaginifica, lontana dai problemi del quotidiano; ci aiuta a staccare dopo un’intensa giornata di lavoro, a prendere una pausa dai pensieri quando viaggiamo in metropolitana, a scappare dalla noia rifugiandoci in altri mondi. Per questi ed innumerevoli altri motivi, leggere è un ottimo antistress.

8) Aumenta le capacità di concentrazione. Ormai siamo abituati a fare 10 cose insieme, anche perché i dispositivi che utilizziamo tutti i giorni ci portano ad essere multitasking. In un mondo che ci vuole veloci, la lettura ci aiuta a fermarci e a far sparire tutto quello che abbiamo intorno, anche le notifiche dello smartphone, concentrandoci su una sola attività.

9) Ci rilassa. Anche durante la lettura del thriller più inquietante, leggere ci pone in una condizione di relax fisico e mentale. I libri ci portano, in mondi nei quali il nostro capo non esiste e i nostri problemi sono troppo lontani. Questo ci permette di staccare ed entrare in una condizione di relax, che aiuta a regolare le emozioni e a ricaricarci.

10) Ci fa entrare in contatto con le emozioni. Sarà capitato a tutti di farsi trascinare nella storia di un protagonista e di vivere con lui mille avventure e mille emozioni diverse. Leggere ci dà la possibilità di entrare in contatto con le emozioni in una maniera “sicura”, coinvolgendoci ma senza farci troppo male.

Questi sono solo 10 degli innumerevoli benefici che la lettura ci regala, ma l’elenco potrebbe essere interminabile.
Esiste addirittura un approccio alla salute mentale che sfrutta il potere curativo della lettura, la biblioterapia, e può essere svolto sia individualmente sia nella dimensione gruppale.
I libri sono possono essere dei validi alleati nella ricerca di soluzioni, compagni di viaggio, un ottimo rimedio alla solitudine, ma anche tantissimo altro.
E tu leggi? In che modo i libri ti sono stati di aiuto nella tua vita?

 

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA:
– Pennebaker J.W. (2004), Scrivi cosa ti dice il cuore. Autoriflessione e crescita personale attraverso la scrittura di sé, Centro Studi Erikson, Trento.
– Rimé B. (2007), The social sharing of emotion as an interface between individual and collective processes in the costruction of emotional climates, “Journal of Social Issues”, vol. 63, n.2, pp.307-322.
– Urbano A. (2017), preScrivimi un libro. I benefici psicologici della biblioterapia, Stilo editrice, Bari.

DOPO IL GHOSTING, L’ORBITING, QUANDO IL PARTNER “TI SEGUE”, MA NON TI VEDE!

Che cos’è l’orbiting?

Il termine orbiting derivante dall’inglese to orbit, ovvero orbitare intorno a qualcosa o, come in questo caso a qualcuno, viene per la prima volta utilizzato per definire un’altra forma di legame disfunzionale del nuovo millennio social dopo il ghosting, da Anna Iovine di Man Repeller. 

Si è visto, che con il ghosting, il partner o presunto tale, a un certo punto della relazione non risponde più al telefono, ai messaggi e ai social, non lasciando più traccia di Sé come non fosse mai esistito, senza un’apparente motivazione valida, o comunque senza dare una spiegazione. 

Nell’orbiting, invece, la dinamica risulta essere leggermente diversa e se vogliamo, alle volte anche più subdola e manipolativa, perché il partner, o ex, o presunto tale, non mantiene una comunicazione diretta ma indiretta, facendosi vivo a intermittenza e solo attraverso i social, con i like su facebook piuttosto che facendo comparire il suo avatar tra le view delle Instagram stories. 

L’orbiting che si fonda su un’ambigua specie di tattica amorosa, risulta quindi essere una sorta di mancata sparizione o di ricomparsa dopo che una storia finisce o non ha inizio. 

L’orbiter diventa pertanto una presenza, in alcuni casi analogica, continuando a frequentare gli stessi posti o gli stessi amici, che digitale; una presenza però che, senza una normale comunicazione, impedisce la naturale elaborazione del lutto della fine di una relazione, piuttosto che del suo mancato inizio. Una sorta di “ci sono, ma non parlo, ti controllo e so cosa fai, ma comunque continuo a visualizzare e a non rispondere ai tuoi messaggi su whatsapp”. 

Ma anche se mascherato da innocuità virtuale, rimanendo perlopiù solo online, l’orbiting sembra proprio richiamare, sia per comportamento dell’orbiter che per effetto di quest’ultimo sulla vittima, un altro fenomeno dal termine inglese molto conosciuto: lo stalking. 

Di fatto, l’orbiter alternando presenza virtuale ad assenza strategica e mettendo il like tattico o le visualizzazioni, lascia traccia di sé e  nello stesso tempo e soprattutto controlla la sua ex partner o presunta tale, senza mai di fatto affrontare una conversazione reale in cui manifesta il suo vero interesse: manipolare, controllare o far credere interesse in una relazione che in realtà concretamente non vuole, trattenendo così a sé la vittima per puro piacere narcisistico, che, proprio come lo stalking, dopo un primo momento di lusinga per aver avuto delle attenzioni, sprofonda in uno stato di forte malessere. 

Ma vediamo un po’ più da vicino quello che potrebbe essere il profilo di un orbiter. 

Il profilo psicologico dell’orbiter

Partendo dal presupposto che chi fa orbiting spesso può risultare essere una persona immatura e irrisolta, riprendiamo i 3 profili elencati da Anna Iovine connotati di un taglio un po’ più clinico, per meglio comprendere quali siano le possibili motivazioni che spingono ad avere questo atteggiamento: 

  1. L’orbiter che ama esercitare il controllo sugli altri: in questo primo caso, la persona in questione utilizza una vera e propria strategia di manipolazione che ha l’obiettivo di controllare e spiare l’altro disinteressandosi delle conseguenze che il suo comportamento può avere sull’altro. In questo primo caso, siamo di fronte a una personalità narcisistica che attraverso il suo controllo cerca di tenere a sé l’altro solo per mantenere alta la sua autostima, senza impegnarsi concretamente nella reciprocità di una relazione. In questo caso si tratta di una vera e propria forma di abuso emotivo, in quanto crea e usa a suo vantaggio la possibile dipendenza affettiva della vittima. 
  2. L’orbiter che è inconsapevole di quello che sta facendo: in questo caso ci troviamo di fronte a una persona che spesso preso dalla noia, si comporta in questo modo, senza minimamente rendersi conto di quello che sta facendo e dell’effetto che questo suo fare, può avere sull’altra persona. 
  3. L’orbiter che non sa esattamente ciò che vuole: in questo caso la persona che abbiamo di fronte è una persona ambigua che preso da forti sentimenti di ambivalenza chiude i rapporti ma non completamente. In questo caso il tipo è identificabile come persona immatura e irrisolta, non pronto o non in grado ad impegnarsi, ma che nello stesso tempo, non vuole allontanarsi e distaccarsi completamente dall’altro per paura di un eventuale ripensamento. 

Tenendo conto di questo, in ogni caso esposto, pare che l’orbiter possa avere in qualche modo, compromessa, o comunque deficitaria, la sua capacità di amare e non godere di buona empatia, pertanto difficilmente il comportamento che mette in atto sia sinonimo di amore o interesse concreto; anzi, nel primo caso è un vero e proprio meccanismo subdolo che, per un puro tornaconto personale, non consente alla vittima di sganciarsi da questa relazione, che, spesso, assume i connotati di una relazione alquanto tossica.  

La vittima 

La vittima oggetto di orbiting, come già accennato, subisce le conseguenze di questo comportamento ambivalente e distaccato e se in un primo momento può esserne felice e lusingata, dopo un po’ può crollare nello sconforto e nel malessere. 

In una prima fase, infatti, la vittima presa dalle lusinghe si illude di poter ricominciare o iniziare una relazione e comincia a fantasticare e a investire emotivamente sull’altro che spesso viene anche idealizzato. In una seconda fase però, la vittima comprende che nonostante i like, i commenti etc nel concreto non avviene nulla e inizia ad alternare momenti di entusiasmo, quando l’orbiter si fa vivo, a momenti di sconforto, quando quest’ultimo ciclicamente sparisce. 

In questa altalena tra esserci e non esserci, i sentimenti che prova la vittima, possono passare dall’ansia, alla depressione, alla confusione mentale ed emotiva, nonché tristezza e insicurezza rispetto al fatto di non essere amati e apprezzati abbastanza, buttando giù un’autostima già di per sé fragile; e in questo turbinio di emozioni contrastanti le uniche domande, anche queste prive di risposta, che riesce a porsi è Perché? Perché quel like? Perché fa così? Etc..

Ma reinterpretando una celebre frase di un film, “vittime: non lo siamo tutti?”, la risposta potrebbe essere: non sempre! 

Ovvero, che, come nel caso dell’orbiter, possono essere diverse le motivazioni che ci portano a identificarci come vittima e quindi anche in questo caso, esserci diverse tipologie. 

Spesso la vittima è una persona emotivamente fragile che per vissuti personali irrisolti, non riesce ad essere felice, ne ha piuttosto paura e preferisce quindi accontentarsi di essere triste nell’illusione, piuttosto che essere davvero felice nella realtà.  

Altre volte la vittima conosce solo la sofferenza come schema relazionale, pertanto, ha la tendenza a legarsi a chi la fa soffrire, sempre perché, la felicità sconosciuta, viene in qualche modo temuta. 

In questi casi, molto analoghi ai precedenti, la vittima tende a legarsi a personalità tipo l’orbiter, proprio perché lei per prima non se la sente, magari a livello più inconscio, di avere una relazione concreta, in quanto ne ha paura, quindi, mentendo probabilmente in primis a sé stessa, si nasconde dietro l’illusione di una relazione parziale, ritenendosi pertanto impegnata, per non dover invece affrontare una relazione reale e concreta. 

Altre volte un’autostima minata da vissuti difficili, porta a male interpretare il comportamento altrui e vederci quell’amore tanto voluto e desiderato, quanto altrettanto temuto. 

Ad ogni modo, vediamo come anche nel caso della vittima resta un comun denominatore, che in questo caso è un sentimento di forte paura, difficile da gestire.

In conclusione, abbiamo visto come l’orbiting possa assumere i connotati di una vera e propria relazione disfunzionale e come tale forse l’unica soluzione sarebbe quella di interromperla. 

Ma spesso per la vittima questo risulta alquanto difficile, per tutto quello che spesso l’orbiter può rappresentare per quest’ultima, che va aldilà del suo atteggiamento. 

Pertanto forse l’unica soluzione possibile, se ci si sente vittime di orbiting, potrebbe essere quella di chiedere un supporto psicologico adeguato, per dare una possibilità a sé stessi che vada oltre la relazione virtuale e che veda concretizzarsi la possibilità di star bene ed essere felici. 

 

Dott.ssa Monica Iuliano

Psicologa – Psicoterapeuta

IL LUTTO COME ESPERIENZA DI VITA

Tutti noi nella vita, prima o poi, ci troviamo a fare i conti con il terribile dolore per la morte di una persona cara, a noi vicina.

Leonardo Sciascia, il celebre scrittore del Novecento, annunciava:

“La morte è terribile, non per il non esserci più, ma al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, di mutevoli pensieri che restano”.

La tristezza, il dispiacere, il dolore per la perdita apre molti interrogativi a cui non riusciamo, sempre, a trovare una risposta: “Riuscirò a sopportare la sua assenza?”, “Mi dimenticherò di lui/lei?”, “Quanto durerà tutto questo?”, “Tornerò ad essere di nuovo felice?”.

La morte di una persona cara ci fa cadere nel triste vortice del lutto (dal latino lugere = piangere, dolersi) e non sempre sentiamo di avere i mezzi per superare un evento della vita che ci accomuna.

In cosa consiste il lutto?

 

Perdere una persona, inevitabilmente innesca un processo di cambiamento che crea una temporanea disorganizzazione dell’individuo e del sistema familiare. Chi lo vive si trova ad attraversare diverse fasi che la psichiatra Elisabeth Kubler Ross, nel 1970, ha individuato in 5.

Si parla di fasi e non di stadi proprio perché le fasi possono ripresentarsi più volte e alternarsi con varia intensità e senza un ordine preciso.

– Negazione o rifiuto —> di solito caratterizza i primi giorni, quando vengono messi in atto meccanismi di difesa di negazione. In questa fase le frasi più frequenti sono “non ci credo”, “non è possibile”.

– Rabbia —>. in questa fase si manifestano emozioni forti quali rabbia, paura che vengono orientati indistintamente a tutti (familiari, se stessi, medici, la persona cara scomparsa).

– Contrattazione o patteggiamento —> si crea una sorta di negoziazione con amici, familiari, figure religiose, o se stessi “prometto che…” “ Oh mio Dio se starò meglio farò…”. La persona inizia a riprendere il controllo della sua vita, a rivalutare le proprie risorse e a riacquistare l’esame di realtà.

– Depressione —> è la fase della disperazione e spesso coincide con il momento in cui si cerca un aiuto, anche psicologico per superare questo lutto.

– Accettazione —> quando il paziente elabora quanto è accaduto intorno a lui, avviene

un’accettazione della propria nuova condizione.

Per quanto la morte sia una certezza nelle nostre fugaci vite, non sempre l’elaborazione di essa è così naturale e serena, non sempre la rassegnazione è possibile e non sempre siamo in grado di abbracciarla con facilità.

Esistono elaborazioni del lutto complicate, definiti lutti patologici, dove il lavoro verso l’accettazione e la rassegnazione, che ci conduce a “lasciar andare” la persona cara, non è sempre così immediata.

In che modo una psicoterapia può essere d’aiuto?

In psicoterapia si usano le parole, e proprio le parole permettono di trasferire le esperienze vissute in linguaggio e consentono di rendere possibile l’integrazione di sentimenti e di pensieri. E’con le parole che diamo un senso al mondo e, di conseguenza, al nostro mondo interiore.

  

Attraverso una narrazione guidata da un professionista è possibile esprimere la perdita, mettere a fuoco le emozioni che pervadono le nostre giornate (rabbia, colpa, ansia, impotenza, tristezza).

Ovviamente perché questo possa avvenire bisognerà parlare della morte, un termine che spesso non utilizziamo, un concetto che vogliamo tenere lontano da noi perché è forte, fa paura, è un tabù sociale.

Si parlerà del passato, quando la persona defunta era ancora in vita, si scaverà nel legame che era presente tra i due, si riattiveranno i ricordi per giungere ad esplorare le proprie risorse interne come risposta a tutto ciò, come risposta alla morte.

Una condizione di lutto non deve essere subita, non siamo passivi a questo, ma deve venir “attraversata”, magari lasciandoci guidare da un professionista, ma con la consapevolezza che si può andare oltre.

 

Dott.ssa Sonia Allegro 

Psicologa – Psicoterapeuta