ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

Un affare di famiglia: il viaggio del giovane adulto alla ricerca del proprio posto nel mondo.

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“I tuoi figli non sono figli tuoi, sono i figli e le figlie della vita stessa.

Tu li metti al mondo, ma non li crei.

Sono vicino a te, ma non sono cosa tua.

 Puoi dar loro tutto il tuo amore, ma non le tue idee.

 Tu puoi dare  dimora al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita nella casa dell’avvenire dove a te non è dato entrare

 neppure con il sogno….

Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani.”

(Kahlil Gibran, Il Profeta)

 

Ci sono momenti della vita nei quali percorsi personali, formativi ed emotivi sembrano convergere ed entrare in risonanza, fino a scuotere quella “pallida identità” in cui ci rifugiamo. E’ quello che tendenzialmente accade nell’arco temporale che va dai 17 anni ai 30 anni, in questo periodo l’immagine di sé sembra decomporsi come un puzzle, per poi andare incontro ad una nuova riconfigurazione, a volte inconsapevole, a volte travagliata, che conduce ad una nuova forma nella direzione dell’autonomia. Questo salto maturativo non riguarda solo il singolo, ma l’intero sistema familiare e sarà proprio quest’ultimo a traghettare oppure al contrario, ad ostacolare questo cambiamento.

 

Negli anni ‘70, Haley ha definito “ciclo di vita della famiglia”, il percorso naturale per tappe che ciascuna famiglia segue nel corso della sua esistenza, individuando le seguenti tappe: dalla coppia al matrimonio, dalla nascita dei figli alla crescita, dallo svincolo all’invecchiamento [1]. Il passaggio alla tappa successiva comporta grande stress per l’individuo e il sistema; proprio in questi “scalini evolutivi” possono quindi crearsi ostacoli che impediscono la crescita e lo sviluppo, portando alla comparsa di sintomi,  e difficoltà, sia personali che relazionali che nella società odierna trovano espressione nello stereotipo culturale del giovane adulto disinteressato e svogliato che preferisce non lasciare il nido familiare.

Ma siamo davvero sicuri che dipenda tutto dai nostri giovani?

Da un punto di vista psicologico, il momento evolutivo caratterizzato da una maggiore criticità è il passaggio di individuazione e svincolo dalla famiglia d’origine; soprattutto oggi in cui i cambiamenti della società, hanno portato ad allungare i tempi (tanto che si parla di “post-adolescenza”e di “famiglia lunga del giovane adulto”) e a rendere ancora più lento e complicato un passaggio, prima veloce e spontaneo [2]. Non tutte le famiglie trovano da sole le risorse per far fronte a un periodo critico di grande cambiamento come  lo svincolo dei figli dal sistema familiare, spesso nelle famiglie più rigide, poco comunicative e con grandi difficoltà di separazione, il processo si interrompe e il sistema si blocca. Come dice Canevaro,  “la mancanza di armonia tra le generazioni e la presenza di certi blocchi evolutivi, impediscono la trasmissione dei sistemi di valori attraverso le persone” [3].

Nella fase di svincolo, può accadere che i genitori non riescano a favorire l’evoluzione naturale di questa fase e, piuttosto che riorganizzarsi per facilitare la crescita e l’autonomia dei propri figli, accettando di rimanere da soli e di dedicare del tempo a se stessi e al coniuge, vivono con fatica questo periodo di transizione.

Haley scrive: “Ogni famiglia può attraversare un periodo piuttosto critico quando i figli iniziano ad andarsene e le conseguenze che ne derivano possono essere diverse. Quando i figli se ne vanno o si accingono a farlo, i genitori devono ristabilire un rapporto a due, risolvere adeguatamente i loro conflitti e comportarsi in modo tale da consentirgli di avere un proprio  partner, una propria professione e una propria indipendenza. In questo periodo possono emergere difficoltà coniugali legate al fatto che i genitori si accorgono di non avere più niente da dirsi e di non avere più niente in comune perché per anni non si sono parlati di altro che della loro prole” [1].

L’appartenenza, l’autonomia, l’identità, il soddisfacimento dei bisogni e la protezione sono i  principali compiti che una famiglia ha  nei confronti dei propri figli, a questi compiti Minuchin ne aggiunge uno, forse  il più importante: la capacità dei genitori di “lasciar andare” il proprio figlio nel mondo senza aver  paura di perderlo [4].

È Proprio questa  paura di “perdita” che si riflette negli occhi dei giovani-adulti in attesa di compiere il salto finale, rendendo questa stagione della vita ancora più mutevole ed imprevedibile. Come “chi non è più, ma non è ancora”, si concentrano sugli snodi più significativi dell’esperienza umana: il dramma della scelta, la necessità di cambiare, la paura di farlo [5] in attesa di intraprendere insieme ai genitori, questo  lungo e complesso processo di separazione e individuazione. Lasciar andare i figli, probabilmente, porta molti genitori a fare i conti con alcuni aspetti della coppia coniugale, lasciati da molto tempo in sospeso, questo genera la comparsa del sintomo tendenzialmente nel giovane-adulto e rende l’autonomia ancora più difficile. L’adattamento ai bisogni dei genitori conduce spesso, ma non sempre, allo sviluppo della personalità “come se” e il vero sé non può formarsi né svilupparsi, perchè non può essere vissuto. Haley, ci ricorda come, nell’adolescente -giovane adulto, il sintomo in sé ha una doppia valenza: da una parte afferma l’autonomia e dall’altra lo porta a rimanere in casa con i genitori, quindi da un lato aumenta la dipendenza e dall’altro favorisce l’evitamento della sindrome del nido vuoto [6].

Affinché lo svincolo avvenga, i figli hanno bisogno di vedere con i propri occhi che mamma e papà si fidano di lui e lo lasciano andare. Per Bowlby “la possibilità di esperire dei genitori incoraggianti, supportivi e cooperativi, fornisce al ragazzo un senso del proprio valore personale, una fiducia nelle disponibilità degli altri e un modello adeguato su cui costruire le relazioni future. Inoltre, la possibilità di esplorare l’ambiente esterno con fiducia, ed interagire efficacemente con esso, facilita lo sviluppo di un senso di competenza” [7].  Il nuovo nido che si andrà a costruire, ha bisogno di ancorarsi saldamente sul vecchio per  accogliere il nuovo e  per poter resistere alle intemperie della vita.

Ad oggi sono aumentate le possibilità di sperimentarsi da soli, molto spesso i figli scelgono di intraprendere il percorso universitario lontano da casa, di convivere con la persona amata,  oppure di trasferirsi lontano per lavoro, un tempo, il matrimonio sanciva lo svincolo dalla famiglia d’origine.

I processi di trasformazione del nostro sistema sociale evidenziano ormai la difficoltà ad utilizzare le fasi del ciclo di vita pensate da Haley senza rivederne alcuni dei punti teorici di base. Nel 2013, Bertin sostituisce la visione lineare di sviluppo dell’esistenza, pensiamo al trentenne di qualche decennio fa (per lui era abbastanza scontato uscire di casa, trovare un lavoro, sposarsi, avere figli e andare in pensione a 60 anni), con una visione di tipo “ricorsivo”. Le difficoltà di evoluzione del sistema, non sono più specifiche delle singole fasi della vita, vedi la fase di svincolo, ma legati ad eventi critici che possono essere ricorsivi e ripresentarsi più volte lungo il corso della vita (ad esempio il quarantenne che perde il lavoro e torna a vivere con i genitori, dovendo ricontrattare spazi di convivenza e autonomia tipici della fase dello svincolo) [8]. In quest’ottica le dinamiche familiari presentano un processo a spirale nel quale i “momenti” che ne segnano i cambiamenti (la nascita della coppia, i figli, la loro uscita, la separazione..) si possono presentare più volte nella vita di una persona, implicando la costruzione di nuovi e differenti legami.

 

Dr.ssa Angela Giampalmo

BIBLIOGRAFIA

  1. Haley J. Terapie non comuni. Tecniche ipnotiche e terapia della famiglia. Roma: Astrolabio, 1973.
  2. Scabini E, Donati P. La famiglia “lunga” del giovane adulto. Studi interdisciplinari sulla famiglia 1988.
  3. Canevaro A. Quando volano i cormorani. Roma: Edizioni Borla, 2010.
  4. Minuchin S, Rosman BL, Baker L. Famiglie psicosomatiche. Roma: Astrolabio 1980.
  5. Petrone L, Troiano M. Adolescenza e disagio. Roma:Editori Riuniti, 2001.
  6. Haley J. Il distacco dalla famiglia. Roma: Astrolabio, 1983.
  7. Bowlby J,. Attaccamento e perdita, vol 3: La perdita della madre. Torino:Boringhieri 1983.
  8. Bertin, G. Welfare regionale in Italia. Politiche sociali: studi e ricerche, 2013.

Languishig: l’emozione di chi non prova emozioni

A black and white shot of a lonely female standing in front of the windows looking at the buildings

Nel corso dell’ultimo anno e mezzo sarà capitato a tutti, almeno una volta, di vivere un senso di “assenza di benessere”. La pandemia ci ha messi alla prova in tantissimi modi diversi, costringendoci a vivere una situazione di “riposo forzato” dalla nostra vita, dai nostri progetti, dalla socialità. Abbiamo dovuto ricalibrarci su dei ritmi completamente diversi, in molti casi estremamente lenti e dilatati, e le nostre priorità sono cambiate in quanto è venuto a mancare quel contorno che, fino a marzo 2020, riempiva le nostre giornate, dando un senso a tutto.

Quando il Covid-19 è entrato nelle nostre vite, in maniera dirompente e inaspettata, le emozioni e gli stati d’animo più diffusi sono stati ansia, paura, rabbia. Gli studi ci raccontano che, ad oggi, la maggior parte della popolazione ha imparato a gestire tutto questo, ma ciò non significa che le persone stiano bene o siano addirittura felici.

Nel 2002 lo psicologo e sociologo Corey Keyes ha adottato per la prima volta il termine languishing per definire uno “stato di vuoto e stagnazione”. Non si tratta dunque di una vera e propria patologia, ma più di una condizione che si colloca a metà tra la depressione e il suo esatto opposto, il flourishing, ovvero uno stato di vitalità emozionale che fa “fiorire”la persona (Seligman e Csikszentmihaly, 2000).

Nel languishing, sebbene non si presenti alcun tipo di sintomatologia psicopatologica, si ha una completa assenza di benessere.

Ciò che molti di noi provano in questo momento, in particolare come reazione al periodo di pandemia così prolungato, non è depressione o tristezza, ma mancanza di gioia e di scopi. È come, scrive lo psicologo statunitense Grant, confondersi tra i giorni, come osservare le nostre vite attraverso un vetro appannato. Non siamo depressi ma, al tempo stesso, non stiamo funzionando al massimo delle nostre potenzialità. Secondo l’opinione dello stesso Grant, il languishing sarà l’emozione dominante del 2021. Le conseguenze di tale stato emotivo sono molteplici, come difficoltà di concentrazione e mancanza di motivazione,  e possono andare a influire sul rendimento lavorativo e scolastico, sulla socializzazione e sul mantenimento delle relazioni.

Nessuno è immune dal languishing ma Gillespie (2021) ha identificato dei fattori protettivi e dei fattori predisponenti. Secondo l’autore, le persone più abili nella gestione dello stress sarebbero meno inclini a “languire”, in quanto meno predisposte a farsi sopraffare dagli eventi. Al contrario, soggetti con predisposizione genetica a patologie psichiatriche, o con pregressi disturbi d’ansia o depressione, sarebbero più inclini a sviluppare tale stato emotivi. Anche i soggetti particolarmente estroversi potrebbero incorrere in questa emozione, in quanto potrebbero risentire particolarmente delle restrizioni e all’assenza di socialità dovute alla pandemia.

Forse ciò che rende ancora più complesso il languishing è l’impossibilità di dare un nome, di riconoscere, e, di conseguenza, gestire, questa assenza di benessere. Come nella gestione di tutte le altre emozioni, la consapevolezza di ciò che stiamo vivendo può aiutarci a farvi fronte, ad attraversare la tristezza, la rabbia, la paura, consci che ne usciremo, che finirà. Il languishing, invece, sembra non avere un inizio né una fine, e ciò rende incredibilmente faticoso sopportarlo.

Dunque cosa possiamo fare per stare meglio?

Secondo Grant è importante dare un nome a ciò che sentiamo, concentrandoci sulle sensazioni e sulle emozioni, in quanto ci aiuta ad uscire dalla confusione.

L’autore invita anche a contestualizzare la situazione, a ricordarci che non siamo soli e che, nel mondo, moltissime persone stanno vivendo ciò che viviamo noi.

Altro fattore importante per uscire dal languishing è ricominciare ad avere degli obiettivi, partendo da quelli più piccoli, quotidiani: questo potrebbe aiutarci a ricominciare a coltivare l’entusiasmo.

Secondo Grant il rimedio migliore al languishing è il flow, ovvero lo stato di abbandono che proviamo quando siamo particolarmente presi dalle attività piacevoli. Dedicarsi con entusiasmo ai nostri progetti, ad un hobby o a qualunque altra cosa ci appassioni contrasta l’assenza di benessere e ci aiuta ad assumere una nuova prospettiva.

E se questi rimedi non funzionassero? Come sottolinea Grant, “non depresso non significa non essere in difficoltà. Non essere in bornout non significa essere entusiasti ed eccitati. Riconoscere che molti di noi vivono uno stato di languore è il primo passo per dare voce a questo quieto malessere e illuminare un percorso per uscire dal disagio”. Se ci rendiamo conto di non riuscire a far fronte a questo particolare periodo, è importante ricordare che la psicoterapia può aiutarci. Affidarci a uno specialista può essere la soluzione!

 

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia:

  1. Betti, I. (2021). Non depressi, ma privi di gioia. L’emozione del 2021 è il “languishing”. Huffpost Italia.
  2. Di Paola, I. (2021). Languishing e Covid-19, State of Mind
  3. Gillespie, C. (2021). People Are ‘Languishing‘ as the COVID-19 Pandemic Continues. Here’s What That Means. Health.
  4. Grant, A. (2021). There’s a Name for the Blah You’re Feeling: It’s Called Languishing. The New York Times.
  5. Keyes, C. L. M. (2010). Change in Level of Positive Mental Health as a Predictor of Future Risk of Mental Illness. American Journal of Public Health, 100, 12, 2366-2371.
  6. Keyes, C. L. M. (2002). The mental health continuum: From languishing to flourishing in life. Journal of Health and Behavior Research, 43, 207-222.
  7. Pope, S. (2021). Not depressed but not flourishing. How ‘langioshing’ became the dominant felling of 2021, The National Post.

Depressione: l’altro lato che non ci aspettiamo

Tristezza, malinconia, senso di vuoto, mancanza di energie, apatia, sono solo alcuni dei sintomi tradizionalmente associati alla depressione.

Senza banalizzare o semplificare l’argomento, e senza alcuna pretesa di esaustività, mi piacerebbe portare una riflessione su una differente prospettiva da cui guardare alla depressione.

Innanzitutto, è bene precisare che per ragioni di brevità e chiarezza espositiva, non saranno qui menzionati e differenziati i diversi disturbi depressivi come descritti nel DSMV, che si presentano con caratteristiche diagnostiche specifiche, ma si parlerà della sofferenza depressiva cosi come è generalmente intesa e che fa riferimento al Disturbo Depressivo Maggiore.

Nella sua accezione classica e tradizionale, il disturbo depressivo è concepito in termini sostanzialmente negativi, comprensibilmente peraltro, vista la sintomatologia con cui si presenta e attraverso cui viene diagnosticato: umore depresso, perdita di interesse e piacere per la maggior parte delle attività, stanchezza e mancanza di energia, sentimenti di autosvalutazione, diminuita capacità di concentrazione, ricadute negative sull’alimentazione e sul sonno, pensieri negativi, ecc… Un dolore che va a intaccare spesso la stessa voglia di vivere….La persona che soffre di depressione è una persona che prova una sofferenza profonda, un malessere subdolo e invalidante, che limita e si ripercuote negativamente sulla capacità della persona di vivere la sua vita, le sue relazioni, il suo lavoro, la sua quotidianità. La stessa etimologia della parola Depressione, che deriva dal latino deprimère, (de-premo, premere, schiacciare), ossia “premere verso il basso”, “schiacciare a terra”, rimanda a qualcosa che opprime, abbatte, schiaccia…

A partire dalle precedenti considerazioni, e senza minimizzare la sofferenza vissuta dalla persona, esiste la possibilità di guardare alla depressione da un punto di vista diverso e complementare? Una prospettiva altra che non tolga riconoscimento, dignità e rispetto ai vissuti individuali e strettamente soggettivi, ma che cerchi invece di dar loro un senso e un significato più profondo e complesso e che possa, infine, rivelarsi, utile strumento di comprensione e forse di via d’uscita?

Innanzitutto, è opportuno distinguere tra stato d’animo o umore temporaneamente negativo e depressione: la tristezza o un umore basso fanno parte della vita di tutti i giorni, solo se divengono persistenti nel tempo e limitanti la vita quotidiana e le capacità di funzionamento dell’individuo possono far pensare ad uno stato depressivo.

Un’adeguata riflessione sul tema deve inoltre partire dal considerare che non esiste un unico tipo di depressione, né tutte le forme di depressione sono equivalenti, per cui si può impostare un trattamento analogo per tutti: questo è un aspetto da rilevare ogniqualvolta ci troviamo di fronte a un disagio, fisico o psicologico. Ogni persona è unica, unico è il vissuto e quindi unica e specifica dovrebbe essere la presa in carico. Non si deve dimenticare che ciò che fa la differenza è l’esperienza, umana, della persona che abbiamo di fronte.

Ho trovato molto significativo, a tal proposito, il contributo di Luigi Cancrini, noto psichiatra e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica e sistemica. Egli sostiene che la depressione è un sintomo, non una malattia, il cui significato va ricercato ed esplorato prima di “curarlo” ed eliminarlo (Cancrini, 2003).

Questo concetto si collega, se vogliamo, alla più ampia riflessione sulle emozioni e sul loro significato: ogni emozione ha diritto di cittadinanza, anche quelle che siamo soliti definire emozioni “negative”c’’è una validissima ragione se proviamo quello che proviamo in una data situazione, e questo vale anche per la tristezza, così pesantemente presente in chi soffre di depressione. Da un certo punto di vista, la tristezza stimola la capacità riflessiva, una sorta di “chiusura” in se stessi, allo scopo di riflettere, sebbene faticosamente, sugli eventi accaduti, su ciò che ci manca e per noi è importante; un ripiegamento che consente di preservare e recuperare energie, aiuta a comprendere che c’è qualcosa che non va e ci spinge a ricercare la vicinanza con l’altro significativo.

E nella depressione accade che lo sguardo della persona viene rivolto all’interiorità, prendendo quasi le distanze dall’esterno, per portare l’attenzione dentro di sé, nella profondità del proprio mondo interiore, per liberarci da ciò che ci imprigiona, per ri-costruire e re-inventare se stessi, come sostiene James Hillman: “…Eppure è attraverso la depressione che entriamo nelle profondità, e nelle profondità troviamo l’anima. La depressione è essenziale al senso tragico della vita […]. (Essa) Dà rifugio, confini, centro, gravità, peso e umile impotenza […].La vera rivoluzione comincia nell’individuo che sa essere fedele alla propria depressione. Che non si dibatte per uscirne, […], ma che scopre invece la coscienza e le profondità di cui essa ha bisogno. Così ha inizio la rivoluzione per il bene dell’anima.”. (Hillmann, 1992).

Cancrini sostiene che la depressione è sempre una reazione patologica ad un lutto non elaborato, laddove per lutto non s’intende esclusivamente la perdita di una persona cara, ma un accadimento che ha comportato la perdita di qualcosa di valore per la persona: un lavoro, una relazione sentimentale, un progetto, un ruolo, o parte della propria identità, un cambiamento significativo. Un dolore non raccontato, non espresso in una relazione significativa, che dunque non ha trovato ascolto, accoglienza, comprensione. E che sovente si accompagna ad altri sentimenti, come lo sconcerto e la rabbia. (Cancrini, 2003).

Sempre lo stesso autore, infatti, riportando la sua esperienza clinica, ci dice che molto spesso la depressione diventa una sorta di maschera dietro cui si nascondono altri vissuti, in particolare di rabbia e aggressività, che se lasciati emergere, nel momento in cui vengono espressi  e gradualmente significati, consentono alla depressione stessa di andare pian piano sullo sfondo ( Cancrini, 2003).

Entro certi limiti, la depressione può dunque essere intesa come una reazione sana, se spinge a riflettere sugli eventi, a ricercare le possibili cause scatenanti: un ripiegamento su di sé utile per recuperare forze e risorse, per domandarsi cosa non sta funzionando, e dunque cosa si può fare per trovare sollievo al proprio dolore. Questa considerazione, tra l’altro, permette anche di contrastare la visione della depressione come  un disturbo cronico. Secondo Cancrini la cronicità è legata all’intervento solo sintomatico, avulso da un’esplorazione più complessa e profonda del significato, anche relazionale, della depressione.

E qui, dunque, troviamo un  punto molto importante nell’approccio alla depressione, vale a dire individuare i possibili aspetti scatenanti la sofferenza, prendere coscienza di ciò che è accaduto, dargli voce e riconoscimento: quali sono gli eventi drammatici accaduti? Quali sentimenti hanno generato? E che relazione c’è con il contesto relazionale significativo della persona?

Spesse volte poi in terapia sono le stesse persone che raccontano come durante  i momenti bui, emergano domande profonde, quali “Cosa non mi piace della mia vita? Se mi guardo intorno, cosa non mi soddisfa?”: e queste domande rappresentano un utile punto di partenza per indagare e approfondire le radici della sofferenza, i nodi drammatici che si sono verificati, e per far gradualmente emergere i vissuti sottostanti e nascosti,  insieme forse a nuovi desideri e possibilità.  Questo è un processo che va realizzato all’interno di un “luogo sicuro”, qual è il contesto terapeutico, in cui il terapeuta accompagna la persona nell’esplorazione di quei contenuti profondi, spesso nascosti alla coscienza, supportando al contempo l’espressione delle emozioni e dei vissuti dolorosi, e lasciando emergere il possibile risvolto e significato ‘adattivo’ della situazione.

 

Dr.ssa Katia Querin

Bibliografia

Cancrini L., “Date parole al dolore”, Frassinelli 2003.

Hillman J., “Re-visione della psicologia”, Adelphi 1992.

 

Il caso Sarah Everard e l’esausta indignazione delle donne verso la violenza di genere. Qualcosa sta cambiando?

Se vorrai lasciare un commento ci farà piacere. Buona lettura.

Il 3 marzo 2021 scompare una ragazza nel quartiere londinese di Clapham Common. Il suo nome era Sarah Everard.

Non che sia rilevante dirlo, ma Sarah stava rientrando alle 21.30 dopo una serata trascorsa a casa di un’amica. Si stava dirigendo verso casa sua scegliendo la strada più lunga ma più illuminata. Indossava abiti comodi e colorati, delle scarpe da ginnastica e un impermeabile verde. Aveva anche chiamato brevemente il fidanzato lungo il tragitto per avvisarlo che si stava incamminando. Non è mai arrivata a casa.

Il giorno dopo il fidanzato ne denuncia la scomparsa e partono le ricerche.

Il 9 marzo viene arrestato un poliziotto, Wayne Couzen, sospettato di aver rapito la ragazza.

Il 10 marzo Scotland Yard dichiara di aver trovato dei resti umani in un bosco nel Kent. Sono i resti di Sarah in un borsone, talmente irriconoscibili che la sua identificazione è stata possibile solo grazie ad un esame dentale. Sarah è stata seviziata e fatta a pezzi da Couzen che viene accusato di rapimento e omicidio.

 

Fin qui, a ben vedere, sembra purtroppo uno dei tanti casi di femminicidio all’ordine del giorno: una ragazza cammina da sola per strada di notte e viene aggredita.

Nulla di nuovo se si considera che l’OMS ha da poco riportato che 1 donna su 3 nel mondo è stata soggetta ad abuso fisico o sessuale almeno una volta nella vita. Inoltre, appena una settimana prima del rapimento di Sarah, il Guardian aveva pubblicato i risultati di un sondaggio di UN Women UK sulle molestie sessuali verso le donne inglesi. UN Women definisce le molestie come condotte sessuali indesiderate: si va dallo stupro ad altre aggressioni fisiche, dalla condivisione senza consenso di fotografie intime alle molestie verbali a sfondo sessuale. Il 97% delle donne tra i 18 e 24 anni nel Regno Unito ha dichiarato di aver subito molestie sessuali, mentre l’80% di quelle di tutte le età è stata molestata in luoghi pubblici. La pervasività degli abusi è data per scontata al punto che il 98% delle ragazze non denuncia ed è certa che non servirebbe a nulla.

Come ha dichiarato l’onorevole Jess Philips al Parlamento Inglese: “Le donne morte sono una cosa che abbiamo semplicemente accettato come parte delle nostre vite quotidiane. Le donne uccise non sono estremamente rare. Che le donne vengano uccise è una cosa comune”.

Ovviamente questa triste normalità non si ferma solo all’Inghilterra.

Stando ad una ricerca dell’Istat del 2014, il 31,5% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della propria vita una violenza fisica o sessuale. Il 24,7% delle donne ha subito una violenza perpetrata da uomini non partner: conoscenti, amici, parenti e colleghi di lavoro.

Una percentuale non trascurabile riguarda anche lo stalking, subito dal 21,5% delle donne tra i 16 e 70 anni da parte di un ex partner. Ma i casi di stalking da parte di sconosciuti si attestano al 10,3%.

Recenti sono invece i dati sul femminicidio in Italia: dall’inizio dell’anno ce n’è stato 1 ogni 5 giorni e il 2020 è stato l’anno peggiore da vent’anni a questa parte: durante la pandemia, infatti, i femminicidi sono stati il 45% del totale degli omicidi. Inoltre, se negli ultimi 25 anni il numero di omicidi ai danni di uomini è sensibilmente diminuito, quello dei femminicidi è rimasto pressoché stabile.

In questi giorni anche in Australia si dibatte molto di violenza di genere a causa di alcuni scandali che hanno coinvolto membri del Parlamento. Dando un’occhiata ai numeri pubblicati nel 2015 dal loro istituto di statistica, si evince che un terzo di tutte le donne australiane sono state aggredite fisicamente e un quinto di tutte le donne aveva subito molestie sessuali nell’anno precedente.

 

Insomma, sembra proprio che il caso di Sarah sia solo uno dei tanti. Eppure stavolta è successo qualcosa.

Dopo il ritrovamento del corpo, il 13 marzo a Clapham Common viene organizzata una veglia per Sarah che raccoglie centinaia di partecipanti. La veglia non era stata autorizzata per via della pandemia e la polizia interviene in maniera “inappropriata e sproporzionata”, a detta dello stesso sindaco, disperdendo la folla con violenza e distruggendo il memoriale di fiori e biglietti per Sarah. Si verificano anche 4 arresti.

Il giorno dopo, un corteo di più di mille persone scende in strada in segno di protesta davanti a Scotland Yard.

A tutto ciò si aggiunge che, durante le indagini, la polizia aveva suggerito alle donne di non uscire da sole la sera.

In risposta, la politica Jenny Jones ha dichiarato alla Camera dei Lord che bisognerebbe piuttosto imporre un coprifuoco agli uomini per far stare al sicuro le donne.

Le sue parole, ovviamente provocatorie, hanno sollevato un polverone di reazioni maschili offese e contrariate. La replica della Jones è stata tesa a puntualizzare come avesse voluto rendere evidente l’uso di due pesi e due misure: nessuno ha battuto ciglio quando è stato suggerito alle donne di limitare la propria libertà per proteggersi da un comportamento maschile, ma la stessa richiesta è stata ritenuta offensiva se proposta agli uomini.

Chi insorge all’idea di un coprifuoco maschile forse dovrebbe chiedersi, con un po’ di spirito critico, perché non ci si arrabbia allo stesso modo quando alle donne viene detto di adattare il loro comportamento in risposta alla violenza maschile”, scrive Arwa Mahdawi sul Guardian, aggiungendo che, sebbene le donne non debbano rispettare un coprifuoco legale, la loro libertà di movimento non è comunque piena.

Sin da piccole, le donne vengono messe in guardia sulla necessità di proteggersi e limitare i propri comportamenti, valutando accuratamente i rischi che i loro spostamenti o atteggiamenti possono comportare. È ormai una valutazione automatica che ognuna di noi fa: come vestirci, quanto bere, che strada scegliere, che mezzo prendere, quando rientrare, con chi, ecc. Tutto questo in virtù della sensazione di essere più al sicuro (anche dal victimg blaming: l’accusa che la vittima abbia contribuito a creare o ritrovarsi in una situazione di rischio. In gergo comune: “Se l’è cercata”).

Uno degli elementi, infatti, che ha senz’altro contribuito a creare grossa risonanza sul caso di Sarah è che la ragazza sembrava aver valutato molto bene tutte le fonti di rischio, cercando di ridurle. Ha scelto vestiti sportivi e non succinti, scarpe comode con cui avrebbe potuto correre all’occorrenza e non tacchi, ha scelto la via più sicura, anche se più lunga, perché meglio illuminata e più frequentata, ha chiamato il ragazzo per dargli conto dei suoi spostamenti. Insomma, ha fatto tutto giusto anche per ripararsi da un ipotetico victim blaming (che è comunque arrivato dal consiglio della polizia). Ma non è bastato ugualmente a proteggerla.

L’insieme di tutte queste vicende ha sollevato una discussione in tutto in paese, sui social per lo più, che ha portato alla luce le esperienze di moltissime donne nella vita di tutti i giorni e il loro senso di paura e allarme nel camminare per strada da sole.

Un tweet nel quale si chiedeva alle donne se avessero mai finto una telefonata, cambiato strada o corso in preda alla paura dopo essersi sentite spaventate nell’essere sole in strada con un uomo, è stato retwittato più di 120mila volte. A questo, si sono aggiunti racconti sull’essere state seguite, molestate, assalite o aver subito catcalling (un tipo di molestia che consiste nel rivolgere apprezzamenti e appellativi a sfondo sessuale a donne sconosciute che si incrociano per strada) e sulle strategie più comuni che vengono adottate per sentirsi al sicuro. Oltre a fingere di chiamare qualcuno o farlo davvero e cambiare strada, le più comuni sono: moderare il proprio abbigliamento, infilare i capelli lunghi nella giacca, non mettere le cuffiette mentre si fa jogging, tenere il numero della polizia pronto alla chiamata, scegliere strade illuminate e ben frequentate, ecc. La sensazione ridondante è che tutto questo sia estenuante, oltreché ingiusto, perché, benché le donne non abbiano colpa alcuna, si richiede loro da sempre di limitare le proprie libertà per proteggersi.

Secondo Kate Manne, esperta di sessismo e società, “le libertà delle donne vengono viste come superflue, usa e getta – come spesso talvolta vengono tragicamente viste le donne stesse. Si assume automaticamente che dato che la vita degli uomini non è influenzata in modo significativo da questo fenomeno, non gli si possano chiedere grandi sacrifici per cambiare le cose”.

Col caso di Sarah è emerso con chiarezza come la narrazione intorno alla questione della sicurezza delle donne debba cambiare prospettiva perché sembra che le donne non siano più disposte a subirne tutto il peso. L’hashtag che rimbalza a tal proposito è #ReclaimTheseStreets (Riprendiamoci queste strade), accompagnato da #IamSarah.

Quello che i movimenti femministi cercano di mettere in luce è che non ci si occupa della violenza contro le donne da un punto di vista strutturale, ma solo securitario. La femminista Julie Bindel spiega che in questo modo si perpetua una “mitologia dannosa”, cioè si trasmette che le donne “sono in qualche modo complici se sono fuori e da sole, la notte; e che quella notte è il pericolo, non gli uomini responsabili”. In questo modo non si fa che istruire una nuova generazione di donne a mettersi in sicurezza limitando la propria libertà.

Eppure, il governo britannico sta varando una legge sulla violenza di genere che mira proprio a misure securitarie come aumentare i fondi per sorvegliare e illuminare le strade, aumentare la presenza di poliziotti in borghese nei locali. Anche in Italia gli interventi governativi seguono spesso questi approcci.

La critica dei movimenti femministi, come Sisters Uncut, è che queste risposte non prendono di nuovo in considerazione gli autori del reato ma solo la protezione della vittima. Quel che chiedono, invece, sono interventi strutturali per affrontare la violenza maschile al di là dell’emergenza e della sicurezza: sostenere le donne che hanno subito abusi, migliorare l’iter di segnalazione e denuncia, investire nelle case rifugio, migliorare l’assistenza sociale, sanitaria e giudiziaria e cominciare da un’adeguata educazione sessuale ed affettiva nelle scuole.

Insomma, le donne stanno ribaltando la domanda di fondo. Come scrive la giornalista Ali Pentony: “Perché stiamo ancora parlando di cosa possono fare le donne per stare al sicuro e non di cosa possono fare gli uomini per smettere di minacciare la nostra sicurezza? (…) Se continuiamo a dire alle donne di conformare le loro azioni per rimanere al sicuro, non stiamo affrontando il problema. Non stiamo risolvendo nulla. Stiamo solo trasmettendo il senso di pericolo a un’altra donna.

Il problema non viene dalle donne, dunque qual è stata la risposta degli uomini?

Il tweet di un ragazzo che chiedeva cosa potessero fare concretamente gli uomini per ridurre il senso di ansia e paura, ha ricevuto più di 27mila likes e ha dato il via ad alcuni suggerimenti pratici. Il più ripetuto è quello di cambiare lato del marciapiede quando ci si accorge di camminare dietro una ragazza sola in una via isolata e lasciarle più distanza possibile.

Insieme alle proposte maschili di collaborazione e aiuto per migliorare la situazione, però, sono arrivate anche tante risposte che ripercorrono il filone dell’offesa. Questo filone, riassumibile sotto l’hashtag #NotAllMen (Non tutti gli uomini), sottolinea il fatto che solo una minoranza di uomini sono aggressori e, dunque, quelli che non lo sono non dovrebbero modificare il proprio comportamento limitando la propria libertà ed è offensivo chiederglielo.

Benché l’idea che sostiene l’obiezione #NotAllMen sia senz’altro veritiera (non tutti gli uomini sono aggressori), questa porta sostanzialmente a spostare il focus.

Provando a fare un parallelismo, se una persona ci dice di esser stata investita da qualcuno che usava il cellulare alla guida, la nostra prima reazione spontanea è probabilmente chiederle come sta ed esprimere sincera preoccupazione per la sua salute. Difficilmente sarà premurarci di mettere in chiaro, in prima battuta, che noi non usiamo il telefono alla guida! Perché invece di prenderci cura della persona che abbiamo davanti e della sua esperienza, sposteremmo l’attenzione sulla nostra coscienza e la necessità di sentirci assolti.

Rispondere che non tutti gli uomini sono così, ad una ragazza che sta raccontando la propria esperienza di molestie o abuso, significa esattamente spostare il focus dalla vittima a sé stessi. L’impulso è difendersi da un’accusa (che nessuno ha mosso in realtà), perdendo l’occasione di dare voce al dolore di quella donna, di ascoltare il suo vissuto, prenderlo in considerazione ed, infine, attivare un pensiero critico che possa portare a chiedersi se si può far qualcosa per migliorare la situazione.

Con le parole di Irene Facheris, attivista e creatrice di “Parità in pillole”: “Gli uomini decenti quando vengono messi di fronte a un problema, si chiedono se hanno fatto qualcosa per alimentarlo e se possono fare qualcosa per eliminarlo. Spostare l’attenzione dalla vittima a te e alla tua categoria, che senti di dover difendere senza che ci sia stata un’accusa (…), ti rende parte del problema” (…) “Quando diciamo che le statistiche sono terrificanti e che ci sono troppi uomini che agiscono in un certo modo, in che modo dire “Ma non tutti!” aiuta a gestire il problema?” (…) “Riguarda tutti gli uomini perché ogni uomo può fare qualcosa dal momento in cui diventa consapevole di questi meccanismi” (…) “Tutti gli uomini hanno la responsabilità di educarsi, di capire quanto sessismo abbiano assorbito e come questo si manifesti. Non è una guerra uomini vs donne. Proviamo a fare qualcosa di più utile e a farlo insieme”.

Il concetto è stato approfondito anche da Attilio Palmieri, critico televisivo e femminista, che incalza: “Una generalizzazione è l’estensione di qualcosa a un’intera categoria. Un’operazione legittima se ci sono i presupposti.” (…) “Quindi, quando si dice che a uccidere le donne per il solo fatto di esistere come donne nel mondo sono gli uomini, si dice una cosa incontestabile.” (…) “La corsa tempestiva a difendere la propria categoria da parte di così tanti maschi è la dimostrazione di connivenza e disinteresse a cambiare davvero le cose. È il simbolo di una totale indifferenza alla violenza di genere, tanto da mettere per l’ennesima volta al centro del discorso se stessi. (…) Con il nostro silenzio abbiamo la possibilità di lasciare spazio alle voci delle donne, sia di farci due domande sul perché oggi uno spazio safe è di default uno spazio senza maschi, perché il problema siamo noi e non chi ce lo fa notare”.

Rappresentativo in tal senso è quanto successo a Repubblica quando, nel Novembre 2020, ha pubblicato un post titolando “La gelosia non uccide, gli uomini sì”. Dopo la valanga di critiche maschili ricevute, il giornale ha modificato in “La gelosia non uccide, alcuni uomini sì”, chiosando: “La storica discriminazione nei confronti delle donne ci impone una maggiore attenzione nei confronti del femminicidio, in cui la vittima è colpevolizzata in quanto donna. Questo non significa che tutti gli uomini siano assassini, ovviamente. Ma non possiamo nemmeno trascurare la matrice patriarcale di questa specifica categoria di omicidi”. Inutile dire che siccome il dibattito si è acceso su questioni di “forma”, si è persa l’occasione di focalizzarsi sul problema lasciando più sole che mai le vittime alle quali si stava cercando di dare spazio. Sostanzialmente il senso del post è diventato nullo.

Accanto al filone #NotAllMen, ce n’è un altro che invece rifiuta completamente l’idea di doversi prendere carico di un allarmismo ritenuto infondato.

Questo emerge, ad esempio, da quanto si è verificato in Italia quando la pagina social FanPage (1,5 milioni di follower) ha pubblicato un post, derivato dal Guardian, con una carrellata di consigli scritti da donne su come aiutarle a sentirsi più al sicuro. Il primo recitava: “Cambia marciapiede. Camminare per strada e percepire la presenza di un uomo alle proprie spalle può provocare ansia e panico”. Anche questo post ha suscitato una valanga di commenti maschili contrari ed è stato cancellato quasi subito.

La ruota dei commenti rende bene l’idea di quanto la questione venga percepita come frutto di una “labilità emotiva” femminile: donne troppo spaventate ed eccessivamente ansiose oppure troppo arrabbiate e rancorose con tutti gli uomini. I commenti sono per lo più sarcastici sull’assurdità della “pretesa” e sul proliferare di un “nazifemminismo” che arriverà a limitare ogni comportamento maschile.

Da tutto ciò arriva chiaramente che è molto difficile far comprendere quel senso di allarme e di continuo monitoraggio di sé stesse a chi non è stato socializzato a guardarsene e non l’ha mai sperimentato.

A tal proposito, il tweet virale di @fayesos dice:

Se non hai …

– scritto a un amico/a “Sono a casa”

– attraversato una strada per evitare qualcuno

– chiamato e detto “parla con me per 5 minuti”

– annotato la targa di un taxi / auto

– tirato fuori le chiavi per ​​esser pronta

– chiuso subito la portiera della macchina

– trattenuto il respiro finché non hai superato qualcuno

… allora sei un uomo

Insieme a questa voce, ha avuto risonanza anche quella di Grace Jessup, una ragazza di 31 anni che aggiunge: “Ho imparato fin dalla tenera età che avrei dovuto cambiare il mio comportamento per mantenermi al sicuro e ora stiamo vedendo che molte donne cominciano a dire quanto sono stufe di questa situazione. Siamo anche un po’ stufe del fatto che questo sia uno shock per gli uomini. Questa è la mia realtà da quando avevo circa 14 anni!

Il ministro inglese Victoria Atkins ha commentato: “Penso che le esperienze che le donne hanno condiviso sui social siano assolutamente scioccanti. E penso che gli uomini non abbiano ancora realizzato ciò che attraversano le donne a loro care, le loro sorelle, le loro ragazze, le loro mogli. Credo davvero che questo possa essere un momento di cambiamento”.

Tutto questo evidenzia che c’è un problema di comunicazione e comprensione empatica tra i due mondi. E vi è, anche, una sottostima di quanto episodi di molestie di varia gravità portino con sé uno strascico psicologico di ansia, umiliazione e paura non indifferente. Chi subisce una molestia di strada, ad esempio, spesso modifica il proprio comportamento, limita le proprie uscite fino anche a cambiare quartiere. Inoltre, l’aver subito molestie correla con aumentati livelli di ansia, depressione e perdita della qualità del sonno. Infine, nelle vittime aumenta la tendenza a preoccuparsi e vergognarsi del proprio corpo. L’Istat ci dice che tra le donne che hanno subito molestie, solo la metà dichiara di aver superato l’episodio. “Molte riscontrano una maggiore difficoltà relazionale, la paura dei luoghi isolati e del buio, la perdita di fiducia negli uomini, nonché depressione, ansia o shock. Invece un residuale 4,2% dichiara di sentirsi più forte”.

Dovrebbe far riflettere su quanto impatto possa avere sulla vita di una donna quella che, spesse volte, viene sminuita come una “goliardata” maschile.

A tal proposito, un articolo di Time del 2014 descriveva una sorta di “scala di sviluppo” che gli uomini devono percorrere per arrivare ad una piena coscienza sociale rispetto alla violenza di genere.

Semplificando, la si può riassumere in 5 stadi di pensiero con livelli di consapevolezza crescenti:

  1. Il sessismo è una falsità inventata dalle femministe
  2. Il sessismo esiste, ma gli effetti del sessismo al contrario (contro gli uomini) sono uguali o peggiori
  3. Il sessismo esiste, ma io personalmente non sono sessista
  4. Il sessismo esiste e io ne traggo beneficio involontariamente, indipendentemente dal fatto di essere sessista o meno
  5. Il sessismo esiste, io ne traggo beneficio, certe volte sono sessista senza nemmeno rendermene conto perché sono stato socializzato in questo modo, e se voglio non esserlo più devo lavorare attivamente contro questa socializzazione.

Nel caso di Repubblica, la discussione online si è fermata per lo più allo stadio 3: #NotAllMen. Ma nel caso di FanPage, i commenti appartengono allo stadio 1 e 2.

Il caso Sarah Everard e l’esausta indignazione delle donne, stanno chiedendo agli uomini di fare dei passi verso gli stadi 4 e 5 e lavorare tutti insieme per socializzarci al rispetto e alla collaborazione tra sessi.

Da psicoterapeuta, penso sempre che il cambiamento passi dall’empatia. Se ci fermiamo ad ascoltare le storie degli altri, possiamo andare oltre le nostre categorie mentali e i nostri preconcetti, perché la verità che gli altri ci portano ci colpisce emotivamente e questo attiva una risonanza in noi. Da quella risonanza possiamo poi fare un percorso a ritroso, fino a tornare ad astrarci dall’emozione e passare di nuovo al pensiero. Ma ci arriveremo trasformati, se non altro perché avremo preso in considerazione anche un altro punto di vista.

È quello che la nostra società ha iniziato a mettere in atto, seppur lentamente, anche rispetto al razzismo, all’omofobia ed altre discriminazioni. Una volta che ci apriamo alle storie degli altri e comprendiamo il loro punto di vista, possiamo imparare a revisionare il nostro e, soprattutto, possiamo aiutare altri a considerare i limiti di una visione parziale.

Quindi il primo passo verso i punti 4 e 5 potrebbe essere quello di ASCOLTARE le donne che condividono le loro storie, senza biasimarle o zittirle e senza spostare il focus.

Per cominciare, la cosa più semplice che gli uomini possono fare è chiedere alle loro sorelle, fidanzate, madri e amiche di raccontare se e quando si sono sentite in pericolo a causa di un uomo: cos’è successo, cosa hanno provato o provano tutt’ora e se attuano degli stratagemmi per sentirsi più al sicuro ogni giorno. È un primo passo molto valido per approcciarsi al problema e capirne la portata e lo strascico emotivo.

Poi si potrebbe IMPARARE di più rispetto al problema, informandosi e leggendo più punti vista.

Si potrebbe RIFLETTERE sul proprio comportamento e chiedersi se, involontariamente, abbiamo fatto nostre delle visioni e dei pensieri che non sono innocui come sembrano. Riconoscerli è il primo passo per provare a cambiare.

Si potrebbe INSEGNARE ai nostri figli cosa sono l’abuso e il consenso e smettere di insegnare alle nostre figlie a limitare la propria libertà.

Si potrebbe ITERVENIRE quando si assiste a molestie ed eventi quali: fischiare, gridare oscenità, dare appellativi sessualizzanti, fissare in modo insistente e inappropriato, fotografare o filmare senza consenso e diffondere il materiale, seguire, masturbarsi in pubblico, palpeggiare, strusciarsi, assalire, stuprare, uccidere, ecc.

Il biasimo sociale è un potentissimo meccanismo che porta il gruppo a condannare o escludere chi indulge in un comportamento che non è socialmente accettabile. Dunque, un altro passo verso il cambiamento sarebbe non considerare più accettabile uno qualsiasi di questi comportamenti sessisti e violenti, facendo sì che le persone che li perpetrano si sentano esposte ed isolate e non più spalleggiate.

Nel mio piccolo, per partire dall’ascolto, ho chiesto alle ragazze intorno a me di raccontarmi i loro episodi di molestie e paura ed ho aggiunto i miei. Non mi ha stupita, ahimè, scoprire che nel mio campione non rappresentativo, sono state pochissime quelle che non avevano storie da segnalarmi. Mi ha colpito molto, però, che tutte fossero contente di potersi raccontare e abbiano voluto ringraziarmi per averne parlato, come in un abbraccio collettivo in memoria di Sarah.

Concludo riportando alcune delle loro storie, sperando che possano accendere l’empatia e il cambiamento anche solo in un lettore.

Qualche anno fa ho riaccompagnato in stazione una mia amica che era venuta a trovarmi a Torino. Il suo treno era in prima serata, per le 21 massimo, la accompagno e la saluto affettuosamente dal binario mentre il suo treno parte e così mi avvio verso l’uscita per prendere il bus che mi avrebbe portata a casa. La stazione è praticamente vuota. Questo già un po’ mi inquieta ma cerco di non pensarci. Nell’ultima parte del mio percorso in stazione, vedo una persona seduta a terra: ho subito pensato ad un clochard. Vado avanti mantenendo il passo veloce. Non saprei spiegare bene come, ma di colpo mi ritrovo questo uomo in piedi che si avvia sempre più verso di me…vuole dirmi o chiedermi qualcosa ma nel mentre barcolla anche. Ora sì che ho paura perché tutto ciò avviene in un corridoio stretto e sento di non aver molte vie d’uscita. Mi irrigidisco mentre lui inizia con battutine del tipo – Che ci fai sola soletta qui? – o – Posso venire con te? -. Realizzo che non si tratta di una richiesta di aiuto e questo mi “tranquillizza” e spaventa allo stesso tempo, mi sento in allarme e mi guardo attorno ma non c’è nessuno. Per fortuna non riesce ad avere un contatto fisico con la mano perché faccio in tempo a divincolarmi e fuggire via… ma è stata una bruttissima esperienza, sapersi da sole e in balia di uno sconosciuto. Inevitabile non chiedersi – Cosa sarebbe potuto succedere se…-. Da allora appena sento di essere in una situazione ambigua, prendo il telefono e chiamo qualcuno, a volte ho anche cambiato strada, ma effettivamente tutto ciò non mi solleva o rincuora. Tutti e tutte noi dovremmo poter avere il coraggio di camminare tranquille, ovunque”. M., 31 anni

Ero in un club di Latino americano dove vado a ballare salsa/bachata. La maggior parte delle persone che lo frequentano partecipano anche al corso e quindi le conosco, ma a volte ci sono persone nuove. Quella sera c’erano due ragazzi che non conoscevo e uno dei due mi aveva chiesto di ballare una canzone, ma scopro ben presto che non sa assolutamente ballare bachata e la sua idea di ballo è puramente strusciarsi. Io sono un sacco a disagio però penso – E’ una canzone e poi me ne libero -, ma il suo amico inizia a filmarci con il suo telefono. Se ci ripenso mi incazzo anche con me stessa perché avrei dovuto dire qualcosa, ma non volevo causare una scena e ho detto – Amen -. Finalmente finisce la canzone e io ballo solo più con persone che conosco e cerco di evitarli ma continuano a seguirmi e starmi appresso. Questo club ha due piani, allora prendo la mia amica e andiamo al piano di sotto ma questi ci seguono e cercano sempre di mettersi dietro di me mentre ballo. Per fortuna vedo un gruppo di miei amici e mi metto in mezzo a loro e finalmente, dopo un po’, i due ci rinunciano. Passa un bel po’ di tempo e io e la mia amica usciamo per tornare a casa. Allo stesso tempo anche i nostri amici escono e si accorgono che quei due sembravano seguirci quindi ci fermano e stanno con noi finché quelli non se ne vanno. Mi sono sentita sicuramente molto a disagio e un po’ violata, venire filmata è stata la ciliegina sulla torta. Però anche un po’ impotente, non so bene in che altri modi avrei potuto reagire, continuavano a chiedermi di ballare e continuavo a dire di no ma ignoravano totalmente il mio disagio”. A. 22 anni.

Qualche anno fa io e mia cugina siamo andate a fare una passeggiata per Torino e di punto in bianco ci siamo accorte che un signore ci stava seguendo. Per strada c’era poca gente, ci siamo spaventate e abbiamo provato a seminarlo cambiando percorso. Il signore però continuava a seguirci e alla fine, a furia di cambiare strada, avevamo anche perso il senso dell’orientamento. Nonostante il timore, abbiamo azzardato e ci siamo fermate (con lui sempre dietro) tirando fuori il telefono e facendogli vedere che stavamo chiamando aiuto. A quel punto fortunatamente il signore è scappato e nostro zio è subito venuto a prenderci! Lo spavento è stato davvero traumatico. Ancora oggi ne parliamo”. M., 22 anni

“- Sin da quando ero adolescente prendevo il treno tutti i giorni, andata e ritorno, per raggiungere un paesino della cintura di Torino in cui studiavo danza. Un giorno estivo, sulla via del rientro, sono salita su un vagone quasi vuoto: c’erano solo una signora e un signore. Prendo posto in uno di quegli spazi composti da 4 sedili, apro il libro dell’università che stavo studiando e attendo che il treno riparta. Sento gli occhi del signore su di me, inizio a percepire il forte odore di alcool che emana. Continuo a leggere, ignoro. Lui inizia a parlare, fa dei commenti volgari, cerca di attirare la mia attenzione. Impassibile continuo a leggere, ma il mio cuore batte veloce. Ho paura. Inizio a pensare che non ci sono tante persone, guardo le vie di fuga. Sento il deserto intorno a me. Il signore si alza e si siede davanti a me. Io leggo. Mi formicola tutto, la paura è intensa. L’uomo mi parla, poi di getta su di me per baciarmi. Con rapidità e maestria mi ritrovo in piedi. Salva. Non mi ha sfiorato. Lui bofonchia, ride di me. Con il terrore addosso vado a sedermi di fronte alla signora. Tremo, non mi accorgo che il libro che ormai fingo di leggere è al contrario. Lei non dice una parola, a stento mi guarda e io con gli occhi imploro comprensione. Nulla. Lui si avvicina nuovamente, accende una sigaretta e mi butta il fumo in faccia. Si siede nei sedili della fila opposta e mi fissa. Finalmente arriva la mia fermata, aspetto qualche istante in modo da non far capire che scenderò, poi rapidamente corro via e scendo dal treno. Odio prendere il treno d’estate.

 – Una sera esco con una cara amica per festeggiare i buoni risultati universitari di entrambe. Siamo in un famoso locale di Torino a sorseggiare una birra e a ridere, come due amiche complici e soddisfatte dei reciproci successi. Due uomini si avvicinano, iniziano a parlare. Presto la conversazione diventa fuori luogo, io vorrei che andassero via. Uno di loro, allunga le mani sul decolleté della mia amica: senza senso, senza motivo, senza permesso. La mia amica si pietrifica, non riesce a reagire. Con forza ed enfasi lo spingo via, gli urlo di andarsene. Nessun’altro dice nulla.

 -Ricordo che mia mamma in più di un’occasione mi aveva spiegato come difendermi: di urlare forte se mi fossi sentita in difficoltà, di attirare l’attenzione dicendo che quel dato individuo si era sentito male, in modo tale che l’attenzione ricadesse su di lui e io potessi allontanarmi. 

Da ragazzina ero molto più coraggiosa di oggi, spavalda, sicura che in qualche modo mi sarei difesa e che niente e nessuno mi avrebbe fatto del male.

Oggi sono meno sicura ma mi sforzo di non aver paura, uso il buon senso e non mi espongo a rischi eccessivi. Quando torno a casa la sera tardi uso dei piccoli “stratagemmi”. 

Prima di scendere dalla macchina prendo le chiavi di casa, tenendo la chiave del portone stretta tra due dita, se parcheggio relativamente lontano cammino sul lato più esterno del marciapiede, cioè vicino alla strada e non al muro. Aguzzo l’udito, bado sempre ad avere una mano libera, non tengo i capelli raccolti in una coda, se aspetto l’ascensore poggio le spalle al muro.

So che è una limitazione, ma sento che ormai è una parte automatica di me: da un lato mi protegge, dall’altro lo combatto perché è ingiusto”. D., 35 anni

 

Lavoro in un negozio e mi capita spesso che i clienti si comportino in modo inappropriato. C’è un signore distinto sulla settantina, molto ben visto, che ogni volta che esco dal bancone per prendergli qualcosa mi squadra dalla testa ai piedi indugiando con aria sodisfatta come a dire – Che bella cosa che sto guardando! -. Io alzo gli occhi al cielo, gli faccio delle battute per fargli capire che non è il caso ma serve a poco. Poi purtroppo (e mi rendo conto che non è giusto) io sono anche in una situazione difficile: glielo faccio capire ma devo sempre un po’ tenermi, non rispondo come vorrei…perché comunque sono clienti. Come mi fa sentire? Scocciata, infastidita, disgustata!

Ce n’è un altro che da anni, invece, mi chiede di uscire insieme, anche davanti a mio padre! Io gli rispondo sempre male ma non capisce. Uno, due, tre…poi basta! Non è necessario che ogni volta che mi vedi me la conti che sono bella e mi inviti a uscire. Stop, è arrivato il momento di smetterla! Il fatto è che siccome la mette sul gioco e lo scherzo lui pensa che gli sia consentito, ma in realtà è un consenso che si prende lui e che non gli ho mai dato io. Ti fa sentire stanca, arrabbiata perché il No è un No! Perché non riesci a capire il senso di un no ma ti prendi il diritto di continuare quando te lo dico? È come se il nostro No non avesse valore, non c’è rispetto del mio No”. V., 32 anni

 

– Avrò avuto 14 o 15 anni ed ero sul pullman per il mio consueto tragitto casa-scuola. Palpate e strusciamenti indesiderati erano all’ordine del giorno, tanto che viaggiavo coi gomiti in fuori e con le amiche ci guardavamo le spalle. Un giorno mi è capitato davanti un anziano al quale subito non ho prestato attenzione. Nel momento in cui il pullman si è riempito, però, me lo sono trovato appiccicato a un palmo dal naso. Approfittando della confusione e del poco spazio vitale, con la mano ha slacciato la patta dei miei pantaloni (che non avevano la zip ma ben 3 o 4 bottoni!) e ha intrufolato le dita sopra la biancheria afferrandomi per il pube. Ricordo la vampata di calore e il fischio nelle orecchie per l’allarme e la rabbia, ma nonostante aprissi la bocca per protestare non ne è uscito suono. Alla prima fermata è velocemente sceso e io sono rimasta pietrificata ancora per un po’. 

 

– Da più grande, universitaria, una sera stavo rientrando a casa dei miei e non si trovava mai parcheggio vicino. Ho messo l’auto nella via parallela e dovevo fare mezzo isolato a piedi per tornare a casa. Sapevo che sarei dovuta passare di fronte a un pub che raccoglieva sempre gruppi di uomini alticci, ma la strada alternativa era più buia e isolata. Mi son fatta coraggio e gli son passata davanti a passo spedito e con le chiavi pronte in mano impugnate tra le dita. A parte qualche battuta o fischio, nulla di che per fortuna. Svoltato l’angolo, però, mi accorgo che un tizio che stava in auto di fronte al pub, inizia a seguirmi guidando a passo d’uomo, dicendomi schifezze dal finestrino abbassato. Per arrivare al portone mi mancavano ancora almeno 5 minuti a piedi. Ho fatto la strada accelerando e chiamando i miei sperando si svegliassero per venirmi incontro o almeno aprirmi la porta in tempo. Per fortuna hanno aperto il portone perché non so se sarei riuscita ad infilare le chiavi dal panico che avevo. Il tizio mi ha comunque seguita fino al portone di casa continuando a ridere e dire oscenità. Ho fatto fatica ad addormentarmi. Ricordo che i miei mi hanno proposto di tenere una mazza da baseball nel bagagliaio!

 

– Quando torno a casa la sera tengo le chiavi in mano, a volte chiamo qualcuno o fingo di parlare, appena raggiungo l’auto metto la sicura, non parcheggio mai nei sotterranei e ho attivato il tasto di emergenza sul telefono. Inoltre, nel mio lavoro di psicoterapeuta, quando faccio una prima seduta con un uomo adulto cerco di avere un/a collega nell’altra stanza. Spesso non ci riesco e allora avviso qualcuno a cui confermerò per messaggio se mi sembra tutto ok”. V., 35 anni

 

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

 

Fonti:

https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/numero-delle-vittime-e-forme-di-violenza

https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/gravita-e-conseguenze

https://www.bbc.com/news/uk-56384600

https://www.valigiablu.it/sarah-everard-violenza-donne-polizia/

https://www.internazionale.it/opinione/arwa-mahdawi/2021/03/15/everard-corpo-donne

https://news.sky.com/story/sarah-everard-six-high-profile-women-on-the-impact-of-33-year-olds-death-and-how-police-handled-vigil-in-her-honour-12245704

https://www.bbc.com/news/world-56337819

https://www.bbc.com/news/newsbeat-56361529

https://www.ilpost.it/2021/03/19/sarah-everard-femminicidio-londra/

https://ihaveavoice.it/sarah-everard-rapita-uccisa/

https://ilbolive.unipd.it/it/news/2020-stato-lanno-peggiore-femminicidi

https://www.stateofmind.it/2020/11/molestie-di-strada-psicologia/

https://www.elle.com/it/magazine/women-in-society/a34723281/notallmen-hashtag-significato/

https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2015/05/29/notallmen/

https://time.com/79357/not-all-men-a-brief-history-of-every-dudes-favorite-argument/

https://donna.fanpage.it/le-donne-spiegano-agli-uomini-come-farle-sentire-piu-al-sicuro-5-consigli-da-seguire/

https://www.ilpost.it/2021/03/16/australia-proteste-violenze-genere/

https://freedamedia.it/2020/02/20/le-molestie-da-strada-sono-molestie-non-minimizziamole/?fbclid=IwAR3KLncP1vMEnYu8f_Rxwz4tzlq3qsel7XDv4w7AdZJQSm3NLZkVn4UkXMg

https://www.instagram.com/p/CNHL4NmFHt-/?igshid=4by25h31r4l8

https://www.instagram.com/p/CM6xgGQlZBj/?igshid=1mvveorw09p99

https://www.instagram.com/p/CHsXt3vFkas/?igshid=1ej5dvfqpptar

https://www.instagram.com/p/CMdXePDAtsy/?igshid=10of07ynyxwr7

https://www.youtube.com/watch?v=fMLnCVmZ-_U

https://www.youtube.com/watch?v=bGZbyUGm3vs&t=125s

 

 

Circolo della Sicurezza – Parenting (COS-P® ): programma online di sostegno alla genitorialità

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Il Circolo della Sicurezza – Parenting (COS-P®) è un programma esperienziale di sostegno alla genitorialità che ha come obiettivo quello di aiutare e sostenere i genitori nella relazione con i propri figli.

Vivere comporta affrontare sfide e rispondere a richieste: fisiche, emotive e di performance proprie e altrui. Diventare genitori comporta una sfide non indifferente in una società dove la coppia genitoriale tende ad essere l’unica a rispondere alle esigenze del proprio figlio. Talvolta i nonni e gli zii sono lontani, o non disponibili perché occupati lavorativamente o nelle loro famiglie. Le recenti ricerche rilevano come le famiglie abbiano sperimentato e continuino a sperimentare fatica e difficoltà nella gestione dei propri figli, non solo da un punto di vista comportamentale ma anche emotivo. La sensazione di sentirsi persi, di fronte a comportamenti sentiti come problematici, è sempre più frequente.

Il Circolo della Sicurezza – Parenting si basa su oltre cinquant’anni di ricerche volte a sostenere e rafforzare le relazioni sicure fra genitori e figli, promuovendo una lettura che vada al di là dei soli comportamenti manifesti. Si tratta della possibilità di leggere con nuove lenti, quei bisogni e quelle emozioni che a volte, bambini e/o adolescenti “urlano” nei modi più impensabili.

 

A chi è rivolto?

Il programma COS-P® è indicato per tutti coloro che vogliono capire meglio i bisogni dei propri figli per rispondervi in modo adeguato. È pensato per genitori in coppia, single, adottivi e affidatari.

 

Cosa aspettarsi?

Il COS-P®  è  un programma di psicoeducazione di tipo esperienziale, condotto da un terapeuta appositamente formato nel modello del Circolo della Sicurezza – Parenting e da un facilitatore.

Grazie all’utilizzo di video e schede di osservazione, i partecipanti verranno aiutati a identificare le emozioni più critiche che i propri figli possono provare in alcuni momenti e come queste, se non adeguatamente riconosciute, possono interferire nel rapporto con loro. L’obiettivo è quello di promuovere e sostenere una buona capacità di osservazione che li aiuti a comprendere, con nuove lenti,  tutti quei comportamenti che, il più delle volte, possono apparire tanto incomprensibili quanto “strani” o “problematici”, ma che in realtà nascondono un bisogno specifico più profondo.

I partecipanti avranno inoltre, l’occasione di riflettere su se stessi, per diventare maggiormente consapevoli delle proprie modalità di essere genitore e di come queste possono influire nel modo di essere in relazione con i propri figli. Avranno anche la possibilità di riflettere su quello che per loro risulta essere più critico e di come riconoscere le “rotture” all’interno del rapporto, per poterle “riparare”.

L’obiettivo finale è quindi, quello di valorizzare e rafforzare le competenze genitoriali di accudimento in modo da  promuovere una relazione genitore-figlio il più possibile sicura e armoniosa.

Quando si svolgerà il corso?

Il programma COS-P® prevede 8 incontri di gruppo della durata ciascuno di 90 minuti che si terranno in modalità telematica e a cadenza settimanale. Gli incontri saranno il giovedì dalle 18-30 alle 20 a partire dal 22 aprile fino al 17 giugno.

Gli incontri saranno online su piattaforma Zoom

È previsto un incontro gratuito di presentazione il 15 aprile alle 18.30 . Per partecipare bisogna prenotarsi inviando una mail a ecoassociazione@gmail.com

Partecipanti:

Massimo 4 coppie per un totale di 8 partecipanti.

A seguito dell’incontro di presentazione e delle adesioni pervenute, si cercherà di creare un gruppo che tenga conto dell’età dei propri figli, in modo da renderlo il più omogeneo possibile.

 Costo

Il costo per l’intero corso (12 ore) è di 150 euro per un genitore, 250 euro per la coppia genitoriale, a cui vanno aggiunti 10 euro a testa per le spese di segreteria

 

Per informazioni e iscrizioni:

Dott.ssa Antonia Di Pierro cell. 3665069361

ecoassociazione@gmail.com

LA DIPENDENZA AFFETTIVA Caratteristiche e una possibile distinzione tra legami sani e disfunzionali

Nella vita c’è molta sofferenza,

e forse l’unica sofferenza che si può evitare è

la sofferenza di cercare di evitare la sofferenza

(Ronald David Laing)

 

Ai giorni d’oggi, si sente spesso parlare di “Dipendenza Affettiva” ma sappiamo bene cosa indica questo termine? È l’amore irrefrenabile e romantico “con qualche spiacevole imprevisto”? Quali esperienze di una persona provocano maggiormente il rischio di sviluppare una dipendenza affettiva?

La Dipendenza Affettiva viene classificata tra le “New Addiction” ovvero tra le nuove dipendenze comportamentali che non hanno come destinatario una sostanza chimica esterna al soggetto ma hanno un oggetto o persona con cui viene stabilita una dinamica psicopatologica di esclusività di legame come ad esempio la dipendenza da internet, la dipendenza sessuale, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza dallo sport, shopping compulsivo e la dipendenza dal lavoro.

La Dipendenza affettiva sembra essere il risultato di un irrigidimento pervasivo e disfunzionale delle caratteristiche naturali di una relazione amorosa, caratterizzato da: desiderio compulsivo, impegno ossessivo e una certa perseveranza di comportamenti problematici, caratteristiche generalmente presenti nelle dipendenze comportamentali.

Essa è definibile quindi come uno stato patologico in cui la relazione di coppia è vissuta come condizione unica, indispensabile e necessaria per la propria esistenza nonostante causi del malessere psicologico e/o fisico.

Esaminando il concetto di dipendenza, è importante dire che una certa quota di dipendenza è inevitabile in ogni singolo essere umano, sarebbe impossibile il contrario poiché siamo inevitabilmente dipendenti dai nostri familiari, da eventi esterni e da tutto ciò che non possiamo controllare e che in vario modo influenza la conduzione della nostra esistenza.

Ancor più in una relazione sentimentale ovvero in una storia d’amore, un certo grado di dipendenza sana dal partner diviene parte integrante della relazione stessa, specie nelle prime fasi dell’innamoramento caratterizzate non solo da intensi sentimenti di simbiosi, euforia, condivisione intima, intensa affiliazione verso il partner ma anche da un certo grado di idealizzazione (il partner è visto come “perfetto e infallibile”). Il desiderio di dipendenza, nelle relazioni ideali, viene meno con lo stabilizzarsi del rapporto e viene in gran parte sostituito nei partner da una piacevole percezione di autonomia.

Ci si potrebbe chiedere allora qual è lo spartiacque tra una relazione affettiva-sentimentale sana e una rigida-disfunzionale? Come poter capire se la quota di dipendenza presente nella coppia risponde ad un bisogno sano e psicofisiologico della stessa oppure ad un bisogno autoreferenziale e malsano da eccessivo potere e controllo sull’altro?

Un possibile e generico criterio per individuare un legame patologico, qual è la dipendenza affettiva, potrebbe essere rappresentato proprio dall’eccessiva rigidità e pervasività degli aspetti di dipendenza spesso presenti assieme alla connotazione di assoluta necessità e impellenza degli stessi, per i quali non sembra poter esserci nessun tipo di compromesso o via di mezzo.

In una relazione disfunzionale l’individualità di ogni partner viene annullata dai bisogni e desideri dell’altro facendo venir meno la capacità di percepirsi e di conseguenza rispettarsi come individui separati e autonomi ovvero di conservare la propria individualità riconoscendo l’altro nella sua diversità, configurando quella che definiamo appunto una Dipendenza affettiva o Love Addiction.

Essa ha origini nell’infanzia poiché le persone dipendenti spesso compensano un senso di vuoto esistenziale che deriva dall’aver esperito spiacevolmente la separazione nell’infanzia seguita da un pervasivo senso di impotenza non elaborato nelle fasi di sviluppo successive (Caretti, La Barbera, 2009).

Il passaggio da una relazione sana ad una relazione disfunzionale (premesso che ci sia e che la relazione patologica non nasca a volte come tale in origine) ha in realtà una genesi multifattoriale poiché sono innumerevoli le variabili che ritroviamo come un legame di attaccamento nell’infanzia con il caregiver di tipo insicuro-ambivalente ovvero figure di riferimento presenti ma in modo intermittente e scostante con, a volte, un’inversione dei ruoli tra bambino adultizzato e un genitore-bambino (Borgioni, 2015).

Di conseguenza, da adulti imparano che per poter ricevere l’amore dell’altro (idealizzato), è necessario controllarlo in modo ossessivo e instaurare con lui una simbiosi emotiva che permetta di sopravvivere psichicamente, simbiosi nella quale l’idea dell’abbandono è terrorizzante.

Proprio la paura dell’abbandono di conseguenza starebbe alla base delle azioni di controllo del partner attraverso la richiesta di comportamenti di sacrificalità, eccessivo accudimento e nel pensiero (a volte quasi ossessivo) che la relazione rimanga stabile e duratura.

Robin Norwood in “Donne che amano troppo” (1985), sottolinea i fattori emotivi e le modalità tipiche di pensiero in comune delle donne dipendenti: la trascuratezza emotiva durante l’infanzia, la mancanza di un affetto stabile e sicuro a cui fare riferimento nei momenti di difficoltà e soprattutto la tendenza a ri-attribuirsi nella propria vita di coppia un ruolo simile a quello vissuto con i genitori in passato.

Spesso si ritrovano sensazioni di inadeguatezza, di non amabilità ovvero la mancanza di dignità nel ricevere amore, la tendenza a colpevolizzarsi e a leggere il comportamento del partner come informazioni su se stessi (<<Mi tratta così perché ho sbagliato>>) e non sull’altro (<<Mi tratta così perché lui è sgarbato/aggressivo…>>) nonché una certa consapevolezza cognitiva (ma non emotiva) delle conseguenze negative.

Questa relazione è priva di mutualità dal punto di vista affettivo (poiché sono i bisogni dell’altro ad essere centrali) e vedono spesso come partner del “dipendente affettivo” personalità egocentriche e anaffettive (spesso narcisisti) che pongono richieste affettive esagerate e tendono poi a confermare, nell’altro partner, la credenza di non essere degni d’amore.

Ricordiamo che la Dipendenza Affettiva riguarda appunto una dinamica duale e non di un singolo individuo, benché possa partire ed essere maggiormente alimentata da un solo partner.

Se hai riscontrato in te e/o nella tua situazione passata o attuale qualche aspetto descritto nell’articolo, non esitare a contattare l’Associazione Eco per poter intraprendere un percorso psicoterapeutico nel quale fare maggior chiarezza sulla propria relazione sentimentale e sul grado di soddisfazione della stessa.

Il trattamento psicoterapeutico in questi casi può incrementare:

  • Un processo di comprensione delle motivazioni sottostanti la dipendenza;
  • La rielaborazione delle esperienze negative permettendo la creazione di nuovi legami affettivi più costruttivi;
  • Migliorare la propria competenza assertiva e di autodeterminazione per apprendere come esprimere i propri bisogni senza timore e di conseguenza avere una maggiore consapevolezza, autostima e auto-efficacia.

Dr. ssa Maria Grazia Esposito Psicologa Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA:

– Borgioni, M. (2015). Dipendenza e contro-dipendenza affettiva. Roma Alpes Italia.
– Caretti, La Barbera (2009), Le nuove dipendenze. Diagnosi e clinica. Carocci editore.

– Robin Norwood (1985), Donne che amano troppo. Feltrinelli.

 

TRADIMENTO: UNA FERITA CHE PUO’ GUARIRE

“Un tradimento uccide soltanto gli amori già morti.

Quelli che non uccide a volte diventano immortali.”

MASSIMO GRAMELLINI

 

 

 

 

Il concetto di “tradimento” era già presente nella lingua latina del XII secolo e con tale termine s’intende l’atto e il fatto di venir meno a un dovere o un impegno morale o giuridico di fedeltà e di lealtà.

Da sempre il mondo ha visto alternarsi traditori e traditi, e di questo la storia insegna, ma quando si parla di tradimento all’interno di relazioni affettive ci si sente sempre disarmati e vulnerabili.

Per quanto si tratti di un’esperienza molto comune è altrettanto temuta e mette a dura prova relazioni e matrimoni, determinando spesso conseguenze devastanti.

Quando diventiamo uditori di storie di tradimenti, inevitabilmente attiviamo una comprensione, una vicinanza emotiva verso la “vittima”, e il traditore diventa bersaglio di sguardi (e spesso anche di critiche) di disapprovazione, di disgusto e di disprezzo.

È facile “sintonizzarsi” con chi ha subito un atto di questo tipo e lasciamo in ombra l’altro partner, ignorando  la sua sofferenza.

Proviamo ad addentrarci meglio in queste delicate dinamiche, ma per farlo proviamo a sospendere il giudizio. Teniamo ben presente che il tradimento non avviene mai per caso, non compare dal nulla. Sebbene  da molti viene definito come “un fulmine a ciel sereno” o una “doccia fredda”, portando uno sguardo analitico alle relazioni è possibile cogliere segnali che lo anticipano.

Tra questi sicuramente si delinea la scarsa capacità dei coniugi di gestire i conflitti generando liti sempre più furiose o silenzi sempre più strazianti. Entrambe le modalità contribuiscono ad aumentare la distanza tra i partner e, confrontandosi sempre meno su ciò che pensano, si trovano negli anni ad essere estranei, a non sapere più cosa l’altro pensi.

Oltre la distanza emotiva si verifica una perdita di quegli apprezzamenti che tengono viva la relazione, per lasciare spazio, invece, alle critiche che nel tempo diventano sempre più pungenti: il partner viene messo sempre più nell’ombra, aumentano i confronti con gli altri e, come un cancro, l’intimità ne viene colpita fino a venirne distrutta completamente.

Chi viene tradito porta su di sé una profonda ferita e il tipo di sofferenza può venir paragonato, a tutti gli effetti, a quella di chi soffre di un disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Chi viene tradito risulta essere iper vigilante, sospettoso e controllante. La loro mente viene invasa da pensieri e immagini del partner con l’amante (flashback) e appaiono emotivamente instabili, alternando rabbia, dolore e panico che aprono le porte a momenti depressivi.

E quando il partner tradito decide di voler andare oltre al tradimento e rimettere in piedi la relazione, ecco che si innesca un percorso ancora più faticoso: la fase dell’espiazione.

Le scuse che il traditore può rivolgere al partner spesso non bastano, c’è bisogno che vengano ripetute più e più volte, richiedendo anche settimane o mesi. É necessario ricostruire la fiducia che è venuta a mancare e per poterlo fare occorre trasparenza: il partner tradito ha l’esigenza di ricevere risposte alle innumerevoli domande che si hanno sulla relazione extraconiugale e il traditore deve garantire sincerità.

In questa fase è necessario però evitare qualsiasi dettaglio sui rapporti sessuali avvenuti tra il partner e l’amante per non alimentare nel partner tradito l’immaginazione visiva che lo bloccherebbe nel suo PTSD. D’altro canto il partner tradito dovrebbe evitare critiche e disprezzo verso il coniuge poiché andrebbe a minacciare la possibilità di venire ascoltato.

La rabbia è lecita, ma deve venir comunicata evitando attacchi diretti.

La fase dell’espiazione è una fase molto delicata: le scuse se vengono espresse prematuramente rischiano di essere inefficaci; c’è la necessità che il dolore del partner tradito debba venir accolto e compreso dal coniuge che ha tradito per riuscire ad andare oltre.

La seconda fase prende il nome di sintonizzazione e può prendere il via solo quando le domande del partner tradito sono esaurite, quando ci si sente di non aver più nulla da chiedere. Questa è la fase che permette di andare oltre il tradimento e di focalizzarsi sui problemi presenti all’interno della relazione. Ovviamente si tratta di problemi che erano già presenti nella relazione.

È proprio questo il momento in cui ci si accorge che “ci vogliono due persone perché il matrimonio entri in crisi” (J. S. Gottman n e J. M. Gottman).

In questa fase è necessario aprire le porte alla possibilità di “un secondo matrimonio”, di una relazione con nuovi presupposti. L’obiettivo infatti è aiutare i partner a sintonizzarsi con i bisogni dell’altro, ad accogliere in modo empatico i vissuti e i sentimenti altrui.

Quando la gestione dei conflitti tra i coniugi migliora, riprendendo a conoscersi meglio e condividendo nuovi modi di entrare in contatto, è possibile passare, allora, alla terza fase: l’attaccamento.

In quest’ultima fase deve far ritorno anche un’intimità fisica, probabilmente annullata quando il tradimento aveva  distrutto la fiducia nell’altro.

Se la Psicoterapia ti permette di “toccare con mano” il cambiamento, tutto questo appare ancora più evidente quando si lavora con le coppie.

“Le persone impegnate in una relazione possono cambiare. Talvolta hanno bisogno di venire a conoscenza di possibili alternative alle proprie antiche pratiche distruttive” (J. S. Gottman n e J. M. Gottman).

 

 

Bibliografia:

“Dieci principi per una terapia di coppia efficace” di J. S. Gottman n e J. M. Gottman, Raffaello Cortina Editore, 2019

Dr.ssa Sonia Allegro

So cosa fai, so dove sei e so cosa provi.

Il titolo di questo articolo potrebbe sembrare una minaccia personale, o il sottotitolo di una serie tv inquietante, ma invece parleremo dei neuroni specchio.

Spesso le scoperte sono frutto di un lungo e lento lavoro di ricerca, altre volte della casualità, come fu per la scoperta  della penicillina da parte di Fleming e dei neuroni specchio, appunto.

All’inizio degli anni novanta alcuni esperimenti effettuati all’Università di Parma diedero risultati sorprendenti. ISi scoprì che i micro elettrodi (sono elettrodi che monitorano l’attività anche di singoli neuroni) impiantati nel cervello di una scimmia si attivavano in zone diverse del cervello anche se l’attività svolta era la stessa: prendere qualcosa. Altre volte lo stesso neurone si attivava invece per movimenti di muscoli differenti. Si cominciò ad intravedere una logica quando si capì che a determinare l’attivazioni dei neuroni era lo scopo dell’azione. Per esempio posso afferrare un anello per vederlo meglio, o per grattarmi: l’azione è la stessa, ma lo scopo differente, quindi si attivano neuroni differenti.

In un laboratorio i micro elettrodi impiantati nel cervello di una scimmia, che si attivavano quando essa portava il cibo alla bocca, cominciarono ad emettere il suono corrispondente a questa azione anche quando la scimmia era ferma. Come spiegare questo evento visto che non c’era nessun mal funzionamento degli elettrodi, o del software? I neuroni che si attivavano quando essa mangiava, si attivavano anche quando stava ferma, ma vedeva un altro individuo compiere quell’azione!

Data la capacità di questi neuroni di attivarsi quando “riflettevano” le azioni di altri vennero chiamati neuroni specchio.

Studiando il cervello umano si è visto che i neuroni specchio sono presenti anche in esso. C’è però un’importante differenza tra esseri umani e primati non umani: le azioni intransitive (senza uso di oggetti, ma mimate) attivano i neuroni specchio solo negli esseri umani. I gesti simbolici infatti (per esempio fare il gesto ok con le dita) fanno parte soprattutto del nostro repertorio motorio. Ma questi neuroni si accendono anche quando si sente descrivere un’azione, o si legge di essa.

Gli scienziati si sono chiesti come mai la capacità di comprendere le azioni altrui si è affermata nel corso dell’evoluzione. La risposta è che comprendere perché gli altri agiscono in un certo modo può fare la differenza tra il sopravvivere, o il diventare il pasto di un predatore.

Questi neuroni non solo ci dicono cosa l’altro sta facendo, ma anche perché lo sta facendo, grazie alla capacità di elaborare informazioni spaziali, cioè sanno dove siamo e dove sono gli altri (persone o oggetti).

Una persona che ci osserva muoverci riesce quindi a sapere cosa stiamo facendo, perché lo stiamo facendo, dove lo stiamo facendo e anche cosa stiamo provando mente lo facciamo.

Il modo in cui si fa una cosa: velocità dell’azione, fluidità, precisione, forza, traiettoria ed altro, ci danno informazioni su cosa la persona sta provando. Lavare una tazza lentamente e con precisione, piuttosto che velocemente e sbattendola sul ripiano dà al nostro cervello informazioni sullo stato emotivo, che possiamo riconoscere se anche noi ci siamo sentiti così nella vita.

Il funzionamento dei neuroni specchio sono alla base quindi dell’empatia.

Essi sono coinvolti anche nell’apprendimento per imitazione e del linguaggio? Come si è evoluto il linguaggio?

Per avere queste risposte e per approfondire le scoperte inerenti questi neuroni potete leggere Nella mente degli altri, neuroni specchio e comportamento sociale di Rizzolatti e Vozza, edito da Zanichelli. Un libro denso di informazioni, ma semplice e scorrevole da leggere, cosa che distingue i libri della collana Chiavi di lettura di Zanichelli.

Dr.ssa Luigina Pugno

LA PANDEMIA HA RESO I NOSTRI RAGAZZI HIKIKOMORI?

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Questo termine, derivante dalla lingua giapponese, si sta diffondendo negli ultimi mesi in modo spesso improprio e sommario per descrivere l’atteggiamento di ritiro sociale e attaccamento alla rete che i nostri adolescenti stanno manifestando a seguito dei forzati lockdown e della didattica a distanza, resasi indispensabile per contenere la pandemia.

Ma l’accostamento del termine “hikikomori” a questa descrizione situazionale crea confusione sul reale significato di questa parola e sul fenomeno che descrive.

Qual è dunque il reale significato di questo termine?

"Hikikomori" è un termine giapponese che significa letteralmente "stare in disparte" e viene utilizzato clinicamente per descrivere il comportamento di chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori.

Inizialmente, quando negli anni ‘90 lo psichiatra Tamaki Saito (1998) iniziò ad indagare in modo più approfondito il fenomeno, sembrava essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, tuttavia con il passare del tempo ci si è resi conto che il fenomeno sembra più vicino ad un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo.

Si è infatti rapidamente diffuso anche in Corea e Cina ed è approdato negli Stati Uniti intorno all’inizio del nuovo millennio (Block, 2008).

E’ un comportamento che insorge frequentemente nella fascia di età tra i 14 e i 25 anni, anche se, negli ultimi anni, sta coinvolgendo un crescente numero anche di giovani adulti. In Giappone il fenomeno ha contato nel 2018 circa 1 milione di casi.

Il termine Hikikomori è stato tradotto in modo più internazionale, sempre da Saito, in “Social withdrawal”, una condizione sociale più ad ampio spettro, caratterizzata prevalentemente da sentimenti di solitudine, isolamento, ritiro dalla società e dalle relazioni interpersonali. Un mettersi in disparte sostituendo il tempo della relazione con un tempo trascorso in isolamento totale, concedendosi soltanto l’utilizzo di internet, di fumetti o video giochi: è un ritiro dalla società, è un rifugiarsi nella solitudine. Tuttavia, paradossalmente, questi giovani interagiscono virtualmente in modo molto attivo con l’esterno: attraverso un apparente rifiuto della vita reale essi compiono il loro atto di difesa dal mondo che sta fuori, facendo diventare la propria stanza l’unico spazio di realtà vivibile, inaccessibile a chiunque, come rappresentazione di un riparo da difendere a tutti i costi.

Spesso tendono ad invertire il ritmo giorno-notte, ad addormentarsi al mattino dopo ore trascorse a guardare la tv, a leggere, a giocare ai videogames o a chattare on line durante la notte.

Ma perché a un certo punto del loro percorso di sviluppo alcuni ragazzi decidono di ritirarsi dalla vita sociale e scelgono una modalità di silenziosa sopravvivenza virtuale?

Diversi psicoterapeuti descrivono alcune emozioni riscontrate in modo ricorrente durante i colloqui con i giovani Hikikomori: paura, ansiarabbia e vergogna.

Questi ragazzi riportano vissuti di continua inadeguatezza, che li spinge a ritirarsi dal confronto con gli altri, per evitare di sperimentare costantemente un senso di frustrazione e di sconfitta.

Il Giappone è sicuramente, attualmente, il paese più colpito in assoluto e la ragione principale va ricercata nell’alta competizione che pervade tutti i suoi contesti sociali, da quelli scolastici a quelli lavorativi, e nella tolleranza di fenomeni come il bullismo, dove essere esclusi dal gruppo non viene letto come una vittimizzazione, bensì con il significato di aver fallito socialmente poiché  la cooperazione e l’adesione a norme condivise rimangono un valore aggiunto in una società collettivistica come quella giapponese. Al bullismo infatti, non viene attribuito affatto il significato di un’ingiustizia subita dalla persona, anzi, viene interpretato piuttosto come un mostrarsi outsider rispetto al gruppo dei pari, per via della propria non conformità, accrescendo il proprio senso di inadeguatezza.

Ed è proprio nel senso di fallimento sociale che sono da rintracciare le cause profonde di questo fenomeno: dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà si insinuano le paure di fallire, di deludere gli altri, di perdere tempo e, come conseguenza, un forte senso di vergogna di sé.

Molti adolescenti, nella società moderna occidentale si  trovano oggi a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio sé, con aspettative enormi ed ideali di perfezione, che in parte la società propone come modelli a cui aspirare, in parte le famiglie d’origine sostengono come ambizioni da perseguire, proprio per questa ragione il fenomeno hikikomori ha varcato i confini dell’Arcipelago.

Inoltre, entrando più nello specifico, dai numerosi studi che sono stati condotti in Giappone per comprendere se esistesse una multifattorialità di cause all’origine del manifestarsi di questo protratto rifiuto sociale, oltre ad una cultura sociale di ipercompetitività, sono emersi diversi aspetti significativi. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate innanzitutto le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza nelle figure di attaccamento di disturbi psicopatologici associati, come ad esempio la depressione o disturbi d’ansia. Questi ragazzi sono in genere figli unici di sistemi familiari in cui risulta carente la presenza emotiva del padre e un attaccamento molto invischiato con la figura materna. Hanno genitori che, in modo differente, faticano a relazionarsi con il figlio, il quale spesso rifiuta qualsiasi tipo di aiuto.

Sono ragazzi con una particolare sensibilità: questa caratteristica, spesso non identificata come una risorsa, e di conseguenza non declinata come una competenza,  rappresenta per loro una fragilità, in quanto crea difficoltà nell'instaurare relazioni soddisfacenti e durature, li rende impreparati ad affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni che la vita riserva. Per questa ragione diventano inibiti socialmente, seppur dotati di una estrema intelligenza.

Da un punto di vista sociologico, invece, si sono indagati soprattutto i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo, e all’avere un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali e sociali su cui si basa la tradizione giapponese. L’ipotesi che ne è scaturita ha confermato quindi che questi giovani, pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo e sulla tendenza a voler sempre primeggiare sia a scuola che al lavoro, non si sentano all’altezza degli standard loro richiesti e preferiscano privarsi della libertà pur di evitare di affrontare una realtà quotidiana che avvertono come opprimente.

La compresenza di più fattori di rischio aumenta in genere il numero di ambiti in cui il ragazzo riscontra difficoltà, portandolo ad una  crescente demotivazione nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Viene messo in atto un meccanismo di evitamento, un rifiuto ad affrontare le problematiche e un conseguente ritiro in un luogo che trasmette protezione: la casa, nello specifico la propria stanza: questi ragazzi nei casi più gravi non si recano neanche più in cucina per consumare i pasti ed escono dalla propria stanza da letto giusto per recarsi in bagno e mantenere una minima igiene personale.
La reclusione appare l’unica soluzione, l’unico strumento per manifestare il proprio dissenso o il proprio disagio rispetto ad un gruppo e alle sue norme. 

Tale interpretazione sembrerebbe confermata anche dalle testimonianze di tanti giovani ex Hikikomori che, in genere, dichiarano di essere nauseati da tutto, soprattutto dal fatto che il loro modo di vedere le cose e la società non corrisponde alle attese, tanto da sentire di non avere altra scelta oltre al “rinchiudersi” (Secher, 2002).

La letteratura ci insegna come l’identità dell’adolescente si struttura grazie a diversi elementi, tra cui fondamentale importanza assumono l’adesione o la critica di norme sociali e regole dettate dalla famiglia e dalla società e il rispecchiamento e l’identificazione nel gruppo dei pari. Gli adolescenti Hikikomori, interrompendo questo legame con la società e con il gruppo, è come se si chiamassero fuori dal percorso adolescenziale, indispensabile però per il passaggio alla vita adulta. E’ molto complicato pertanto per questi ragazzi riuscire a strutturare una propria identità e spesso preferiscono adeguarsi ad identificarsi con l’”etichetta” che la società gli fornisce, descrivendo il loro fenomeno esistenziale, seppur in termini negativi.

Sovente viene anche erroneamente attribuita loro una dipendenza da internet, indicata come una delle principali cause scatenanti del fenomeno, essa invece rappresenta più una possibile conseguenza dell'isolamento che una causa: utilizzare la rete è l’unico mezzo con cui questi ragazzi possono restare in contatto con il mondo esterno ed è anche una delle poche attività praticabili nel tempo libero chiusi nelle quattro mura della propria cameretta. Il fenomeno è infatti scoppiato in Giappone ben prima della diffusione del personal computer e della rete. Questo significa che prima che esistesse internet l'isolamento degli hikikomori era totale. Da questo punto di vista, l'utilizzo del web può essere interpretato come un fattore positivo, in quanto consente ai ragazzi di continuare a coltivare delle relazioni sociali e interessi che altrimenti sarebbero loro preclusi.
Il fenomeno va pertanto distinto dall’abuso tecnologico o da altre forme patologiche, anche se, dobbiamo evidenziarne un elemento comune: si sceglie una vita virtuale che sostituisce in pieno il reale ( L.T. Pedata, M. Interlandi, 2012). Il senso di vergogna sperimentato nel contatto con l’altro, in rete viene placato, anche se non completamente. La dimensione del gruppo sulla piattaforma virtuale crea un senso di appartenenza e di accettazione immediata che non sembra essere caratterizzato dai tempi e dalle regole più severe a cui sottostanno i gruppi nella realtà quotidiana  (Lavenia 2012).

Quello che la letteratura ci suggerisce pertanto è che i ragazzi hikikomori, seppur in una situazione di fragilità emotiva, scelgono di evitare il mondo e di ritirarsi, motivo per cui siamo portati a propendere per il fatto che sia errato assimilare la situazione dei nostri adolescenti durante la pandemia a questo fenomeno. Gli adolescenti in questi mesi, in tutto il mondo, si sono trovati costretti ad adeguare la loro relazionalità all’impossibilità di uscire di casa e di frequentare la scuola. E’ possibile che alcuni ragazzi, già precedentemente all’insorgere della pandemia, avessero delle fragilità relazionali e che la costrizione a restare a casa sia stata vissuta come un sollievo anziché un obbligo da rispettare, ma per la maggior parte dei ragazzi la rete è stata vissuta come la risorsa indispensabile per mantenere un minimo di socialità e normalità. Possiamo concludere che sarà opportuno occuparsi di queste fragilità se in qualche ragazzo l’isolamento perdurerà anche con il terminare dell’emergenza sanitaria, quando la nostra socialità e la nostra relazionalità potranno tornare ad essere fatte di realtà non virtuale.

Dottoressa Consuelo Aringhieri

Quando il passato ritorna prepotente nel nostro presente: la solitudine come patto di lealtà

“Non esiste nessuno a cui piaccia la solitudine. E’ solo che odio le delusioni” 

Haruki Murakami

Le ricerche sull’attaccamento e sulla relazione madre-bambino, dimostrano quanto, per ciascuno di noi, sia importante creare relazioni con gli altri. Fondamentalmente è la relazione con l’altro a determinare la nostra identità (Bowlby, 1989; Bartels & Zeki, 2004).

Il processo di individualizzazione si fonda sul bisogno di appartenenza e di differenziazione.

L’appartenenza è il bisogno del bambino di appartenere e riconoscersi nella sua famiglia d’origine.  Con la crescita, il ragazzo prima e l’adulto poi, sentirà la necessità di appartenere non solo al suo nucleo d’origine, ma anche di appartenere al contesto sociale in cui vive (Bateson,1977). L’uomo, costruendo la propria rete di relazioni interpersonali, riuscirà a definire così, il proprio sé e l’altro da sé.

Per Hawkly e Cacioppo (2010), il bisogno di appartenenza è coinvolto nello sviluppo dell’intersoggettività: “il senso di connessione sociale funziona come un’impalcatura per il sé; se si  danneggia l’impalcatura, il sé inizierà crollare”.

Il bisogno di differenziazione permette il raggiungimento della propria individualità.  La ricerca di relazioni interpersonali appaganti e durature all’interno di un contesto sociale più ampio, porterà  ciascuno di noi a sentirci parte integrante di un tutto e contemporaneamente a mantenere la nostra indipendenza e individualità.

Appartenenza e differenziazione pur assolvendo a funzioni differenti sono la spinta motivazionale a creare relazioni, orientando così il nostro comportamento, le nostre emozioni e i nostri pensieri (Liotti & Farina, 2011). 

Perché ci sentiamo soli? Innanzitutto, è importante distinguere tra solitudine e isolamento.

La solitudine è infelicità, può rappresentare un tratto distintivo della persona o essere  una risposta transitoria a circostanze esterne come lutti, rotture o cambiamenti. Non richiede un necessario isolamento fisico ma piuttosto un’assenza di vicinanza, di contatto, un grado di intimità desiderata che non sempre si è in grado di raggiungere nonostante il contesto sia favorevole.

Non tutti sono stati accompagnati in modo stabile dalla solitudine, ma più o meno tutti da posizioni e prospettive diverse hanno dimostrato una particolare sensibilità nel percepire “muri e ostacoli” tra le persone, sensazioni di isolamento e invisibilità.

La solitudine è l’esperienza di sentirsi separato dagli altri, di non appartenenza e  non condivisione, è sinonimo di insicurezza e auto-svalutazione. Fin da piccoli, quando sperimentiamo un disagio, sia esso emotivo (tristezza, paura, ansia) o fisico (dolore, stanchezza..), sentiamo il bisogno di ricevere affetto dalla nostra figura di accudimento, generalmente la mamma. Il bambino cercherà la vicinanza e protezione dell’altro gridando e piangendo. Quando otterrà una risposta amorevole e accogliente, riuscirà a calmare la sua attivazione fisiologica, disinnescando la risposta alla minaccia. 

Cancrini ha evidenziato come questa relazione di tipo filiale/genitoriale vada oltre il legame di sangue diretto, sostituendo il suddetto termine con legame degli affetti. Tutti quei legami che assumono grande importanza per lo sviluppo degli individui ma che possono non essere naturali: “ figlio o figlia ti è, penso, colui o colei a cui hai dato e da cui hai preso, in una posizione di cura, nello scambio continuo da cui si concreta la vita di relazione, elementi costitutivi della sua identità” (Cancrini, 2020).

I legami, dunque, ci aiutano a sviluppare le nostre capacità di regolazione emotiva. In età adulta, le relazioni, pur orientandosi verso una maggiore reciprocità continueranno ad avere un ruolo fondamentale per il mantenimento del nostro benessere. Anche da grandi avvertiremo il bisogno di sentirci visti, compresi e di poter contare sul supporto di persone per noi importanti. Il bambino che avrà fatto esperienza di un attaccamento sicuro, sarà un adulto capace di tollerare la solitudine e la conseguente sensazione di disorientamento, mantenendo la propria identità integra anche in assenza di una figura di riferimento benevola e protettrice. Seguendo le acquisizioni più recenti della neurobiologia, “la mente si forma nell’ambito delle interazioni fra processi  neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali e i collegamenti umani plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che sono alla base del nostro cervello” (Mucci, 2014). Se la felicità degli esseri umani è legata al vivere con gli altri, per cui i fattori decisivi del successo riproduttivo dell’uomo si fondano sull’empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali (Cacioppo 2009),  allora la solitudine è una condizione patologizzante, che trasforma il bisogno insoddisfatto dell’altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili.

Il sentirsi soli non è necessariamente sinonimo di essere soli e isolati. Ciascuno di noi si è sentito solo, per tempi più o meno prolungati, per propria scelta o a causa di condizioni esterne. Il senso di solitudine bussa alla nostra porta quando vorremmo ricevere amore, contenimento, compagnia, ma sembra difficile riuscirci. Si torna così al tempo iniziale della vita e dello sviluppo emotivo, quando il bambino ha fatto esperienza di sentirsi solo in una situazione di bisogno, vivendo una condizione familiare di forte precarietà affettiva ed emotiva. Oppure si torna al tempo adolescenziale o adulto, quando un evento o un problema, porteranno la persona a confrontarsi con le proprie fragilità, per cui il sentirsi soli si trasformerà nel sentimento della solitudine. L’impatto emotivo che le interazioni dell’infanzia hanno sullo sviluppo della personalità di ciascuno di noi, evidenzia il complesso rapporto tra essere soli, sentirsi soli, e la solitudine nel processo del divenire se stessi (Benjamin). In questi  casi, l’altro diventa per noi imprevedibile, la paura di essere ignorati e abbandonati in qualsiasi momento pietrifica anche la nascita dell’amore, in alcuni casi la sensazione di disconnessione-vuoto dagli altri  è così forte che qualsiasi azione dell’altro non riesce a colmare il nostro bisogno di attenzione e amore. Boon, Steel e Van der Hart (2013) parlano di fobia della perdita dell’attaccamento.

In questi casi si instaurano relazioni complesse caratterizzate da:

  • comportamenti altamente richiestivi verso l’altro, si pretende sempre maggiore vicinanza, attenzioni e risposte sempre più rapide (“perché non mi hai risposto subito?..mi vuoi lasciare?…). Diventa difficile tollerare la frustrazione dell’assenza dell’altro perché magari impegnato nel suo quotidiano. Tutto diventa una misura di quanto l’altro tiene a noi, sembra quasi impossibile regolare le emozioni senza l’aiuto degli altri e, per di più, questo aiuto non sembra mai sufficiente.
  • oppure al contrario, mostrare comportamenti passivi, anticipando sempre i bisogni dell’altro e mettendo in secondo piano i propri (“Vengo subito da te anche se avrei dovuto finire delle cose di lavoro”..). Queste modalità finiscono per esaurire le energie mentali e fisiche, accumulando rabbia e risentimento. 

Qualsiasi sia la strategia, quello che si avverte è un profondo bisogno di contatto e protezione che fatica ad essere colmato. Nascono relazioni non equilibrate che inevitabilmente andranno a confermare l’idea che gli altri siano portati prima o poi a deluderci. A valle della solitudine ci sono molti schemi comportamentali disfunzionali che si ripetono, senza neanche esserne consapevoli.  L’agire per ripetizioni spesso ha a che fare con  la trasmissione intergenerazionale, viene passata da una generazione all’altra, da padre a figlio, da madre a figlia, e la relazione con l’altro riattiva vecchie ferite dell’infanzia (Benjamin 2004).

Spesso accade che le persone desiderano una relazione ma contemporaneamente la temono; questo comporta un’ipervigilanza rispetto alle minacce sociali, l’individuo tende a percepire il mondo in termini sempre più negativi isolandosi sempre di più. Chi si sente isolato e fuori dal giro delle relazioni sociali, inizia a sviluppare una serie di comportamenti negativi  che hanno lo scopo di non incontrare gli altri, per  evitare di essere rifiutati. Una sorta di atto di difesa che non fa altro che aggravare il malessere di partenza. 

Ecco alcune credenze in grado di perpetuare l’isolamento sociale:

  • nel corso della propria esistenza, alcune persone a seguito di ripetute critiche e svalutazioni potrebbero faticare a fidarsi degli altri, attribuendo a quest’ultimi intenzioni malevole. L’isolamento diventa così una strategia per prevenire ulteriori sofferenze o delusioni.
  • le relazioni sono pericolose. E’ meglio essere totalmente autosufficienti. In questi casi è possibile sperimentare un senso di minaccia, paura o pericolo all’interno delle relazioni. Sulla base di ciò ritirarsi dalle relazioni è una risposta comprensibile. 
  • “se vedessero i miei difetti, non potrebbero amarmi”. Quando ci si sente così, profondamente sbagliati, l’isolamento è quindi un modo per non incorrere nel rischio che gli altri scoprano chi si è realmente.

Queste sono alcune delle credenze che rinforzano la sensazione di non poter essere in sintonia con gli altri, di poter creare legami interpersonali basati sulla vicinanza empatica e sull’ascolto. In questo modo diventa difficoltoso accedere ad esperienze relazionali positive, fondamentali per modificare le credenze rigide e inflessibili che condizionano i nostri rapporti presenti. In questo modo il passato ritorna prepotente nel nostro presente, per sentirci al sicuro facciamo e ripetiamo quello che abbiamo visto fare dalle nostre figure di riferimento. Come dice la Benjamin il patto di lealtà con le figure di riferimento è un “dono d’amore”, è la ricerca di un’intimità  tanto desiderata e sognata e contemporaneamente è la perdita della propria differenziazione, del riconoscimento delle proprie idee, pensieri e atteggiamenti.

Alla luce delle considerazioni fatte, la solitudine ha origini lontane ed è espressione di un problema di differenziazione, di individuazione e d’amore: la sofferenza che genera il sentirsi soli, racconta sempre di un percorso di individuazione che è stato messo a repentaglio dal senso di mancanza, di assenza, di vuoto, che la distanza dall’altro suscita. L’atto di rinuncia alla propria identità si manifesta nelle diverse relazioni di dipendenza, sconfinando in un isolamento/solitudine che, seppur con differenti posizioni, asseconda il bisogno di protezione di non esposizione, accrescendo il proprio sentirsi insicuri ed inadeguati , incapaci per sé e per gli altri.

Dott.ssa. Angela Pia Giampalmo

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

  1. Barles, A.; Zeki, S.(2004). The neural correlates of maternal and romantic love. Neuroimage, 21, 1155-1166.
  2. Bateson, G. (1977). Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano.
  3. Benjamin, L.S.(2004). Terapia ricostruttiva interpersonale. Promuovere il cambiamento in coloro che non reagiscono.LAS, Roma.
  4. Boon, S.; Steele, K.; Van Der Hart, O. (2013). La dissociazione traumatica comprenderla e affrontarla. Mimesis Edizioni, Milano
  5. Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  6. Cacioppo, J. T.; William, P. (2009). Solitudine: l’essere umano e il bisogno dell’altro. Il Saggiatore, Milano.
  7. Cancrini, L., (2020). La sfida all’adozione. Cronaca di una terapia riuscita. Raffaello Cortina Editore Milano.
  8. Liotti G., (2010) Lo studio della motivazione in una prospettiva evoluzionistica: cenni storici e concetti di base. Raffaello Cortina Milano
  9. Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione  dissociativa. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  10. Mucci, C., (2014). Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Raffaello Cortina Editore, Milano.