Categoria: <span>benessere</span>

QUANDO LA MUSICA DIVENTA CURA viaggio attraverso la nascita della musicoterapia

L’idea di utilizzare la musica in modo terapeutico ha attraversato i secoli con i loro capovolgimenti sociali, politici, culturali, scientifici e musicali e non ne è mai uscita scossa. In ogni epoca i concetti  di musica e musicoterapia sono rimasti legati a ciò che è definibile “armonia universale”. Innumerevoli sono gli scritti sulla musicoterapia provenienti da diverse culture; ne sono stati trovati dell’antichità fino ai giorni nostri e si accomunavano per gli stessi termini, gli stessi propositi e le medesime constatazioni riguardanti proprio la musica come terapia.

In tutte le culture dall’antichità, musica e medicina erano praticamente una cosa sola. I medici e gli sciamani sapevano che il mondo è costituito secondo principi musicali, che la vita del cosmo, ma anche quella dell’uomo, è dominata dal ritmo e dall’armonia; sapevano che la musica ha un potere incantatorio sulla parte irrazionale, che procura benessere e che nei casi di malattia può ricostituire l’armonia perduta.

Nell’antica grecia, Platone ed Aristotele furono, oltre che pensatori e filosofi, anche dei musicologi convinti che le arti del ritmo contribuissero a migliorare la calma interiore, la serenità e la morale. E non solo, Pitagora aveva individuato tre orientamenti musicali: adattamento (la musica deve adattarsi a musiche diverse e lontane dalla sua personalità accentandole), cambiamento (la musica può modificare lo stato d’animo profondo dell’individuo agevolandogli una maggiore accettazione di sé ed un maggiore uso delle proprie capacità) e purificazione (la musica può liberare l’anima e il corpo dalle tensioni giornaliere).

In epoca medievale la musica ha continuato ad insinuarsi nelle arti mediche tanto da essere utilizzata dai monaci, che divennero i depositari sia della scienza medica che della musica. Nella stessa epoca, gli arabi promuovevano l’uso del flauto come mezzo terapeutico per curare i disturbi mentali. Ma è nel rinascimento che viene creata la nozione di “simpatia universale”, stabilendo i rapporti di vibrazione che si creano tra i “corpi sonori”, tra i quali viene riconosciuto quello umano. In questo periodo molti medici si convinsero che imarando a suonare qualche strumento musicale, la loro capacità di ottenere guarigioni si sarebbe affinata e sviluppata.

Lo strumento musicoterapico aveva soprattuto due finalità: l’intervento catartico e l’utilizzo con finalità sedative. L’uso catartico della musica era frequente durante i baccanali tanto quanto oggi nelle discoteche e nei concerti o in certe feste tribali e in alcune meditazioni religiose. Ogni popolazione umana usa queste tecniche con il fine di provocare disinibizione, estasi o trance. Nel 1650 Kircher, musicologo e filosofo, considerava l’uso della musica per scopi sedativi, come una delle principali forme di musicoterapia.

Ma l’evoluzione dell’intervento musicoterapeutico non si ferma davanti neanche davanti ai secoli successivi che man mano sembrano perdere poesia con lo sviluppo tecnologico. Sono stati rilevati, molti altri risultati dell’intevento musicoterapico, alcune delle quali sono: il ristabilirsi di un equilibrio perduto, la stimolazione, la sedazione, la rivitalizzazione. La musica in questi casi, oltre a controllare e calmare le passioni viene prescitta anche per risvegliare le emozioni. Tra il settecento e l’ottocento si moltiplicano le osservazioni intorno ai poteri dei suoni e della musica sulla mente e sul corpo umano e sbocciano scoperte relative alla relazione tra ritmi corporei e ritmi musicali, fra pulsazioni e battute musicali, tra ritmo del respiro e ritmo musicale. Grazie a ciò nell’ottocento si propongono le prime forme di sedute di musicoterapia, consistevano nell’organizzazione di concerti o nella costituzione di corali e orchestre per pazienti. La musicoterapia prende le vesti di “terpaia di gruppo”.

Arriviamo così alla seconda metà del nostro secolo, quando questa tecnica progredisce grazie anche allo sviluppo di tecniche di registrazione e di riproduzione musicale. Ad avvalorare la musicoterapia nel ventesimo secolo sono sprattutto quelle tecniche che hanno come obiettivo lo studio del complesso suono- essere dal punto di vista fenomenologico, neuropsicologico, cognitivo e psicodinamico. Nella sua evoluzione la musicoterapia ha raggiunto un livello che le ha permesso di cominciare a sviluppare una propria metodologia, continuando ad essere in contatto con le discipline correlate.

Con la musica si cerca di mettere in contatto diversi individui. Fornisce a tutti un’opportunità di stabilire un rapporto di fiducia con il terapeuta. La musica diviene il mezzo per il raggiungimento di un fine.

La musica, con la musicoterapia perde il suo valore estetico e si fa più flessibile, si modifica per andare incontro alle esigenze e alle necessità multisensoriale del soggetto, lasciando che egli impari ad ascoltare i suoi bisogni e stimolare le sue capacità in una dimensione creativa, emotiva e relazionale. Questa terapia viene così intesa come il “prendersi cura” della persona che in difficoltà ha bisogno di tornare a rivivere “dal di dentro”. In musicoterpia le esperienze musicali ed i rapporti che si sviluppano servono come forze dinamiche del cambiamento. Si distingue dalle altre terapie per il suo affidamento alla musica vista come metodo e come modalità principale del trattamento, piuttosto che per i problemi clinici che è chiamata ad affrontare.

La musica non è semplicemente un linguaggio ma è presente in ogni linguaggio, è un’arte che va oltre la parola, un’arte di comunicazione in senso globale. Quando il linguaggio non è acquisito, quando lo sviluppo si presenta problematico, quando la relazione con l’altro è difficile, la musicoterapia rappresenta uno degli strumenti con cui poter contattare la persona e darle l’ooportunità di esprimersi attraverso un linguaggio non verbale che spesso si rileva di facile accesso; grazie alla comunicazione tramite la propria “musica interna”, si possono così rivivere vissuti personali. Partendo dal presupposto che l’individuo è parlante nella totalità dei comportamenti psico-senso-motori, la musicoterpia può rivelarsi un aiuto all’espressione, all’essere capito, al sentirsi adeguato, accompagnato e supportato nel processo dal terapeuta, che restituirà senso musicale ad ogni espressione del soggetto, armonizzandolo.

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo, psicoterpeuta e sessuologo clinico

 

Bibliografia:

Frova A., Fisica della musica, Zanichelli, Bologna 1999.

Mattia M, Rumore e musica, convegno internazionale Musica Urbana, 2002

Pistorio G. Scarso G., Musicoterapia, metodologie, ricerche cliniche, interventi. Centro scientifico Milano, 1998.

Vigorelli L. Esperienze emotive e cognitive in musica. Logopaedia 2 , 2004.

YOGA. Quando corpo, mente, respiro ed energia si uniscono

Per anni, il termine Yoga ha assunto differenti significati a seconda delle interpretazioni di coloro che lo praticavano. Nell’immaginario comune occidentale, alla parola Yoga riecheggiavano rappresentazioni di monaci seduti a gambe incrociate su di una montagna, uomini vestiti di arancione o strane posizioni da circensi. L’opinione comune, a riguardo è sempre stata un po’ confusa. 

La parola Yoga deriva dalla radice sanscrita “yuj” che significa mescolare, unire. Il suo significato è quindi, unione. Unione di mente e corpo. Lo Yoga è lo studio del funzionamento del corpo e della mente che permette di acquisire una maggiore conoscenza di Sé che non deriva solo dai sensi e dalla ragione. È un luogo in cui arte, filosofia e scienza si incontrano. 

Oggigiorno, è possibile individuare quattro tipi di Yoga: 

  1. fisico, basato su posture statiche, sequenze in movimento ed esercizi respiratori (Haṭhayoga, Vinyāsa Yoga, Ashtanga Yoga ecc.); 
  2. intellettuale, basato su approccio simile alla filosofia platonica, alla teologia cristiana e alla filosofia tedesca del XIX secolo (Jñāna Yoga); 
  3. religioso o devozionale che si propone di entrare in contatto con una divinità (Śiva, Viṣṇu, Kṛṣṇa…) e riprende, in parte, forme e contenuti della religione cristiana e delle moderne correnti spirituali nate con la New Age (Bhakti Yoga e Karma Yoga); 
  4. psicologico (Yoga Based Practice -YBP), una pratica terapeutica psicofisica caratterizzata dalle tre principali componenti dello yoga vale a dire, le posture statiche o sequenze di movimento, le pratiche di respirazione e l’attenzione consapevole (Schmalzl, Powers, & Henje Blom, 2015). 

Questi quattro tipi di Yoga spesso integrati tra loro, altre volte rigidamente separati e altre ancora, in conflitto sono sempre stati tollerati all’insegna del motto e principio di base: “lo Yoga è unione”. 

Nell’ottica di questo stesso principio, alla base di qualsiasi tipologia di yoga, sono state individuate tre principali funzioni, come:

  1. “lente d’ingrandimento” per far emergere il proprio dialogo interiore (Bertolo 2016);
  2. insieme di tecniche pratiche per migliorare la salute, la concentrazione e la presenza nel qui e ora (Mori, 2019);
  3. scienza e tecnologia olistica, in quanto metodo disciplinato che “funziona a tutto campo per l’individuo contemporaneo” (Squarcini 2015).

Lo yoga, quindi, va oltre le mere tecniche di esecuzione degli esercizi e gli insegnamenti dalla tradizione millenaria. È una disciplina che insegna a concentrarsi su sé stessi per trovare e ritrovare il proprio equilibrio interno ed esterno utile poi, per ottenere una più chiara immagine di sé.

Attraverso il lavoro disciplinato sul corpo, lo yoga stimola la mente alla propriocezione, vale a dire ad una maggiore percezione e consapevolezza di ogni singola parte del proprio corpo all’interno dello spazio (Bassetti 2009). Si acquisiscono così, informazioni importanti che consentono di imparare come ogni arto, muscolo e tendine del proprio corpo si muove e funziona; così come, stimola ad un ascolto attento e consapevole del proprio respiro per imparare poi, a controllarlo.

Il controllo del respiro o Pranayama, infatti è indispensabile per una buona pratica perché da esso ne derivano la calma della mente, la tranquillità del sistema nervoso e la tolleranza vissuta a livello del corpo della mente. Notiamo quindi, quanto siano strettamente connessi corpo e mente all’interno dello Yoga. Occupandosi del corpo, infatti sarà possibile calmare la mente. Il saggio Patanjali ha definito lo Yoga non a caso, come “controllo delle divagazioni della mente, dell’intelletto e dell’ego”. Solo se la nostra mente è calma e tranquilla anche il nostro corpo e la nostra anima lo saranno. “Così come la luna non si riflette interamente nelle acque di un fiume torbido, l’anima non si manifesta in una mente agitata” (Iyengar G.S, 1992). 

Lo studio e la pratica della disciplina yogica sono elementi fondamentali per controllare le oscillazioni della mente. L’utilizzo di metodi di rilassamento derivanti da tecniche di meditazione e concentrazione permetteranno l’affiorare graduale di stati di benessere, calma e lucidità mentale. 

Attraverso una pratica costante e regolare, sarà possibile far emergere tutte quelle grandi potenzialità insite in ognuno, di cui spesso non si è del tutto consapevoli, e che possono essere utili a direzionare il proprio cammino quotidiano per affrontare al meglio e sotto una nuova luce, le sfide di ogni giorno.

In sintesi, ecco alcuni dei benefici che possiamo ottenere da una pratica disciplinata dello Yoga.

Benefici fisici:

  • Migliora la forza, flessibilità, equilibrio e concentrazione
  • Migliora le funzionalità di organi, tessuti, apparati
  • Favorisce un’azione disintossicate dell’organismo
  • Rallenta l’invecchiamento
  • Previene e cura il mal di schiena
  • Riduce il dolore cronico
  • Mantiene il sistema cardio-circolatorio in buona salute
  • Aumenta la qualità del respiro e la capacità respiratoria
  • Migliora le performance sportive

Benefici mentali

  • Riduce l’ansia, depressione, attacchi di panico
  • Aiuta a gestire le emozioni
  • Aiuta a gestire lo stress
  • Aiuta a promuovere sane abitudini di vita
  • Favorisce una migliore qualità del sonno
  • Migliora la capacità di attenzione e concentrazione

 

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

Bassetti C. (2009) Riflessività-in-azione. L’incorporamento dello sguardo spettatoriale come sapere pratico professionale nella danza, in “Etnografia e ricerca qualitativa, Rivista quadrimestrale” 3/2009, pp. 325-352.

Bertolo C, Giordano G. (2016) Spiritualità incorporate. Le pratiche dello Yoga. Milano – Udine: Mimesis Edizioni;

Iyengar G.S, Yoga per la donna (1992) Ed. Mediterranee;

Mori L., Squarcini F., (2019) Nel nome dello Yoga. Filosofia, disciplina, stile di vita; Milano: RCS MediaGroup S.p.A. Edizione Kindle;

Squarcini F., Guagni M.A. (2015) Yogasūtra di Patañjali Torino, Einaudi, vol. 14, pp. 1-176;

Schmalzl, L., Powers, C., Henje Blom, E. (2015). Neurophysiological and neurocognitive mechanisms underlying the effects of yoga-based practices: towards a comprehensive theoretical framework. Frontiers in Human Neuroscience, 9.

Sitografia

https://muysalud.com/it/salute/14-benefici-dello-yoga-per-la-salute/

https://www.yogaitalia.org/

PERCHE’ LEGGERE FA BENE?

“Leggere fa bene, si sa!”. Fin da bambini abbiamo sentito ripetere questa frase da maestri, professori, genitori e chi più ne ha più e metta; per alcuni queste raccomandazioni hanno fatto breccia, dando il via ad una vera e propria passione che prosegue anche da adulti, per altri no.

Ma cosa si intende davvero quando si dice che leggere fa bene? Scopriamolo insieme in questo articolo:

1) Ti aiuta a tenere la mente attiva.  Leggere è una vera e propria palestra per la nostra mente, così come lo sono attività come giocare a scacchi, fare le parole crociate oppure i puzzle. La lettura è un’attività che richiede attenzione, concentrazione e ragionamento, dunque ci aiuta a tenere allenata la mente e a prevenire, o rallentare, alcune patologie neurodegenerative come l’Alzheimer o la demenza senile.

2) Migliora le capacità mnemoniche. La lettura implica un certo sforzo al livello della memoria. Se pensiamo a quando leggiamo un romanzo, è implicito che dovremmo ricordarci il nome dei personaggi, il ruolo che hanno e la loro storia, se vogliamo seguire la trama intessuta dall’autore. Allenare la memoria tutti i giorni è molto importante, soprattutto in tempi in cui è il telefono a ricordarci di fare qualunque cosa.

3) Amplia le tue conoscenze. Qualunque informazione con la quale entriamo in contatto diventa nostra e si aggiunge al bagaglio di conoscenze che amplieremo per tutta la vita. A volte ci sembra di aver dimenticato tutto e, quando meno ce lo aspettiamo, i cassetti della memoria si aprono, talvolta fornendoci soluzioni inaspettate.

4) Aumenta il tuo vocabolario. Quando leggiamo ci imbattiamo in un sacco di parole nuove che spesso entrano a far parte del nostro modo di parlare. Questo ci aiuta ad esprimerci in una maniera più chiara ed esaustiva, rendendoci anche più comprensibili agli altri.

5) Ti aiuta a scrivere meglio. Questa è una diretta conseguenza del punto 4, ovvero dell’implementazione del vocabolario. Sarà capitato a tutti di avere un pensiero o un concetto in testa e di non riuscire a trasporlo su un foglio in maniera efficace. Scrivere è un modo di comunicare con gli altri e avere più parole per farlo ci aiuta ad essere più sicuri di noi e più chiari con gli altri.

6) Migliora le capacità di analisi e di pensiero critico. Spesso leggere ci pone davanti a innumerevoli domande: che si tratti di un giallo o di un saggio di filosofia, mentre leggiamo siamo in qualche modo portati ad anticipare il pensiero dell’autore, a cercare di intuire cosa succederà nella pagina successiva e a farci un’idea di come siano andate le cose, ancor prima di averle lette. La capacità di analisi e di pensiero critico è importantissima per avere una nostra idea del mondo.

7) Riduce lo stress. Leggere ci porta in un’altra dimensione, quella immaginifica, lontana dai problemi del quotidiano; ci aiuta a staccare dopo un’intensa giornata di lavoro, a prendere una pausa dai pensieri quando viaggiamo in metropolitana, a scappare dalla noia rifugiandoci in altri mondi. Per questi ed innumerevoli altri motivi, leggere è un ottimo antistress.

8) Aumenta le capacità di concentrazione. Ormai siamo abituati a fare 10 cose insieme, anche perché i dispositivi che utilizziamo tutti i giorni ci portano ad essere multitasking. In un mondo che ci vuole veloci, la lettura ci aiuta a fermarci e a far sparire tutto quello che abbiamo intorno, anche le notifiche dello smartphone, concentrandoci su una sola attività.

9) Ci rilassa. Anche durante la lettura del thriller più inquietante, leggere ci pone in una condizione di relax fisico e mentale. I libri ci portano, in mondi nei quali il nostro capo non esiste e i nostri problemi sono troppo lontani. Questo ci permette di staccare ed entrare in una condizione di relax, che aiuta a regolare le emozioni e a ricaricarci.

10) Ci fa entrare in contatto con le emozioni. Sarà capitato a tutti di farsi trascinare nella storia di un protagonista e di vivere con lui mille avventure e mille emozioni diverse. Leggere ci dà la possibilità di entrare in contatto con le emozioni in una maniera “sicura”, coinvolgendoci ma senza farci troppo male.

Questi sono solo 10 degli innumerevoli benefici che la lettura ci regala, ma l’elenco potrebbe essere interminabile.
Esiste addirittura un approccio alla salute mentale che sfrutta il potere curativo della lettura, la biblioterapia, e può essere svolto sia individualmente sia nella dimensione gruppale.
I libri sono possono essere dei validi alleati nella ricerca di soluzioni, compagni di viaggio, un ottimo rimedio alla solitudine, ma anche tantissimo altro.
E tu leggi? In che modo i libri ti sono stati di aiuto nella tua vita?

 

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA:
– Pennebaker J.W. (2004), Scrivi cosa ti dice il cuore. Autoriflessione e crescita personale attraverso la scrittura di sé, Centro Studi Erikson, Trento.
– Rimé B. (2007), The social sharing of emotion as an interface between individual and collective processes in the costruction of emotional climates, “Journal of Social Issues”, vol. 63, n.2, pp.307-322.
– Urbano A. (2017), preScrivimi un libro. I benefici psicologici della biblioterapia, Stilo editrice, Bari.

IL LUTTO COME ESPERIENZA DI VITA

Tutti noi nella vita, prima o poi, ci troviamo a fare i conti con il terribile dolore per la morte di una persona cara, a noi vicina.

Leonardo Sciascia, il celebre scrittore del Novecento, annunciava:

“La morte è terribile, non per il non esserci più, ma al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, di mutevoli pensieri che restano”.

La tristezza, il dispiacere, il dolore per la perdita apre molti interrogativi a cui non riusciamo, sempre, a trovare una risposta: “Riuscirò a sopportare la sua assenza?”, “Mi dimenticherò di lui/lei?”, “Quanto durerà tutto questo?”, “Tornerò ad essere di nuovo felice?”.

La morte di una persona cara ci fa cadere nel triste vortice del lutto (dal latino lugere = piangere, dolersi) e non sempre sentiamo di avere i mezzi per superare un evento della vita che ci accomuna.

In cosa consiste il lutto?

 

Perdere una persona, inevitabilmente innesca un processo di cambiamento che crea una temporanea disorganizzazione dell’individuo e del sistema familiare. Chi lo vive si trova ad attraversare diverse fasi che la psichiatra Elisabeth Kubler Ross, nel 1970, ha individuato in 5.

Si parla di fasi e non di stadi proprio perché le fasi possono ripresentarsi più volte e alternarsi con varia intensità e senza un ordine preciso.

– Negazione o rifiuto —> di solito caratterizza i primi giorni, quando vengono messi in atto meccanismi di difesa di negazione. In questa fase le frasi più frequenti sono “non ci credo”, “non è possibile”.

– Rabbia —>. in questa fase si manifestano emozioni forti quali rabbia, paura che vengono orientati indistintamente a tutti (familiari, se stessi, medici, la persona cara scomparsa).

– Contrattazione o patteggiamento —> si crea una sorta di negoziazione con amici, familiari, figure religiose, o se stessi “prometto che…” “ Oh mio Dio se starò meglio farò…”. La persona inizia a riprendere il controllo della sua vita, a rivalutare le proprie risorse e a riacquistare l’esame di realtà.

– Depressione —> è la fase della disperazione e spesso coincide con il momento in cui si cerca un aiuto, anche psicologico per superare questo lutto.

– Accettazione —> quando il paziente elabora quanto è accaduto intorno a lui, avviene

un’accettazione della propria nuova condizione.

Per quanto la morte sia una certezza nelle nostre fugaci vite, non sempre l’elaborazione di essa è così naturale e serena, non sempre la rassegnazione è possibile e non sempre siamo in grado di abbracciarla con facilità.

Esistono elaborazioni del lutto complicate, definiti lutti patologici, dove il lavoro verso l’accettazione e la rassegnazione, che ci conduce a “lasciar andare” la persona cara, non è sempre così immediata.

In che modo una psicoterapia può essere d’aiuto?

In psicoterapia si usano le parole, e proprio le parole permettono di trasferire le esperienze vissute in linguaggio e consentono di rendere possibile l’integrazione di sentimenti e di pensieri. E’con le parole che diamo un senso al mondo e, di conseguenza, al nostro mondo interiore.

  

Attraverso una narrazione guidata da un professionista è possibile esprimere la perdita, mettere a fuoco le emozioni che pervadono le nostre giornate (rabbia, colpa, ansia, impotenza, tristezza).

Ovviamente perché questo possa avvenire bisognerà parlare della morte, un termine che spesso non utilizziamo, un concetto che vogliamo tenere lontano da noi perché è forte, fa paura, è un tabù sociale.

Si parlerà del passato, quando la persona defunta era ancora in vita, si scaverà nel legame che era presente tra i due, si riattiveranno i ricordi per giungere ad esplorare le proprie risorse interne come risposta a tutto ciò, come risposta alla morte.

Una condizione di lutto non deve essere subita, non siamo passivi a questo, ma deve venir “attraversata”, magari lasciandoci guidare da un professionista, ma con la consapevolezza che si può andare oltre.

 

Dott.ssa Sonia Allegro 

Psicologa – Psicoterapeuta

SELETTIVITA’ ALIMENTARE O ARFID?

A molti genitori sarà capitato, in qualche momento della crescita di loro figlio, di trovarsi di fronte al rifiuto di alcuni cibi e/o alla selettività nelle scelte e consistenze alimentari. Questo è spesso fonte di grande preoccupazione, soprattutto quando è associato a una crescita ponderale sotto i limiti della norma e a evitamenti generalizzati legati alla dinamica alimentare e conviviale. Ma quando questo può essere un campanello d’allarme e portare ad ipotizzare una diagnosi di ARFID?

Cos’è l’ARFID?

L’ARFID (sigla che sta per disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo) è un disturbo della nutrizione e dell’alimentazione inserito nel 2013 nel manuale diagnostico dei disturbi mentali DSM 5, caratterizzato da una persistente incapacità di soddisfare adeguati bisogni nutrizionali e/o energetici che portano a conseguenze clinicamente significative come:

– significativa perdita di peso o incapacità di raggiungere l’aumento di peso atteso (crescita ponderale normale dello sviluppo);

– carenza nutrizionale significativa;

– dipendenza dall’alimentazione enterale o supplementi nutrizionali orali per mantenere il peso o lo stato nutrizionale;

– marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Una caratteristica importante è che la restrizione alimentare non è correlata alla preoccupazione per il peso o la forma del corpo e ciò contraddistingue l’ARFID dall’Anoressia Nervosa.

Si tratta di una diagnosi che comprende al proprio interno una grande variabilità di manifestazioni cliniche ma ciò che è certo è che, soffrire di ARFID, non significa essere schizzinosi o capricciosi.

Ad oggi, sono stati identificati tre profili che spiegano il motivo della carenza energetica e/o nutrizionale:

1- Apparente mancanza di interesse per il mangiare o per il cibo. Spesso sono presenti difficoltà emotive come preoccupazioni, ansia o tristezza che interferiscono con l’alimentazione e producono un disinteresse nei confronti del cibo.
2- Evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo. Alcune persone, ad esempio, mangiano solo cibi con certe consistenze, colori, temperature o sono molto sensibili alle variazioni dei gusti. Evitano alcuni cibi perché, in anticipo, pensano di non tollerare certe caratteristiche di quell’alimento.
3- Preoccupazione relativa alle conseguenze negative del mangiare. La riduzione dell’apporto di cibo è dovuta ad alcune paure come: soffocare, vomitare, non riuscire a deglutire, causare diarrea, causare reazioni allergiche o causare dolori addominali o al petto.

I tre profili possono variare in termini di gravità, ma non si escludono a vicenda.

Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID) può avere esordio nell’infanzia o nella prima adolescenza, ma in alcuni casi, anche in età adulta.

Che fare se ci si trova in presenza di ARFID?

Nonostante l’ARFID sia una diagnosi recentemente aggiunta, esistono già trattamenti efficaci. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, unita al lavoro multidisciplinare che vede coinvolto medico e nutrizionista, è risultata in grado di aiutare i pazienti ad affrontare il problema, ottenendo effetti a lungo termine.

La terapia si focalizza, ad esempio, sul reinserimento dei cibi “nuovi” o “eliminati” o “fobici”, allo scopo di aumentare la varietà alimentare, parallelamente al raggiungimento di un peso stabile e a un adeguato apporto di nutrienti, in caso fosse insufficiente. Si procede, poi, a destrutturare la visione di “cibo nemico” insegnando a costruire pasti equilibrati e a reinserire gli alimenti con gradualità attraverso una desensibilizzazione e una esposizione graduale, facendo una lista degli alimenti esclusi e partendo da quelli che fanno meno paura o che creano meno problemi.

Le reintroduzioni sono inizialmente minime, in cui piccoli assaggi, adeguatamente masticati, permettono non solo di riprendere familiarità con gusti e consistenze, ormai abbandonate, ma anche di minimizzare eventuali reazioni avverse che si potrebbero presentare dopo una lunga eliminazione.

Un altro aspetto importante su cui si lavora è quello di effettuare i reinserimenti alimentari in ambienti e condizioni percepite come “sicure”, in modo da ridurre l’ansia associata al momento del pasto.

In conclusione, non tutti i comportamenti dell’infanzia legati al cibo devono destare preoccupazione, perché fanno parte del repertorio di esplorazione e crescita, ma è importante confrontarsi costantemente con il pediatra, intercettando il bambino già dalle prime manifestazioni di selettività/restrizione alimentare, soprattutto se appaiono curiose o inspiegabili: potrebbe trattarsi di ARFID e il disturbo, se trascurato, potrebbe strutturarsi nel tempo ed evolvere verso un quadro psicopatologico più severo.

Dott.ssa Giacone Giulia

Psicologa – Psicoterapeuta

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Bryant-Waugh, R. & Higgins, C. (2020). Avoidant restrictivefood intake in childhood and adolescence. A clinical guide. London and New York: Routledge.
Calugi, S. (2018). La terapia cognitivo comportamentale adattata per l’ARFID. Congresso Nazionale AIDAP 2018. Garda (VR), 9-10 novembre 2018.
Thomas, J.J., Lawson, E.A., Micali, N., Misra, M., Deckersbach, T., & Eddy, K.T. (2017). Avoidant/RestrictiveFood Intake Disorder: A Three-Dimensional Model of Neurobiology with Implications for Etiology and Treatment. Curr Psychiatry Rep., 19(8), 54.
Thomas, J.J. & Eddy K.T. (2018). Cognitive-behavioraltreatment of avoidant/restrictive food intake disorder. CurrentOpinion in Psychiatry, 31, 425-430

AMI PIU’ ME O IL TUO SMARTPHONE?: LA TECNOFERENZA E IL RUOLO DEGLI SMARTPHONE NELLA RELAZIONE GENITORI E FIGLI

Da alcuni anni i genitori, specie di ragazzi adolescenti, si trovano ad affrontare una nuova sfida: la regolamentazione dell’uso dello smartphone. Molto si discute sull’uso sempre più precoce e pervasivo di smartphone e tablet tra bambini e adolescenti e sull’impatto che questi hanno sulle capacità relazionali e attentive dei giovani. Meno si parla di come, un uso non consapevole della tecnologia mobile da parte degli adulti può avere effetto sui bambini. Questo non solo nei termini di essere un cattivo esempio o impartire abitudini errate, ma dell’effetto che un uso pervasivo degli smartphone può avere sul proprio ruolo genitoriale e sulla relazione con i propri figli.

Non si vuole qui certo demonizzare la tecnologia mobile, strumento riconosciuto come utile ed a tratti indispensabile, ma porre l’attenzione su quanto possa essere un richiamo costante, che induce a rimanere “sempre connessi” con il mondo, assorbiti dall’online, che può fungere da fuga e allontanamento dal presente fisico e più prossimo.

Da decenni si sa quanto la qualità delle relazioni precoci del bambino contribuiscano allo sviluppo di un attaccamento sicuro e di un buon sviluppo emotivo e quanto la qualità delle relazioni passi attraverso la capacità di sintonizzarsi col bambino prevalentemente grazie alla reciprocità dello sguardo. Gli esseri umani infatti sono gli unici in grado di sintonizzarsi, collaborare e condividere obiettivi attraverso il coordinamento dello sguardo. Sin dai primi mesi si pensi al momento dell’allattamento lo sguardo del bambino e quello della madre “si parlano”, comunicano bisogni ed emozioni. Attraverso lo sguardo i genitori riescono a percepire i segnali che arrivano dal bambino, interpretarli correttamente e rispondere alle sue esigenze e questo contribuisce nel bambino allo sviluppo di un sistema di attaccamento sicuro. Sempre attraverso lo sguardo il bambino si rispecchia emozionalmente nel genitore, imparando a conoscere se stesso.

L’utilizzo ripetuto e continuativo dello smartphone da parte degli adulti in presenza di un bambino, anche piccolo, può determinare una diminuzione della capacità di sintonizzarsi con i suoi bisogni,proprio interrompendo il contatto visivo, la coordinazione dello sguardo e l’attenzione condivisa. Come spesso notiamo lo strumento tecnologico stesso, il suo richiamo sonoro di mail e messaggi, la prossimità continua induce facilmente una sorta di assorbimento che Gergen (2002) ha definito come “presenza assente”. McDaniel (2015) ha coniato il termine “tecnoferenza” per indicare proprio quanto le ripetute interruzioni nelle interazioni interpersonali, a causa di dispositivi tecnologici digitali, determini una interferenza relazionale e comunicativa tra caregiver e bambino, correlando ad alcuni esiti negativi sullo sviluppo precoce.

Alcuni studi osservazionali che rimandano al paradigma dello still face registrano le reazioni dei bambini nel momento in cui il caregiver cessa di interagire con loro, rivolgendo lo sguardo allo smartphone. Le reazioni sono simili a quelle che sono state registrate nelle interazioni con mamme depresse, che manifestano una mimica facciale fissa ed inespressiva, con un aumento, anche in bambini di 5/6 mesi, di reazioni negative, di stress e frustrazione anche intensi, di ritiro dell’attenzione e dell’attività di esplorazione. Da notare che, anche dopo la ripresa dell’interazione la qualità e quantità di segnali di benessere del bambino non tornavano in linea con i valori precedenti all’interruzione ed anzi i bambini sembravano acquisire una minor capacità di essere calmati e rassicurati anche dopo che l’attenzione tornava su di loro.

Le ricerche segnalano che anche bambini di età maggiore manifestano od esprimono sentimenti negativi di fronte a momenti di tecnoferenza, in particolare durante di momenti di convivialità o durante il gioco, evidenziando stress e irrequietezza e innescando talvolta veri e propri meccanismi di competizione con lo strumento tecnologico….almeno fino a quando non ne avranno uno proprio da cui lasciarsi ugualmente assorbire.

La reazione dell’adulto in risposta a comportamenti di richiamo, specie se questi sono particolarmente evidenti, è spesso di rabbia e fastidio cosa che determina nel bambino ancora più confusione e frustrazione ed un senso di fallimento di fronte ad un “avversario” contro cui teme di non poter competere.

È comprensibile e per certi aspetti doveroso che gli adulti possano ritagliarsi spazi di svago e socializzazione – perché no – anche attraverso device mobili, ma è importante che questo vada fatto in modo consapevole, coscienti che “i bambini ci guardano”, anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando ci sembrano distratti o dediti ad altro. Altrettanto importante è preservare alcunimomenti che possono essere particolarmente significativi, come quello del gioco, dell’addormentamento, dell’allattamento ed in generale dei pasti. Tutto questo non soltanto permetterà lo sviluppo di una miglior relazione genitori/figli e di un stile di attaccamento sicuro, ma insegnerà ai futuri ragazzi un uso più attento e consapevole di smartphone e tablet, limitando – si spera – successivi conflitti in adolescenza.

Dott.ssa  Chiara Delia

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

Konrad C, Hillmann M, Rispler J, Niehaus L, Neuhoff L, Barr R. Quality of Mother-Child Interaction Before, During, and After Smartphone Use. Front Psychol. 2021 Mar 29
Vik FN, Grasaas E, Polspoel MEM, Røed M, Hillesund ER, Øverby NC. Parental phone use during mealtimes with toddlers and the associations with feeding practices and shared family meals: a cross-sectional study. BMC Public Health. 2021 Apr 20;21(1):756
Radesky JS, Kistin CJ, Zuckerman B, Nitzberg K, Gross J, Kaplan-Sanoff M, Augustyn M, Silverstein M. Patterns of mobile device use by caregivers and children during meals in fast food restaurants. Pediatrics. 2014 Apr;133(4):e843-9
Myruski S, Gulyayeva O, Birk S, Pérez-Edgar K, Buss KA, Dennis-Tiwary TA. Digital disruption? Maternal mobile device use is related to infant social-emotional functioning. Dev Sci. 2018 Jul;21(4)
Stockdale LA, Porter CL, Coyne SM, Essig LW, Booth M, Keenan-Kroff S, Schvaneveldt E. Infants’ response to a mobile phone modified still-face paradigm: Links to maternal behaviors and beliefs regarding technoference. Infancy. 2020 Sep;25(5):571-592
Wiltshire CA, Troller-Renfree SV, Giebler MA, Noble KG. Associations among average parental educational attainment, maternal stress, and infant screen exposure at 6 months of age. Infant Behav Dev. 2021 Nov;65
Braune-Krickau K, Schneebeli L, Pehlke-Milde J, Gemperle M, Koch R, von Wyl A. Smartphones in the nursery: Parental smartphone use and parental sensitivity and responsiveness within parent-child interaction in early childhood (0-5 years): A scoping review. Infant Ment Health J. 2021 Mar;42(2):161-175
Nomkin LG, Gordon I. The relationship between maternal smartphone use, physiological responses, and gaze patterns during breastfeeding and face-to-face interactions with infant. PLoS One. 2021 Oct 8;16(10)
McDaniel BT, Radesky JS. Technoference: Parent Distraction With Technology and Associations With Child Behavior Problems. Child Dev. 2018 Jan;89(1):100-109
Gergen, K. (2002). The challenge of absent presence. In Katz J. E. & Aakhus M. A. (Eds.), Perpetual contact: Mobile communication, private talk, public performance (pp. 227–241). Cambridge, UK: Cambridge University Press

CHE COS’È LA COMPASSIONE?

Quando sentiamo parlare di compassione, possiamo essere indotti a considerarla come qualcosa di negativo, di vicino alla pietà o alla pena. In realtà, in queste ultime è come se ci fosse un dislivello tra chi soffre e chi vede soffrire, non c’è condivisione. Se analizziamo l’etimologia della parola compassione scopriamo come essa derivi dal greco e significhi, letteralmente “soffrire con”.

Nella compassione, quindi, c’è condivisione di sofferenza o, meglio, si prova compassione quando si empatizza con l’altro consapevoli del fatto che il dolore che lo sta affliggendo potrebbe un giorno o l’altro affliggere anche noiSi parla in questo caso di common humanity, umanità condivisa: come esseri umani siamo tutti imperfetti, fallibili, vulnerabili al dolore e desiderosi di sperimentare un po’ di pace.

Nel buddismo la compassione rappresenta una delle qualità della mente pura.

Gilbert, ideatore della Terapia Focalizzata sulla Compassione (Compassion Focused Therapy, CFT), la definisce come una particolare sensibilità alla sofferenza propria e degli altri, unita a un forte desiderio e all’impegno nell’alleviarla e prevenirla.

È importante porre l’accento sull’ultima parte, ovvero sul desiderio di alleviare e prevenire la sofferenza, per scongiurare il rischio di confondere la compassione con la giustificazione della propria o altrui condizione considerata come immutabile. Praticare la compassione ci permette di riconoscere e accogliere la sofferenza, integrandola nella storia e nel vissuto di chi la prova. Dopo averla riconosciuta, non ci si deve semplicemente arrendere ad essa, anzi, essere compassionevoli ha molto a che vedere con fermezza e autorevolezza, fornendo una spinta gentile verso un cambiamento che permetta di allineare azioni e valori e di accrescere il proprio senso di sicurezza e fiducia. La compassione è sì calore e gentilezza, ma anche assertività e coraggio!

Possiamo riconoscere tre flussi di compassione:

verso gli altri;
dagli altri verso di noi;
verso noi stessi (autocompassione).

Il primo tipo di compassione citato è forse il più semplice da provare. Gli altri due tipi, infatti, presuppongono lo “spegnimento” della tendenza all’autocritica. Riuscire a provare autocompassione o aprirsi alla compassione altrui presuppone la capacità di sospendere il giudizio verso se stessi e spesso tale abilità non ci viene naturale ma va allenata, specie se non se ne è fatta esperienza in età precoce.

La compassione di sé si impara dagli altri e dalla relazione con gli altri.

Come allenarla dunque, se non si ha avuto la possibilità di apprenderla dall’interazione con le prime figure significative? Un passo fondamentale è rappresentato dalla consapevolezza delle nostre emozioni difficili e di ciò che le scatena (i cosiddetti trigger). Sarà poi importante lasciare a tali emozioni lo spazio che meritano, senza giudicarle ma piuttosto riconoscendone la storia (da dove arrivano? perché in circostanze specifiche ci attiviamo sempre nello stesso modo?). Quindi bisognerà trovare le giuste strategie per calmare quelle emozioni, percependo come provarle non significhi necessariamente essere in pericolo e che, anche se fosse, abbiamo degli strumenti per prendercene cura. Infine, conoscere ciò che è davvero importante per noi potrà orientare le nostre azioni, attivandoci nell’ottenimento di quello che conta davvero nella nostra vita.

Dott.ssa Arianna Calabrese

Psicologa-Psicoterapeuta

 

Bibliografia

Gilbert, P. (2016). La terapia focalizzata sulla compassione: Caratteristiche distintive. (N. Petrocchi, Trad.). Milano: Franco Angeli.

Gilbert, P., & Procter, S. (2006). Compassionate Mind Training for People with High Shame and Self-Criticism: Overview and Pilot Study of a Group Therapy Approach. Clinical Psychology & Psychotherapy, 13(6), 353–379.

AMI PIU’ ME O IL TUO SMATPHONE? Il fenomeno del phubbing: l’influenza degli smartphone sulle relazioni.

E’ sufficiente andare a prendere un caffè, restare seduti al tavolino di un bar e guardarsi attorno per qualche minuto per osservare come molti dei nostri vicini di tavolo non stanno parlando con i loro commensali ma hanno gli occhi rivolti al proprio telefono: qualcuno fa una foto alla schiumetta del cappuccino, qualcuno legge le mail, qualcuno risponde ad una chat, una persona si sta facendo un selfie, un bambino guarda un cartone animato o gioca in modo avvincente.

E’ sempre più raro vedere persone che si parlano senza un telefono in mano o sul tavolo e frequentemente parliamo con persone che mentre conversano con noi (o così pare) utilizzano contemporaneamente il proprio smartphone. Il cellulare è ormai come un capo d’abbigliamento indispensabile, un oggetto costantemente presente nelle nostre vite e molti di noi hanno l’abitudine di tenerlo fra le mani e di interagirci continuamente: questo avviene non solo quando ad esempio siamo in coda alle poste o sui mezzi pubblici e, soli e annoiati, controlliamo i social o navighiamo sul web, ma anche quando siamo immersi in relazioni sociali, in famiglia, con i colleghi, tra amici e in coppia.

Abitudini come ad esempio quella di fotografare piatti che si stanno per mangiare sono un pretesto per postare su Instagram l’immagine della prima pizza napoletana assaggiata nella propria vita, del primo poke, del migliore vino assaggiato, e, dopo la condivisione, venire risucchiati dal vortice di notifiche, commenti conseguenti, che distraggono da quanto sta succedendo intorno a sé, al tavolo, tra i propri commensali. Il risultato è che la qualità del momento conviviale che si sta vivendo ne risulta danneggiata e, più in generale, si percepisce spesso anche un senso di minore soddisfazione per quanto riguarda il pasto consumato.

Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi ad interagire con qualcuno che invece di prestare attenzione alla conversazione che sta avendo con noi è sprofondato con occhi e mente dentro lo schermo del suo telefono: facilmente possiamo reperire la sensazione di fastidio o frustrazione del non essere ascoltati o di non ricevere la sufficiente attenzione desiderata dall’altra persona. Ci stiamo abituando a tollerare questi tipi di atteggiamenti nelle nostre situazioni sociali e spesso ci capita di ritrovarli anche nelle nostre relazioni personali più intime: che effetto fa alla famiglia vivere immersa in relazioni mediate dal telefono?

Chi ha un figlio preadolescente o adolescente conosce bene la sensazione di essere trasparente o parlare da solo mentre l’interlocutore è al telefono, spesso con auricolari inclusi nelle orecchie. Ma se a comportarsi così è il nostro partner, che cosa succede alla coppia?

Non ci sono tantissime ricerche su questo fenomeno, piuttosto recente, che prende il nome di Phubbing.

L’uso di un telefono cellulare durante una conversazione è chiamato phubbing (Ugur & Koc, 2015). Il termine phubbing (una crasi tra ‘phone’ e ‘snubbing’) si riferisce all’atto di concentrarsi sul proprio cellulare durante una conversazione invece di prestare attenzione all’interlocutore. Se questo atto si verifica all’interno delle relazioni, prende la definizione di partner-phubbing (Roberts & David, 2016). Nel partner-phubbing si può distinguere un phubber, ovvero la persona che, durante un’interazione sociale co-presente, concentra tutta o parte della sua attenzione sul suo cellulare, e un phubbee cioè la persona che non viene considerata (o “snobbata”) dal partner che usa il telefono.

La letteratura ci dimostra che il partner-phubbing è negativamente correlato alla soddisfazione delle relazioni (David & Roberts, 2021), proprio perché l’uso di un telefono durante le interazioni co-presenti crea una situazione in cui si è fisicamente presenti, ma non lo si è mentalmente. Questo fenomeno infatti provoca delle sensazioni di “assenza-presenza” o di stare “soli insieme”.

Ma cosa si intende per soddisfazione relazionale? La soddisfazione relazionale è il grado in cui il partner soddisfa i desideri e i bisogni dell’altro: in questo la qualità della comunicazione tra i partner svolge un ruolo di primo piano e sembra essere più importante del tempo che i partner trascorrono insieme (Guldner & Swensen, 1995).

Anche se negli ultimi anni sono state condotte diverse ricerche sul phubbing (Vanden Abeele, 2020), il numero di studi che si sono concentrati sul phubbing nelle relazioni intime, analizzando i meccanismi sottostanti alla correlazione tra utilizzo del telefono e scarsa soddisfazione, è limitato.

Tuttavia Beukeboom & Pollmann (2021) hanno tentato di comprendere più approfonditamente gli effetti negativi del phubbing sulle relazioni sentimentali, in particolare in relazione all’insoddisfazione relazionale e un altro studio, condotto da un’équipe di psicologi dell’Università del Kent, e pubblicato sulla rivista Journal of Applied Social Psychology, ne hanno confermato le prevedibili implicazioni negative: il phubbing andrebbe a peggiorare in maniera significativa la comunicazione e la relazione tra persone

I partecipanti allo studio, 153 studenti universitari, hanno assistito a una scena di 3 minuti che coinvolgeva l’interazione tra due persone, con la richiesta di identificarsi con uno dei due protagonisti. Ogni partecipante veniva assegnato a una fra 3 condizioni sperimentali: nessun phubbing, phubbing leggero o phubbing massiccio. I risultati? Più il livello di phubbingaumentava, più i soggetti percepivano che la qualità della relazione era peggiore e la relazione insoddisfacente. 

Gli autori dello studio hanno caratterizzato il phubbing come una vera e propria “forma di esclusione sociale”, capace, quando lo si subisce, di “minacciare alcuni bisogni umani fondamentali, come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo”.

Ma perché ci sentiamo così insoddisfatti se il nostro partner utilizza in modo continuativo il telefono?

Un vissuto tipico è quello di sentirsi non visti: non sentirsi prioritari ed importanti per la persona che dovrebbe essere quella che ci sceglie proprio perché si è innamorata di come siamo. Il sentimento di svalutazione personale risulta frequente e innesca crisi, soprattutto in partner con qualche fragilità sulla propria autostima.

In altre persone il vissuto maggiormente riportato è la rabbia, il fastidio e il sentirsi mancati di rispetto e di non essere percepiti come attraenti ed interessanti. Questi vissuti portano le coppie a discussioni molto accese spesso o viceversa a passivi silenzi rabbiosi che influiscono negativamente sulla complicità della coppia e sull’intimità. Le battaglie, spesso anche silenziose creano tra i partner una distanza emotiva che porta a ricadute importanti anche su un piano fisico. La qualità delle conversazioni e l’empatia percepita sono un fattore importante per la qualità della relazione (Gonzales & Wu, 2016; Misra et al., 2016).

Ci si potrebbe domandare perché soffermarsi ad analizzare così dettagliatamente un fenomeno di questo tipo: venire a conoscenza di quanto disagio possa suscitare un atteggiamento apparentemente banale nella persona che amiamo, potrebbe portarci a prestare maggiore attenzione alla nostra quotidianità, affinchè ognuno di noi possa diventare maggiormente consapevole e possa tentare il più possibile di “stare” nelle relazioni che sta vivendo, mettendo in atto, di fatto, un atto di prevenzione. E’ piuttosto evidente e condiviso che ci siano situazioni o chiamate dalle quali diventa difficile esimersi, ma tenere a mente la percezione del nostro partner e ciò che sta provando può esserci utile a mettere in atto un comportamento conciso e circostanziato relativamente ad una chiamata o a un messaggio, dedicando a tali interruzioni il più breve tempo possibile. 

Bisogna tuttavia evidenziare che dallo studio emerge come la misura in cui un partner usa il proprio telefono durante le interazioni co-presenti, correlata negativamente alla soddisfazione della relazione, sia un dato rilevato di natura correlazionale, pertanto a livello di nesso di causalità il partner-phubbing potrebbe causare una riduzione della soddisfazione relazionale, ma è altrettanto possibile l’effetto opposto, cioè che una scarsa qualità della relazione potrebbe indurre le persone ad un utilizzo maggiore del telefono. Pertanto il  phubbing potrebbe giocare un ruolo avverso generando un circolo vizioso sulla qualità della comunicazione e sulla soddisfazione della relazione.

Ma come si può contrastare questo fenomeno? Come possiamo mettere queste considerazioni emerse dalle ricerche a servizio di un miglioramento della nostra relazione?

Si è rilevato che l’utilizzo congiunto del telefono, che implica l’essere coinvolto nelle attività dell’altra persona, venire informato su ciò che sta facendo potrebbe limitare gli effetti dannosi sulla relazione e sulla comunicazione, riducendo il senso di esclusione percepito, mantenendo più reattività e intimità nella conversazione  e attenuando il senso di insoddisfazione relazionale.

Ma davvero il contenimento del comportamento o la condivisione dell’utilizzo dello strumento possono rappresentare le uniche soluzioni per arginare questo fenomeno?

Il fenomeno del phubbing potrebbe meritare un’ulteriore riflessione da parte di entrambi i membri della coppia:

forse l’insoddisfazione relazionale generata da questo fenomeno potrebbe generare in entrambi i partner lo stimolo a porsi delle domande: come mi sentirei io al posto del mio compagno? Che cosa proverei? Che cosa penserei? Che idea mi farei dell’interesse che il mio compagno prova per me al posto suo?

E viceversa è importante forse provare a chiedersi anche perché il nostro compagno sta sempre al telefono? A quale suo bisogno risponde questo strumento, come lo fa sentire, come si sentirebbe senza utilizzarlo.

Per molte persone è difficile resistere alla tentazione dei social media e di altre app che soddisfano il bisogno di attenzione ottenuto attraverso il proprio smartphone. La paura che i rapporti si allentino (Rozgonjuk et al.,  2020), l’aspettativa di una disponibilità costante da parte degli amici (Miller-Ott & Kelly, 2017), o anche la semplice presenza di un telefono (Misra et al., 2016) possono distogliere l’attenzione da un’interazione che sta avendo luogo con il proprio partner, o comunque con gli attori reali della propria vita, senza che la persona se ne renda neanche conto. Spesso mettiamo in atto comportamenti, soprattutto se socialmente considerati accettabili, senza chiederci la motivazione o la causa di quanto messo in atto. Facciamo raramente lo sforzo empatico di provare a metterci nei panni dell’altro, nelle sue sensazioni ed emozioni, spesso poiché siamo troppo presi da esigenze individualiste socialmente sostenute.

Ma il problema è davvero la sola presenza costante del telefono? Che cosa succederebbe se ci fosse un blackout generale della rete per una settimana? Le persone tornerebbero a parlarsi, a scriversi, a condividere realmente esperienze o si troverebbero perse, motivate soltanto al cercare una soluzione per ripristinare la rete?

Ci dobbiamo inevitabilmente chiedere quanta vita reale ci perdiamo con gli occhi sullo schermo.

La tecnologia non è da demonizzare, per molte relazioni è infatti stata l’incontro, l’inizio, la risorsa per mantenere vivi i rapporti quando si deve vivere distanti, ma siamo ancora capaci di utilizzare lo smartphone come uno strumento per migliorare le nostre vite e non come una zavorra in cui veicolare le nostre frustrazioni e distrazioni?

Forse analizzare il fenomento del phubbing ci fornisce l’occasione per fare alcune riflessioni: ma si può tornare indietro? Alcune persone hanno iniziato a mettere in pratica una sorta di graduale distacco dall’onnipresenza del telefono con una metafora indicata come “JOMO” (joy of missingout), ossia riscoprendo il piacere di rischiare di perdersi qualcosa che stia avvenendo online pur di godere al meglio della compagnia reale e fisica delle persone che si hanno vicino o delle situazioni sociali offline in cui si è coinvolti. Rinunciare al mito del multitasking e utilizzare in maniera più consapevole e cosciente tecnologie e servizi digitali sono, nella pratica, due importanti punti di partenza per riuscirci.

Ma come fare?

Potrebbe essere utile, ad esempio, iniziare con il concedersi del tempo per l’autoriflessione: per la propria salute mentale è fondamentale passare regolarmente del tempo da soli, preferibilmente senza smartphone, Internet e TV. Concedersi il tempo di porsi delle domande e riflettere sui problemi e le paure, dare spazio ai propri desideri e sogni.

Il tempo della riflessione aiuta anche a fare chiarezza sulle priorità cercando di diventare consapevoli di cosa è veramente importante per noi. A volte bisogna sfoltire l’agenda e anche eliminare ciò che facciamo per abitudine e non per reale interesse, questo ci aiuta a dedicare tempo alle persone e alle esperienze che realmente ci interessano, imparando a declinare inviti inutili o richieste differibili nel tempo, seppur poste con urgenza. Imparare a vivere concentrandosi sul qui e ora, con un atteggiamento “mindful.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologa – Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

Beukeboom, C. J., & Pollmann, M. (2021). Partner phubbing: why using your phone duringinteractions with yourpartner can be detrimental for your relationship. Computers in HumanBehavior, 124, 106932.
Chotpitayasunondh, V., & Douglas, K. M. (2016). Howphubbingbecomes the norm: The antecedents and consequences of snubbing via smartphone. Computers in Human Behavior, 63, 9-18.
David, M. E., & Roberts, J. A. (2021). Investigating the impact of partner phubbing on romanticjealousy and relationship satisfaction: The moderating role of attachment anxiety. Journal of Social and Personal Relationships, 38(12), 3590-3609.
Du, J., Kerkhof, P., & van Koningsbruggen, G. M. (2019). Predictors of social media self-control failure: Immediate gratifications, habitual checking, ubiquity, and notifications. Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 22(7), 477-485.
Dwyer, R. J., Kushlev, K., & Dunn, E. W. (2018). Smartphone use undermines enjoyment of face-to-face social interactions. Journal of Experimental Social Psychology, 78, 233-239.
Gergen, K. J. (2002). The challenge of absent presence.
Gonzales, A. L., & Wu, Y. (2016). Public cellphone use does not activate negative responses in others… Unless theyhate cellphones. Journal of Computer-Mediated Communication, 21(5), 384-398.
Guldner, G. T., & Swensen, C. H. (1995). Time spent together and relationship quality: Long-distance relationships as a test case. Journal of social and Personal Relationships, 12(2), 313-320.
McDaniel, B. T., Galovan, A. M., & Drouin, M. (2021). Daily technoference, technology use duringcouple leisure time, and relationship quality. Media Psychology, 24(5), 637-665.
Miller-Ott, A. E., & Kelly, L. (2017). A politeness theory analysis of cell-phone usage in the presence of friends. Communication Studies, 68(2), 190-207.
Misra, S., Cheng, L., Genevie, J., & Yuan, M. (2016). The iPhone effect: The quality of in-personsocial interactions in the presence of mobile devices. Environment and Behavior, 48(2), 275-298.
Pollmann, M. M., Norman, T. J., & Crockett, E. E. (2021). A daily-diary study on the effects of face-to-facecommunication, texting, and their interplay on understanding and relationshipsatisfaction. Computers in Human BehaviorReports, 3, 100088.
Roberts, J. A., & David, M. E. (2016). My life has become a major distraction from my cell phone: Partner phubbingand relationship satisfaction among romantic partners. Computers in humanbehavior, 54, 134-141.
Turkle, S. (2011). Alone together: Why we expect more from technology and less from ourselves. New York: BasicBooks.
Ugur, N. G., & Koc, T. (2015). Time for digital detox: Misuse of mobile technology and phubbing. Procedia-Social and Behavioral Sciences, 195, 1022-1031.

 

LA SINDROME DA BURNOUT

Il burnout è una sindrome legata ad un processo stressogeno che colpisce maggiormente tutte quelle professioni che prevedono una relazione d’aiuto in una sfera psicologica e sociale.

Per burnout intendiamo quel fenomeno che in un primo momento investe dall’interno l’individuo per poi “esplodere” e manifestarsi all’esterno. I professionisti della relazione d’aiuto sono sottoposte ad una duplice fonte di stresss: lo stress personale e quello del cliente, se non trattate cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” psicofisico.

Nell’ambito delle professioni socio-assistenziali la risoluzione dei problemi dell’utente non è affatto semplice e molto spesso non ottenibile, motivazioni per cui la condizione lavorativa diviene sempre più ambigua e frustrante e lo stress cronico può logorare emotivamente l’operatore.

Pian piano può divenire uno stato di malessere e di disagio che consegue una situazione lavorativa percepita come stressante e che conduce gli operatori a divenire apatici, cinici con i proprio utenti, indifferenti e distaccati dell’ambiente di lavoro. In casi estremi tale sindrome può comportare gravi danni psicopatologici (insonnia, problemi coniugali e familiari, incremento dell’uso di alcol o farmaci), cui consegue un deterioramento della qualità delle cure o del servizio prestato e spesso assenteismo e alto turnover.

Recenti studi dimostrano il legame tra burnout lavorativo e manifestazioni sintomatologiche quali l’ansia e delle sue espressioni somatiche e modificazioni del tono dell’umore, questi sono indicatori di un disagio che tende a coinvolgere gli aspetti più generali della personalità. Ciò avviene quando la persona percepisce una discrepanza tra aspirazioni e performance effettiva.

Vengono, inoltre descritte alterazioni emozionali, comportamentali, psicosomatiche e sociali, perdita dell’efficacia lavorativa ed alterazioni lievi della vita familiare. Inoltre l’alto livello di assenteismo lavorativo si giustificherebbe inoltre tanto per problemi di salute fisica quanto psicologica, a causa della frequente insorgenza di situazioni depressive.

La dimensione psico-sociale del burnout consente di individuare alcune variabili responsabili dell’insorgenza nell’esperienza lavorativa di aspetti di affaticamento e frustrazione che a lungo andare possono dare luogo a distonie e disagi comportamentali, espresse in una gamma che si snoda dall’apatia al disturbo del controllo degli impulsi, fino ad arrivare a una vera e propria compromissione psichiatrica.

La sindrome da bornout non si manifesta in modo improvviso, è un processo graduale che si sviluppa in un tempo prolungato. Molto spesso i primi segnali vengono ignorati, considerandoli “normali”.

Troviamo 3 caratteristiche principali:

1- Distacco mentale e cinismo rispetto al proprio lavoro;

2- Sensazioni di sfinimento e mancato recupero;

3- Calo dell’efficienza lavorativa.

A queste 3 caratteristiche si associano inoltre:

Mal di testa;
disturbi del sonno
disturbi gastrointestinali;
tachicardia;
tensioni;
Stanchezza;
sfiducia in sé stessi;
maggior vulnerabilità
Elevata sensibilità allo stress;
Difficoltà relazionali;
Depressione;
Agitazione, irritabilità, nervosismo;

Cosa causa la sindrome da burnout:

Le cause sono di natura diversa e variano da individuo a individuo. Solitamente è la conseguenza di uno stress cronico e presenta fattori di rischio, quali:

Sovraccarico lavorativo;
Mobbing;
mancato riconoscimento;
Ambiente di lavoro non favorevole;
Conflitti;
Obiettivi poco chiari;
Scarsa comunicazione;
Tendenza a porsi ibiettivi irrealistici;
Abnegazione al lavoro;
Aspettative elevate;
Personalità autoritaria;
Incapacità a collaborare.

Per prevenire il burnout è importante ridurre tutte le situazioni di stress, riconoscersi come persona riconoscendo e rispettando i propri bisogni fondamentali quali sonno, cibo, attività fisica. E’ opportuno fissarsi degli obiettivi ragionevoli, non pretendendo troppo da sé stessi. Inoltre è importante un automonitoraggio rispetto ai propri sintomi, rivolgendosi ad un professionista. La tempestività nel riconoscere i primi segnali favorisce l’efficacia della psicoterapia.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo- Psicoterapeuta

 

Bibliografia:

-Corrente A. La sindrome del burnout. Una condizione soggettiva che si trasforma in malattia professionale. Pavia: Atti della Giornata di Studio Fondazione Salvatore Maugeri, 2003.

-Ferdinando Pellegrino F. La sindrome del Burn-out Nuova edizione.  Centro Scientifico Editore. Torino, 2009

-Ripamonti, C. A., & Clerici.Psicologia e salute: introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Il mulino 2008.

 

L’OMBRA INVISIBILE: LA VERGOGNA

Quando pensiamo alle emozioni, la nostra mente volge in automatico alla felicità, tristezza, paura, rabbia o disgusto. Questo accade perché esse rappresentano le cosiddette emozioni primarie (o di base). Si tratta di emozioni innate che in quanto tali, non hanno bisogno di accedere alla consapevolezza per essere provate. Forniscono importanti ed utili informazioni di ciò che accade dentro di noi e di ciò che accade agli altri e ci permettono di dirigere il nostro comportamento e le nostre azioni all’interno delle relazioni. Esistono tuttavia, una serie di altre emozioni definite come emozioni secondarie. Si tratta di apprendimenti di tipo sociale o di comportamenti e pensieri che derivano dalle emozioni primarie. Tra queste, esiste un particolare tipo di emozione che molto spesso viene trascurata e sottovalutata: la vergogna.

La vergogna è un’emozione sociale complessa che emerge principalmente in una dimensione interpersonale. È associata al timore che gli altri, solitamente ritenuti superiori (più intelligenti, più belli, più forti, più bravi…semplicemente “più”), possano giudicarci o avere un’idea negativa di noi. È inoltre, un’emozione che si attiva non solo quando si ha il timore che l’altro possa giudicarci ma anche quando, il giudizio negativo di essere imperfetti, difettosi, quindi, inferiori parte direttamente da noi stessi.

Da un punto di vista evoluzionistico, la vergogna rappresenta una strategia difensiva di sottomissione. Se pensiamo al regno animale, e per un attimo immaginiamo una scena di lotta, è possibile che ad un certo punto, la preda possa decidere di gettarsi a terra con le zampe in aria, scoprendo la parte addominale. Nell’ottica di un sistema agonistico, quale la lotta, questo tipo di atteggiamento fa sì che la preda possa inviare al suo predatore, un messaggio di non-sfida, mostrandosi vulnerabile (la parte addominale visibile ed esposta rappresenta infatti, la zona in cui sono contenuti gli organi vitali e quindi, quella più importante da proteggere), per porre fine all’attacco subito (Price e Sloman 1987; Gilbert 1992) e quindi, sopravvivere. In questo modo, avrà riconosciuto la superiorità del suo aggressore per potersi salvare, ponendosi, in automatico, in una condizione di inferiorità. Tuttavia, se per la maggior parte degli animali la minaccia è rappresentata dall’aggressione fisica, per gli uomini il timore è legato anche alla perdita di accettazione e approvazione sociale, che può innescare vissuti di vergogna fino a diventare veri e propri stati depressivi che possono indurre a forme estreme di evitamento come, il ritiro sociale, isolamento o il suicidio. Sappiamo tutti quanto sia importante il senso di appartenenza ad un gruppo sociale, proprio in ragione del fatto che, l’essere umano è esso stesso un animale sociale. Ha un bisogno innato di essere in relazione all’Altro. Tuttavia, così come è intrinseco il desiderio di affiliazione e appartenenza, al tempo stesso è difficile e complicato tessere e intrattenere relazioni stabili, durature e funzionali soprattutto se inficiate dalla percezione costante dell’altro come “essere superiore” e quindi, minaccioso al proprio senso di sé. A lungo andare, questa sensazione può incidere in modo significativo, sul benessere dell’individuo andando di conseguenza, a danneggiare il proprio senso di sé e la propria autostima in termini di impotenza e inferiorità (Doran e Lewis 2011).

Chi prova vergogna, sente sopraggiungere, in modo improvviso, sensazioni e pensieri talmente spiacevoli da diventare fonte di ulteriore disagio. A livello fisiologico si caratterizza per la presenza di rossore sul volto, tachicardia, sudorazione eccessiva, sguardo abbassato e una sensazione di caldo/freddo intensi. Queste sensazioni somatiche sono spesso, accompagnate dalla percezione di “rimpicciolire” e voler diventare “trasparenti”, “invisibili”, per sottrarsi al rischio di essere visti dentro per quello che si crede essere realmente: degli individui non degni, malevoli, difettosi. Sempre da un punto di vista fisiologico, recenti studi (Mills et al., 2008) affermano che bambini che hanno sperimentato frequenti e ripetuti vissuti di vergogna mostrano livelli di cortisolo più alti della media. L’ipotesi è che si tratti di un’emozione associata ad alti livelli di stress che vanno ad incidere di conseguenza, in modo disfunzionale, sulle strategie di coping messe in atto per fronteggiare la situazione minacciosa. Così come accade di fronte a situazioni altamente stressanti, in cuisi è sopraffatti da un’intensa emozione di paura, anche quando si prova un’intensa vergogna, il rischio è che le funzioni cognitive, come attenzione, concentrazione, linguaggio, capacità di organizzazione e pianificazione vadano in blackout. Si potrà apparire così, goffi, sconnessi, poco abili nel compiere azioni o trovare le parole per articolare un discorso. La conseguenza sarà che, un qualsiasi tipo di performance intrapresa, dalla più semplice come colloquiare con un amico alla più complessa come parlare di fisica quantistica di fronte ad una platea di luminari, ne sarà inficiata. Questo andrà così, a confermare e alimentare le proprie credenze negative di base. A livello cognitivo, infatti, le convinzioni negative più frequenti sono quelle del tipo, “sono imperfetto, sbagliato, brutto, incompetente, inadeguato, rifiutato, debole”. Infine, le risposte comportamentali che spesso si manifestano sono quelle tipiche della paura come attacco, fuga o paralisi. Non a caso, quello di cui si ha più paura ed è vissuto come minaccioso, è il possibile giudizio negativo dell’altro. Ci sono inoltre, alcuni comportamenti di compensazione che vengono messi in atto, al solo scopo di proteggersi, come essere compiacenti, biasimare e criticare l’altro per cercare di ribaltare la posizione di inferiorità in cui ci si sente o credere che solo se si è perfetti non si avrà più nulla di cui vergognarsi (Potter-Efron 1998; Rossi et al. 2011).

Nel corso degli ultimi decenni, sono stati identificati differenti sottotipi di vergogna. Nel 1997, Gilbert ha effettuato una prima distinzione tra vergogna interna ed esterna. La prima è legata alle esperienze di autovalutazione e a un senso di sé percepito come inadeguato e inferiore. Nella seconda, invece, la persona è focalizzata sul timore di essere criticata e vista come imperfetta, sbagliata (Goss e Allan 2009) e, quindi, di poter essere rifiutata (Kim et al. 2011). Secondo Greenberg e collaboratori (2000) invece, la vergogna può essere definita “primaria” quando associata al timore di ledere la propria immagine o autostima e “secondaria”, quando emerge in relazione all’esperire il proprio stato emotivo (ci si può vergognare di avere paura, di essere tristi, arrabbiati o felici). La vergogna poi, può essere intesa in termini adattivi e disadattivi. Come tutte le emozioni, ha un carattere adattivo e funzionale, se legata ad una situazione specifica e non è cronica. Diventa, invece, disadattiva quando è connessa ad un’idea profonda di sé come inaccettabile, indegna e manchevole derivata non solo da valutazioni esplicite e accessibili alla consapevolezza, ma anche da processi impliciti, automatici e inconsapevoli (Castelfranchi, 2005). Infine, vi è un tipo di vergogna definita meta-vergogna. L’oggetto che crea imbarazzo è la vergogna stessa. Si prova quindi, vergogna della propria stessa vergogna. In questi casi, si teme di essere giudicati negativamente per il fatto stesso di vergognarsi (Orazi e Mancini 2011). Con la meta-vergogna, la vergogna diventa ancora più intensa, e spesso innesca circoli viziosi in cui, vergogna e meta-vergogna si autoalimentano a vicenda e diventano difficili da disinnescare.

Ma come si sviluppa tutto questo?

Secondo Lee e collaboratori (2001), lo stile di attaccamento, l’aver vissuto eventi di vita traumatici come ripetute esperienze di umiliazione, critica o derisione e fenomeni di bullismo, possono essere considerati fattori di rischio all’origine dello sviluppo di una particolare sensibilità all’emozione della vergogna. Questo tipo di esperienze possono infatti, contribuire allo sviluppo di schemi, rappresentazioni e credenze di sé negative.

Recenti ricerche hanno dimostrato che bambini con esperienze di abbandono, trascuratezza, maltrattamenti e abusi quindi, con storie di sviluppo traumatiche (PTSDc), presentano un rischio maggiore di sviluppare schemi di sé caratterizzati da elevati vissuti di vergogna (Alessandri e Lewis 1996; Kelley et al. 2000; Mills 2003; Stuewig e McCloskey 2005). Infatti, sembrerebbe che il tipo di cure genitoriali sia un fattore predittivo nello sviluppo di emozioni come la vergogna cronica. Aver fatto esperienza continua di un genitore ipercritico, rifiutante, maltrattante, negligente o iperprotettivo può innescare vissuti di inadeguatezza,incapacità, debolezza, inferiorità, facilitando così, l’emergere dellavergogna. A tal proposito, Schore (1994, 1996, 1997) suggerisce che una mancata “connessione emotiva” del genitore nei confronti del bambino, possa essere all’origine di tali vissuti. L’assenza di riparazione di questo fallimento comunicativo fa sì che il bambino sperimenti profondi vissuti di umiliazione e non amabilitàcontribuendo ad amplificare e radicare in sé, il senso di inferiorità.

Matos e Gouveia (2010) inoltre, hanno mostrato che precoci ricordi di esperienze di vergogna possono avere lo stesso impatto degli eventi traumatici, essendo caratterizzati da intrusività, presenza di flashback, risposte di evitamento e stati di dissociazione. Inoltre, gli stessi autori sostengono che gli episodi di vergogna possono diventare parte centrale e integrante dell’identità stessa del soggetto. Questo indurrà a compiere continue e stancanti inferenze negative su se stessi e su se stessi nella mente dell’altro. Una persona che nel corso dello sviluppo ha maturato credenze di sé come inadeguato, difettoso, non degno o inferiore, tenderà a costruire schemi fondati sulla vergogna, che si consolideranno nel tempo e spingeranno ad interpretare le informazioni provenienti dall’ambiente circostante, in base a queste stesse convinzioni. Il risultato è un circolo vizioso che si autoalimenta e che va nella direzione di una maggiore predisposizione ad una vulnerabilità alla vergogna sempre crescente. La sensibilità al giudizio sociale diventa così, fonte di stress e allerta in quanto, minaccia “letale” alla propria identità. Secondo Gilbert (2004) infatti, le credenze negative hanno un ruolo cruciale nel mantenimento dell’immagine di sé come vergognosa. Esisterebbero tre differenti modalità attraverso cui la persona tende a giudicarsi e ad alimentare la propria immagine di sé negativa: inadeguate self, ovvero una forma di autocritica in cui prevale il senso di inadeguatezza che impedisce di vedere ipotesi alternative e ostacola il processo di auto-rassicurazione; hated self, dove l’autocritica è caratterizzata da un desiderio di ferirsi e un sentimento di disgusto verso se stessi; ed infine, la self reassurance, una modalità di auto-rassicurazione che permette all’individuo di mantenere un atteggiamento benevolo nei riguardi del sé.

Concludendo possiamo dire che la vergogna soprattutto quando cronica e invalidante, è un’emozione che porta con sé un mondo sommerso da acque scure e profonde che spesso, inghiottiscono totalmente e diventano un ostacolo alla possibilità di tornare a galla. L’unica possibilità per sopravvivere, quando non ci sono altre vie d’uscita, diventa rendersi invisibili o soccombere.

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

Ainsworth M & Bowlby J (1991). An ethological approach to personality development. American Psychologist 46, 333-341.

Alessandri S M & Lewis M (1996). Differences in pride and shame in maltreated and non-maltreated preschoolers. Child Development 67, 1857-1869.

Basile B, La vergogna in psicopatologia Cognitivismo Clinico (2014) 11, 1, 27-61.

Castelfranchi C (2005). Che figura. Il Mulino, Bologna.

Doran J & Lewis C A (2011). Components of shame and eating disturbance among clinical and non clinical populations. European Eating Disorder Review 20, 265-70.

Gilbert P (1992). Depression: The Evolution of Powerlessness. Lawrence Erlbaum Associates, New York.

Gilbert P (1997). The evolution of social actractiveness and its role in shame, humiliation, guilt and therapy. British Journal of Medical Psychology 70, 113-147.

Gilbert P, Clarke M, Hempel S, Miles J N V, Irons C (2004). Criticising and reassuring oneself: An exploration of forms, styles and reasons in female students. The British Journal of Clinical Psychology 43, 31-50.

Goss K & Allan S (2009). Shame, pride and eating disorders. Clinical Psychology Psychotherapy 16, 303-16.

Greenberg Leslie S, Paivio Sandra C (2000). Lavorare con le Emozioni in Psicoterapia Integrata. Sovera Edizioni, Roma.

Kelley S A, Brownell C A, Campbell S B (2000). Mastery motivation and self-evalutive affect in toddlers: Longitudinal relations with maternal behaviour. Child Development 71, 1061-1071.

Kim S, Thibodeau R, Jorgensen RS (2011). Shame, guilt, and depressive symptoms: a meta analytic review. Psychological Bullettin 137, 68-96.

Lee, Scragg P, Turner S (2001). The role of shame and guilt in traumatic events: A clinical model of shame based and guilt-bases PTSD. British Journal of Medical Psychology 74, 451-467.

Matos M & Gouveia J P (2010). Shame as a Traumatic Memory. Clinical psychology and Psychotherapy, 17, 299-312

Mills R S L (2003). Possible antecedents and developmental implications of shame in young girls. Infant and Child Development, 12, 329-349.

Mills R L, Imm G P, Walling B R, Weiler H A (2008). Cortisol reactivity and regulation associated with shame responding in early childhood.Developmental Psychology 44, 1369-1380.

Potter-Efron R & Potter-Efron P (1998). Vincere la vergogna. Come superare timidezza, imbarazzo, rossori e senso di colpa. Franco Angeli.

Price J S & Sloman L (1987). Depression as yielding behaviour: an animal model based on Schjelderup Ebb’s pecking order. Ethology and Sociobiology 8 (suppl.) 85-98.

Rossi A, DanielsKi V, Pertile R, Bisceglie A R, Bontempi S, Lessio L, Rosini S, Russo E C, Minelli A (2011). Costituenti cognitive di invidia, vergogna e senso di colpa associate alla gravità della psicopatologia. Cognitivismo clinico 8, 95-115.

Schore A N (1994). Effect of a sicure attachment relationship on right brain development, affect regulation, and infant healt. Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences University of California at Los Angeles School of Medicin.

Schore A N (1996). The experience-dependent maturation of a regulatory system in the orbital prefrontal cortex and the origin of developmental psychopathology. Development and Psychopathology 8, 59-87.

Schore A N (1997). A century after Freudis Project: Is a rapprochement between psychoanalysis and neurobiology at hand? Journal of the American Psychoanalytic Association 45, 841-867.

Stuewig J & McCloskey L A (2005). The relation of child maltreatment to shame and guilt among adolescents: Psychological routes to depression and delinquency. Child Maltreatment 10, 324-336.